Sono stato dio in Bosnia – Vita di un Mercenario di Erion Kadilli

L’ultimo documentario di Erion Kadilli dimostra ancora una volta l’importanza dello stile all’interno di una categoria audiovisiva (il documentario appunto) le cui scelte formali sono spesso sottovalutate. Di Enrico A. Pili

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Nel documentario di Erion Kadilli il rapporto tra suono e immagine è regolato da scelte stilistiche ben precise. Quando vengono mostrate le immagini dell’obitorio (fig.1), cioè la realtà della morte, il suono scompare. L’insistere della ripresa di Delle Fave sul cadavere, spogliata di ogni commento sonoro, perde il suo elemento di morbosità per divenire semplice processo di esibizione documentaristica della morte. Al contrario, quando il mercenario parla del bambino ucciso a Vincovci (fig.2), è l’immagine a sparire: il racconto epico e terribile del mercenario viene udito dallo spettatore senza alcuna immagine che lo sostenga. La “realtà storica” dell’evento, ormai compromessa dalla narrazione spettacolare di Delle Fave, viene recuperata eliminando ogni possibile immagine, quindi evitando ogni compromesso narrativo. Ci viene così ricordato che qualcuno, fuori dal racconto spettacolare, è morto davvero.

Nel documentario di Erion Kadilli il rapporto tra suono e immagine è regolato da scelte stilistiche ben precise. Quando vengono mostrate le immagini dell’obitorio (fig.1), cioè la realtà della morte, il suono scompare. L’insistere della ripresa di Delle Fave sul cadavere, spogliata di ogni commento sonoro, perde il suo elemento di morbosità per divenire semplice processo di esibizione documentaristica della morte. Al contrario, quando il mercenario parla del bambino ucciso a Vincovci (fig.2), è l’immagine a sparire: il racconto epico e terribile del mercenario viene udito dallo spettatore senza alcuna immagine che lo sostenga. La “realtà storica” dell’evento, ormai compromessa dalla narrazione spettacolare di Delle Fave, viene recuperata eliminando ogni possibile immagine, quindi evitando ogni compromesso narrativo. Ci viene così ricordato che qualcuno, fuori dal racconto spettacolare, è morto davvero.

Topoi e banalità

Il cigno nero, diretto da Darren Aronofsky, è un collage di banalità e banalizzazioni, ultimo aggiornamento della tecnica hollywoodiana di produzione del consenso. Di Angela Bresci

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Vincent Cassel interpreta la parte di Thomas Leroy, direttore e coreografo della compagnia di balletto. Anche lui è un’accozzaglia di banalissimi stereotipi: è autoritario, ambizioso, europeo e spiccatamente omosessuale.

Una delle immagini della trasformazione finale della ballerina interpretata da Natalie Portman nel Cigno nero. In un momento così importante per il personaggio e per l’attrice, che di quel personaggio avrebbe potuto ora mostrare la folle deriva, la recitazione viene abbandonata in funzione dell’effetto speciale. Al volto di Natalie Portman non viene chiesto di fare o esprimere niente, anzi probabilmente viene consigliato di non disturbare l’effetto speciale (gli occhi “demoniaci”). La potenziale riflessione espressiva del volto dell’attrice viene sacrificata a vantaggio di un procedimento (l’effetto speciale) che, al posto di suggerire, assorda: gli occhi rossi sono l’ennesima didascalia mirata a dichiarare l’atmosfera “demoniaca” del momento e la vittoria del doppio “maligno”.

