L’ultimo documentario di Erion Kadilli dimostra ancora una volta l’importanza dello stile all’interno di una categoria audiovisiva (il documentario appunto) le cui scelte formali sono spesso sottovalutate. Di Enrico A. Pili
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Archivio dell’“Asino di B.” 1997/2008 e dell’“Asino vola” 2008/2015
Scritti molesti sullo spettacolo e la cultura nel tempo dell’emergenza
L’ultimo documentario di Erion Kadilli dimostra ancora una volta l’importanza dello stile all’interno di una categoria audiovisiva (il documentario appunto) le cui scelte formali sono spesso sottovalutate. Di Enrico A. Pili
Il cigno nero, diretto da Darren Aronofsky, è un collage di banalità e banalizzazioni, ultimo aggiornamento della tecnica hollywoodiana di produzione del consenso. Di Angela Bresci
Varcato il confine della vita, cosa ci attende? È la domanda delle domande, l’interrogazione che ruota intorno alla tanto applaudita ultima pellicola di Clint Eastwood. Impressioni su un film mancato che cerca di rispondere ad interrogativi millenari col linguaggio lacrimevole di uno pseudo-poeta (inter)nazionalpopolare, con buona pace di Gramsci. Di Letizia Gatti
Il festival di cinema noir di Courmayeur è il tipico evento culturale costretto, dal contesto neocapitalista in cui si muove, a una forzata superficialità, che lo porta a essere soltanto un contenitore di réclame culturali. Di Enrico A. Pili
Uno dei migliori film usciti quest’anno nei cinema italiani è certamente Gli amori folli, un’opera che allontana sempre più Alain Resnais dagli stereotipi che l’hanno voluto in passato compagno dei “giovani turchi” della Nouvelle Vague. Di Enrico A. Pili
L’ultima Mostra del cinema di Venezia ci porta a riflettere su due discutibili episodi: l’assegnazione del Leone d’oro per il miglior film a Somewhere di Sofia Coppola e l’assegnazione del Leone d’oro per la carriera
a John Woo. Di Enrico A. Pili
Per far aderire un attore al proprio disegno stilistico bisogna avere un disegno stilistico.
Di Enrico A. Pili
A Serious Man di Joel e Ethan Cohen e L’uomo che verrà di Giorgio Diritti sono film che si fondano esclusivamente sulla recitazione. Entrambi mettono in evidenza la necessità di saper lavorare con gli attori per fare un buon film. Per un ottimo film invece un buon lavoro organizzativo non basta.
Un brutto film offre qui il destro a una proposta di lettura del Ritratto di Dorian Gray di impostazione diversa da quella corrente. Di Gigi Livio
Una recente pellicola tratta dal romanzo di Wilde mette il luce l’impossibilità di trasporre in film un’opera
simbolistica. La cosa è tanto più problematica se l’opera in questione oscilla tra simbolismo e
allegorismo come sembra essere il caso del Ritratto di Dorian Gray. Una possibile lettura, incentrata
sul parziale rovesciamento dei simboli in allegorie, può aprirsi a un’interpretazione del romanzo
in chiave di parodia. Si tratta di una strada esegetica probabilmente nuova e certamente diversa da
quelle che normalmente vengono proposte.
Videocracy, dell’italo-svedese Erik Gandini, è un interessante punto di vista sulla politica culturale portata avanti da Berlusconi attraverso la televisione negli ultimi trent’anni. Non quindi un documentario/dossier con fatti sconvolgenti e sconosciuti ma uno sguardo esterno a fatti noti che porta a riflettere sulla fascistizzazione del nostro stesso sguardo. Di Enrico Pili
Il progetto politico eversivo di Berlusconi, palesatosi nell’ultimo quindicennio, era in realtà iniziato trent’anni fa dalle sue televisioni private, che secondo un preciso disegno culturale hanno mirato a una trasformazione radicale della realtà, preparando la sua ascesa politica.
Unico film italiano in concorso al Festival di Cannes, Vincere di Marco Bellocchio potrebbe tentare un ambizioso discorso critico, ma gli elementi di interesse che emergono nella prima parte vengono presto soffocati dal dramma personale della protagonista. Di Enrico Pili
Nel Cinema la rimozione della finzione tramite un preteso sguardo “oggettivo” sulla realtà (naturalismo
acritico) non porta mai a quella realtà presa in esame, a causa di un paio di tare ereditarie: il
persistere dello sguardo del regista (e della sua “classe sociale”) e la maledizione del melodramma, che
impestano quella presunzione di oggettività sacrificando la complessità sull’altare della lacrimevole
bega familiare.