Romanzo di una strage: la storia dalla parte degli oppressori

L’ultimo film di Marco Tullio Giordana si prefigge l’arduo compito di narrare un episodio molto complesso della nostra storia semplificandone i fatti e riducendo i personaggi a caricature di se stessi. Dobbiamo constatare che il compito è fallito. Di Enrico A. Pili

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In alto a destra sulla locandina del film leggiamo la suddetta scritta. Non sappiamo a quale corrente filosofica aderisca l’autore del manifesto, se al New Realism o a uno dei vecchi realismi novecenteschi, certo però salta all’occhio l’ingenuità dell’affermazione, che sembra dirci: «Sappiamo che una bomba è esplosa a una certa ora: se la bomba è vera allora quello che vedrete in sala è vero». Sillogismo che, ci permettiamo di notare, è tutt’altro che brillante. Il problema del racconto della verità storica è molto attuale ma ha già prodotto al cinema degli ottimi frutti, dalle Histoire(s) du cinéma di Jean Luc Godard (1998) a Sono stato Dio in Bosnia di Erion Kadilli (2011), film che ci hanno insegnato come un racconto naturalistico non sia in grado di restituire l’elemento di verità della storia, che è poi la sua complessità, che deve essere salvata se non si vuole, per usare le parole di Benjamin, ridursi a strumento della classe dominante.

The Artist

In questo articolo vedremo come The Artist è stato accolto dagli Academy Awards e dagli Indipendent Spirit Awards, premi cinematografici a prima vista distanti tra loro ma in realtà ideologicamente sovrapponibili. Di Enrico A. Pili

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Nella foto possiamo vedere Meryl Streep accanto al protagonista di The Artist, il prestante Jean Dujardin. L’attrice americana ha vinto il suo terzo Oscar interpretando Margaret Thatcher nel film The Iron Lady. Una veterana della cerimonia diventata mezzo per l’assoluzione di un mostro (che porta con sé l’assoluzione di thatcherismo e reaganismo) accanto allo straniero francese fattosi lacchè dell’imperialismo culturale americano: era forse possibile un quadretto più conservatore di questo?

Bene, Lautreamont, Wilde, Bataille

Ci proponiamo di analizzare una scena della Salomè cinematografica di Carmelo Bene (1972) alla luce dei suoi legami con vari testi amati dall’artista pugliese, in particolare con un passo dei Canti di Maldoror(Lautréamont, 1868). Di Enrico A. Pili

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Gli attimi che aprono la sequenza esaminata sembrano fornire un’ulteriore chiave di lettura possibile: l’allegoria sembra infatti “vista” da Erode nel proprio specchio, secondo un chiaro raccordo di sguardo. Il già complesso personaggio di Erode si farebbe così ancora più autobiografico (Bene-Erode “guarda” l’artista in se stesso e nasconde la sua disperazione in orgie e banchetti) e profondo dal punto di vista della femminilità di Erode e del discorso uomo-donna (Erode consapevole del proprio destino di uomo che va incontro allo spellamento finale per mano di una donna maschile con disperata consapevolezza della propria impotenza). Ma anche qui i fili del discorso si moltiplicano e si ramificano, costringendoci per il momento a queste poche proposte di superficie.

Faust

Faust di Sokurov, vincitore del Leone d’Oro all’ultimo festival di Venezia, ci ha posto di fronte alle difficoltà di fare critica. Volendo mettere in evidenza le luci dell’opera ci siamo arresi di fronte a quelle zone d’ombra che non siamo riusciti a illuminare. Dichiariamo quindi la disfatta dialettica. Abbiamo fallito. Speriamo perlomeno che i nostri appunti permettano al lettore di giungere, almeno lui, all’agognata sintesi del processo. Di Enrico A. Pili

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La locandina di Faust ribadisce il discorso del film: il pensiero illuministico è una veste di pizzi tirata sopra ai bassi istinti umani. Se si guarda con attenzione attraverso il pensiero dei lumi, così come ha fatto Sade, ci accorgiamo che la ragione ordinatrice e distruttrice non ha cambiato la sua sostanza, soltanto il suo vestito.

Falsa e vera avanguardia. Alcuni appunti su Faust e Melancholia

Faust di Sochurov e Melancholia di von Trier sono messi a confronto, per veloci appunti, dal punto di vista dell’avanguardia allo scopo di cercare di capire quanto di autenticamente diverso, confronto al cinema simbolistico e naturalistico, ci sia nell’uno e nell’altro. Di Gigi Livio

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Due primi piani di Juliette (Kirsten Dunst): nel primo abbraccia il padre alla sua festa di nozze e nella seconda guarda il cielo illuminato da Melancholia subito dopo, quando la festa si sposta in giardino. Nella prima espressione del volto dell’attrice cogliamo il suo desiderio di mostrarsi ‘felice’, illusione destinata a dileguarsi ben presto di fronte all’apparire di Melancholia e cioè della minaccia di morte che la farà piombare nella depressione, una depressione che lei saprà affrontare con forza e stoicismo. Nella seconda inquadratura l’atteggiarsi del volto e dello sguardo ci permette di cogliere preoccupazione e sgomento mentre già si affaccia, attraverso la dolcezza femminile, la rassegnazione.

Due primi piani di Juliette (Kirsten Dunst): nel primo abbraccia il padre alla sua festa di nozze e nella seconda guarda il cielo illuminato da Melancholia subito dopo, quando la festa si sposta in giardino. Nella prima espressione del volto dell’attrice cogliamo il suo desiderio di mostrarsi ‘felice’, illusione destinata a dileguarsi ben presto di fronte all’apparire di Melancholia e cioè della minaccia di morte che la farà piombare nella depressione, una depressione che lei saprà affrontare con forza e stoicismo. Nella seconda inquadratura l’atteggiarsi del volto e dello sguardo ci permette di cogliere preoccupazione e sgomento mentre già si affaccia, attraverso la dolcezza femminile, la rassegnazione.

Ancora Bruno Ganz. Appunti su La fine è il mio inizio e La polvere del tempo.

Bruno Ganz, attraverso un meticoloso studio d’attore sui ruoli da interpretare e grazie a una geniale capacità espressiva, continua a dimostrare la propria grandezza attoriale a ogni suo nuovo film. Di Enrico A. Pili

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Nei lunghi dialoghi intrattenuti con il figlio Folco (interpretato da Elio Germano) a proposito dell’imminenza della morte Ganz dona complessità al personaggio e alla sceneggiatura facendo trasparire nel suo sguardo una malcelata debolezza, come se quelle dissertazioni mistiche non fossero altro che un modo per esorcizzare una paura che, nonostante tutto, persiste.

Un momento della scena della metropolitana di La polvere del tempo: mentre i due innamorati si guardano teneramente, Ganz guarda l’amata accennando un sorriso. Il sorriso però, oltre a essere solo accennato, si imposta su un volto le cui rughe denunciano la generale assenza di qualunque espressione di gioia. Anche in questo caso la padronanza del volto permette a Ganz di esprimere una situazione emotiva e intellettuale complessa: l’amore per la donna, la nostalgia degli anni passati con lei, l’attuale situazione di depressione, la consapevolezza dell’impossibilità di qualunque felicità futura. Chi ha avuto o avrà occasione di vedere il film forse riuscirà a leggere nelle espressioni di Ganz anche il suo suicidio, che si compirà da lì a poco.