Hereafter. L’aldilà è un ventre materno bianco-latte per chi ha visto, vede, vorrebbe vedere cosa ci attende dopo la morte

Varcato il confine della vita, cosa ci attende? È la domanda delle domande, l’interrogazione che ruota intorno alla tanto applaudita ultima pellicola di Clint Eastwood. Impressioni su un film mancato che cerca di rispondere ad interrogativi millenari col linguaggio lacrimevole di uno pseudo-poeta (inter)nazionalpopolare, con buona pace di Gramsci. Di Letizia Gatti

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Un sensitivo con la faccia del bravo ragazzo Damon che fa l’operaio pur di non dover lucrare sul suo dono, l’infatuazione fallimentare per una giovane e bella ragazza problematica conosciuta durante un corso di cucina italiana a New York, la fuga a Londra sulle orme dell’amato Charles Dickens; una anchorman francese di successo sopravvissuta allo tsunami asiatico che si scopre cambiata, le visioni dell’aldilà, il colloquio con una psichiatra un tempo atea ricreduta, un libro autobiografico controverso, la lotta contro lo scetticismo degli editori-pescecani; i gemelli nati adulti che si prendono cura della madre eroinomane, il bullismo, la morte, i servizi sociali, la tossicodipendenza, il riscatto, l’amore, il lieto fine. La Provvidenza. Non si fa proprio mancare nulla Hereafter. Un cappone farcito con i più sgradevoli ingredienti dell’ovvio.

Il trailer (http://www.youtube.com/watch?v=xDnHfQtH0zU), si sa, è una delle vetrine più efficaci per pubblicizzare un film: la logica  a cui risponde non è perciò di coerenza narrativa con la pellicola che intende promuovere ma è di ordine commerciale. Quello di Hereafter aderisce tuttavia, come di frequente accade nel cinema cosiddetto mainstream, allo stesso modo narrativo del film di Eastwood; si è scelto quindi di affiancare all’articolo il trailer nella sua versione originale in modo che chi legge possa capire con più facilità le ragioni di certe argomentazioni critiche.

Gli amori folli di Alain Resnais

Uno dei migliori film usciti quest’anno nei cinema italiani è certamente Gli amori folli, un’opera che allontana sempre più Alain Resnais dagli stereotipi che l’hanno voluto in passato compagno dei “giovani turchi” della Nouvelle Vague. Di Enrico A. Pili

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Nella sequenza di apertura del film (in basso) la macchina da presa si avvicina in soggettiva all’ingresso di un tempietto buio, fino a entrarvici, precipitando tutta l’inquadratura nel nero più assoluto. Si può qui trovare un richiamo piuttosto esplicito a una scena di Strade Perdute di David Lynch (1997, in alto) nella quale Bill Pullman scompariva nell’oscurità del suo studio (una stanza che nel film era leggibile come spazio metaforico dell’inconscio e del rimosso del personaggio). Naturalmente nel film di Resnais l’oscurità del cubicolo non va letta simbolicamente, piuttosto può essere vista come un ulteriore gioco, uno scherzo registico che, come il finale del film, imita certe tecniche lynchiane per creare uno stato di tensione nello spettatore, portato ad aspettarsi un clima enigmatico e onirico che non arriverà mai.

A partire da A Serious Man e L’uomo che verrà

Per far aderire un attore al proprio disegno stilistico bisogna avere un disegno stilistico.
Di Enrico A. Pili
A Serious Man di Joel e Ethan Cohen e L’uomo che verrà di Giorgio Diritti sono film che si fondano esclusivamente sulla recitazione. Entrambi mettono in evidenza la necessità di saper lavorare con gli attori per fare un buon film. Per un ottimo film invece un buon lavoro organizzativo non basta.

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A proposito di una trasposizione cinematografica del Ritratto di Dorian Gray

Un brutto film offre qui il destro a una proposta di lettura del Ritratto di Dorian Gray di impostazione diversa da quella corrente. Di Gigi Livio

Una recente pellicola tratta dal romanzo di Wilde mette il luce l’impossibilità di trasporre in film un’opera
simbolistica. La cosa è tanto più problematica se l’opera in questione oscilla tra simbolismo e
allegorismo come sembra essere il caso del Ritratto di Dorian Gray. Una possibile lettura, incentrata
sul parziale rovesciamento dei simboli in allegorie, può aprirsi a un’interpretazione del romanzo
in chiave di parodia. Si tratta di una strada esegetica probabilmente nuova e certamente diversa da 
quelle che normalmente vengono proposte.

