Breve riflessione, nel cinquantenario della morte di Coppi, sul sogno che può scatenare un campione sportivo eccezionale

Prendendo spunto dall’anniversario della morte di Fausto Coppi, il “Campionissimo”, si riflette,
se pure brevemente, sull’influenza che ha lo sviluppo tecnico dei mezzi di comunicazione 
di massa sui nostri sogni.
 Di Gigi Livio

Leopardi pone l’indefinito alla base del sogno che dà piacere poiché risveglia in noi lontani ricordi
di sogni analoghi della nostra infanzia. Lo sviluppo tecnico dei mezzi di comunicazione di massa porta
alla riduzione, fin quasi all’annullamento, del margine di indefinito che un tempo era prerogativa
delle imprese sportive compiute da atleti eccezionali come Fausto Coppi e che favoriva, appunto, il sogno.

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Lo stile di Coppi era, ed è, ineguagliabile: nello scalare le montagne, spesso ancora su strade sterrate – come quella che si vede in questa famosissima fotografia che lo ritrae sul Col du Tourmalet durante il Tour de France del 1949-, non si scomponeva mai ma procedeva, implacabilmente staccando gli inseguitori a ogni pedalata, composto ed elegantissimo pur nel momento della massima fatica come si vede in questa immagine. Certamente il suo stile era tanto più “mitico” in quanto veniva raccontato da chi aveva il privilegio di seguirlo in automobile o di correre con lui: il normale appassionato poteva al massimo appostarsi su un tornante della salita per vedere un piccolo frammento della corsa. I pochi documenti filmati – spesso le condizioni meteorologiche erano avverse alla ripresa cinematografica ma non al Campionissimo che proprio in quelle sfavorevoli situazioni dava il meglio di sé – documentano questo stile inarrivabile, se pure frammentariamente. E questo stile, mille volte esaltato dalla stampa dell’epoca, poteva far sognare che un atleta e uomo eccezionale avesse finalmente realizzato una utopia che affonda le sue origini nell’abisso del tempo, quella della “fatica senza fatica”.

Comicità fascistoide. I tempi duri della “satira che non c’è”

“La satira che non c’è”, secondo la definizione di Luttazzi, ci spinge a ragionare sul carattere fascistoide e falsamente grottesco che l’attuale comicità sta progressivamente assumendo.
Di Valérie Bubbio
L’intrattenimento dilagante propone sempre più spesso contenuti fascistoidi esortando alla fuga nel
disumano e all’agghiacciante annullamento del pensiero critico. L’articolo di Daniele Luttazzi pubblicato
sul Manifesto non può non spingerci a considerare anche sotto questo aspetto i nostri tempi in cui
“il dileggio della vittima è diventato il linguaggio corrente”.

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Da qualche mese Daniele Luttazzi ha aperto sul suo blog una rubrica intitolata La Palestra che nasce come luogo in cui i giovani, e non solo loro, possano allenare ed esibire i propri “muscoli satirici”. Lo scopo primario di questa “palestra”, che riceve circa duemila battute satiriche al giorno, è in realtà quello di approfondire alcune riflessioni sull’attualità “grazie al contributo dei molti” e di rendere consapevole e competente la collettività in quanto pubblico il cui “il gusto comico deve essere educato”. Perché la satira possa ancora esistere e perché si possa combattere “la regressione culturale” che in Italia “è già oltre il livello di guardia”, “occorre” infatti, come scrive l’attore satirico “competenza anche da parte del pubblico (e dei critici)”.

Un discorso a parte, se pur breve e solamente abbozzato, meritano alcuni film la cui utilizzazione impropria del contesto, rende opere di comicità propriamente fascistoide. Uno dei casi forse più evidenti è quello de La vita è bella di Roberto Benigni in cui il contesto viene completamente banalizzato e strumentalizzato ai fini di una risata leggera e semplificante. Non a caso, dopo l’Oscar al film, la comunità intellettuale ebraica di New York ha fortemente criticato la “catarsi bizzarra” del film, come riporta Luttazzi, e la “strumentalizzazione della tragedia dell’olocausto” utilizzata come sfondo drammatico per una narrazione famigliare e sentimentalistica.

Un discorso a parte, se pur breve e solamente abbozzato, meritano alcuni film la cui utilizzazione impropria del contesto, rende opere di comicità propriamente fascistoide. Uno dei casi forse più evidenti è quello de La vita è bella di Roberto Benigni in cui il contesto viene completamente banalizzato e strumentalizzato ai fini di una risata leggera e semplificante. Non a caso, dopo l’Oscar al film, la comunità intellettuale ebraica di New York ha fortemente criticato la “catarsi bizzarra” del film, come riporta Luttazzi, e la “strumentalizzazione della tragedia dell’olocausto” utilizzata come sfondo drammatico per una narrazione famigliare e sentimentalistica.