La pacchia è finita! Ripensare all’ozio per non morire di lavoro

Nel tempo dell’ozio coatto, cioè della disoccupazione galoppante, ripensare all’otium come diritto fondamentale significa, paradossalmente, restituire al lavoro la dignità che gli viene ogni giorno negata. Di Letizia Gatti

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Otto Dix, Groβstadt (Metropolis), 1927-28, Kunstmuseum Stuttgart, Stuttgart.
Nell’Elogio dell’ozio (1935), Bertrand Russell osserva come in una società afflitta da una laboriosità nevrotica e alienata il tempo libero genera noia, vuoto, depressione: “L’uomo moderno pensa che tutto deve essere fatto in vista di qualcos’altro e non come fine a se stesso”, a tal punto che anche i piaceri diventano l’altra faccia della stessa isteria collettiva. Poiché l’ozio è “un prodotto della civiltà e dell’educazione”, all’istruzione spetta il compito di “raffinare il gusto in modo che un uomo possa sfruttare con intelligenza il proprio tempo libero”, riscoprendo una ricercata joie de vivre.
Blu, Senza titolo, 2008, Berlino.
Con verve polemica ma limpidissima, nel Diritto all’ozio (1880) Paul Lafargue spiegava “la legge inesorabile della produzione capitalistica”, con parole che colpiscono per la loro straordinaria attualità: “Poiché, prestando orecchio alle parole menzognere degli economisti, i proletari si sono dati anima e corpo al vizio del lavoro, essi precipitano l’intera società in quelle crisi industriali di sovraproduzione che sconvolgono l’organismo sociale. Allora, dal momento che vi è pletora di merci e penuria di acquirenti, le officine chiudono e la fame sferza la popolazione operaia con la sua frusta dalle mille code. I proletari, abbrutiti dal dogma del lavoro, non comprendono che il superlavoro che si sono inflitti nel periodo di pretesa prosperità è la causa della loro miseria attuale. […] Anziché approfittare dei momenti di crisi per una distribuzione generale dei prodotti e per un godimento universale, gli operai, morti di fame, vanno a sbattere la testa ai cancelli dell’officina. […] E questi miserabili, che hanno appena la forza di tenersi in piedi, vendono dodici o quattordici ore di lavoro a un prezzo due volte inferiore di quando avevano del pane nella credenza. E i filantropi dell’industria eccoli approfittare della disoccupazione per fabbricare ancora a miglior mercato. Se le crisi industriali fanno fatalmente seguito ai periodi di superlavoro come la notte segue il giorno, portando con sé la disoccupazione forzata e la miseria senza speranza, producono anche la inesorabile bancarotta. […] Ma prima di arrivare a questa conclusione, i fabbricanti percorrono il mondo in cerca di sbocchi per le merci che si ammassano; costringono il loro governo ad annettersi i Congo, a impadronirsi dei Tonkino, a demolire a colpi di cannone le muraglie della Cina, per smerciarvi le loro cotonate. […] I capitali abbondano come le merci. I finanzieri non sanno più dove piazzarli; vanno allora dalle nazioni felici che se la spassano al sole fumando sigarette, a impiantarvi ferrovie, a erigere fabbriche, a importare la maledizione del lavoro”.