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La prima fotografia riproduce la locandina italiana del film, la seconda un’inquadratura in cui si vede Dorian che fuma oppio. Al di là del facile e banale simbolismo della locandina, con il corpo di Dorian che in parte si dissolve, un cupo castello sul fondo e un cielo denso di imminente tempesta, ciò che colpisce, come è nell’intenzione di chi intende propagandare la pellicola, è lo sguardo bieco che più-bieco-non-si-può del protagonista. Il film, infatti, pone in primo piano la perversione sessuale di Dorian. Ma lo sguardo bieco non indica immediatamente perversione sessuale se non nella mente contorta del filisteo: ci saranno perversi con lo sguardo limpido, o con lo sguardo cupo, o con una luce crudele negli occhi o, al contrario, con uno sguardo dolce e mansueto. Lo sguardo bieco, lungi dall’essere simbolo di perversione sessuale è semmai sintomo di perversione sociale: avere quella luce negli occhi è peculiare di chi incentra tutto il mondo in sé e necessariamente disprezza gli altri; di chi intende costruire il proprio successo sulle sofferenze altrui o di chi è pronto a tradire qualsiasi causa e qualsiasi persona per il ben noto piatto di lenticchie; di chi non ha nessun rispetto per l’umanità e nemmeno, che lo sappia o no, per la sua; di chi, per venire a un esempio concreto, disprezza l’opera di un artista usandola come piedistallo per un suo successo commerciale. E questo vale anche per un semifallimento, come in questo caso. Consolazione magra, però, perché ciò non è certo dovuto alla raffinatezza dei gusti del pubblico, che semmai chiede prodotti ancora più commerciali e corrivi.

La prima fotografia riproduce la locandina italiana del film, la seconda un’inquadratura in cui si vede Dorian che fuma oppio. Al di là del facile e banale simbolismo della locandina, con il corpo di Dorian che in parte si dissolve, un cupo castello sul fondo e un cielo denso di imminente tempesta, ciò che colpisce, come è nell’intenzione di chi intende propagandare la pellicola, è lo sguardo bieco che più-bieco-non-si-può del protagonista. Il film, infatti, pone in primo piano la perversione sessuale di Dorian. Ma lo sguardo bieco non indica immediatamente perversione sessuale se non nella mente contorta del filisteo: ci saranno perversi con lo sguardo limpido, o con lo sguardo cupo, o con una luce crudele negli occhi o, al contrario, con uno sguardo dolce e mansueto. Lo sguardo bieco, lungi dall’essere simbolo di perversione sessuale è semmai sintomo di perversione sociale: avere quella luce negli occhi è peculiare di chi incentra tutto il mondo in sé e necessariamente disprezza gli altri; di chi intende costruire il proprio successo sulle sofferenze altrui o di chi è pronto a tradire qualsiasi causa e qualsiasi persona per il ben noto piatto di lenticchie; di chi non ha nessun rispetto per l’umanità e nemmeno, che lo sappia o no, per la sua; di chi, per venire a un esempio concreto, disprezza l’opera di un artista usandola come piedistallo per un suo successo commerciale. E questo vale anche per un semifallimento, come in questo caso. Consolazione magra, però, perché ciò non è certo dovuto alla raffinatezza dei gusti del pubblico, che semmai chiede prodotti ancora più commerciali e corrivi.


Videocracy e la realtà berlusconizzata Videocracy e la realtà berlusconizzata

Videocracy, dell’italo-svedese Erik Gandini, è un interessante punto di vista sulla politica culturale portata avanti da Berlusconi attraverso la televisione negli ultimi trent’anni. Non quindi un documentario/dossier con fatti sconvolgenti e sconosciuti ma uno sguardo esterno a fatti noti che porta a riflettere sulla fascistizzazione del nostro stesso sguardo. Di Enrico Pili
Il progetto politico eversivo di Berlusconi, palesatosi nell’ultimo quindicennio, era in realtà iniziato trent’anni fa dalle sue televisioni private, che secondo un preciso disegno culturale hanno mirato a una trasformazione radicale della realtà, preparando la sua ascesa politica.

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L’agente Lele Mora si fa riprendere nella sua casa in Costa Smeralda, la “villa bianca”. La pacchianeria che ne caratterizza l’arredamento è spaventosamente in linea con il cattivo gusto propinato dalla televisione come gusto “elevato”, a cui tendere, che cancella il concetto di “valore” legato a un gusto veramente elevato e nobile. Le altre due case esaminate dal regista, quella di Carnevali e di Corona, sono invece luoghi assolutamente spersonalizzati: la prima viene inquadrata dall’alto nel suo spazio urbano, la periferia bresciana, vuota e inospitale, fatta di palazzoni con anonimi giardinetti; la seconda viene inquadrata solo in parte e dall’interno, ma ne vediamo il bagno, spaventosamente spoglio, ornato solo di un enorme specchio di fronte al quale il vip è atteso dai suoi stilisti personali.

L’agente Lele Mora si fa riprendere nella sua casa in Costa Smeralda, la “villa bianca”. La pacchianeria che ne caratterizza l’arredamento è spaventosamente in linea con il cattivo gusto propinato dalla televisione come gusto “elevato”, a cui tendere, che cancella il concetto di “valore” legato a un gusto veramente elevato e nobile. Le altre due case esaminate dal regista, quella di Carnevali e di Corona, sono invece luoghi assolutamente spersonalizzati: la prima viene inquadrata dall’alto nel suo spazio urbano, la periferia bresciana, vuota e inospitale, fatta di palazzoni con anonimi giardinetti; la seconda viene inquadrata solo in parte e dall’interno, ma ne vediamo il bagno, spaventosamente spoglio, ornato solo di un enorme specchio di fronte al quale il vip è atteso dai suoi stilisti personali.

Vincere, il naturalismo e il melodramma

Unico film italiano in concorso al Festival di Cannes, Vincere di Marco Bellocchio potrebbe tentare un ambizioso discorso critico, ma gli elementi di interesse che emergono nella prima parte vengono presto soffocati dal dramma personale della protagonista. Di Enrico Pili
Nel Cinema la rimozione della finzione tramite un preteso sguardo “oggettivo” sulla realtà (naturalismo 
acritico) non porta mai a quella realtà presa in esame, a causa di un paio di tare ereditarie: il 
persistere dello sguardo del regista (e della sua “classe sociale”) e la maledizione del melodramma, che 
impestano quella presunzione di oggettività sacrificando la complessità sull’altare della lacrimevole
bega familiare.

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Molte le scene ambientate nei cinematografi: questa soggettiva di Ida Dalser permette a Bellocchio un discorso sul cinema come formidabile mezzo di propaganda, grazie alla sua capacità di “sparare” le immagini in faccia allo spettatore. È il discorso dei “ciechi” guidati da un cieco: questi fascisti salutanti sono collocati in un ambiente angusto, scurissimo, silenzioso, straniante.

I fotogrammi sono emblematici del trattamento della fotografia nelle diverse parti del film. Il primo mostra la redazione dell’Avanti!: l’ambiente vuoto, buio, decorato da drappeggi grotteschi e mortiferi costruisce un discorso critico sul partito socialista di allora. Il secondo mostra un esterno del manicomio di Pergine Valsugana: la fotografia si ferma a una distaccata descrizione ambientale.

I fotogrammi sono emblematici del trattamento della fotografia nelle diverse parti del film. Il primo mostra la redazione dell’Avanti!: l’ambiente vuoto, buio, decorato da drappeggi grotteschi e mortiferi costruisce un discorso critico sul partito socialista di allora. Il secondo mostra un esterno del manicomio di Pergine Valsugana: la fotografia si ferma a una distaccata descrizione ambientale.