Good night, and good luck.

Il film di George Clooney riaffronta il problema della libertà di espressione nel periodo maccartista. Di Gigi LivioIl film può essere inserito all’interno di un filone cinematografico di documentazione della realtà storica oggi molto frequentato da Fahrenheit 9/11 a Allende. Tipica opera di un “borghese onesto” affronta il problema del maccartismo, e delle sue ricadute sull’informazione, in modo duro e rigoroso impostato in uno stile scarno e scabro che usufruisce molto efficacemente del bianco e nero.

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George Clooney (a sinistra) dirige un film che intende riproporre un momento di lotta al maccartismo realmente avvenuta. La scelta del bianco e nero, oltre a darci la sensazione dell’epoca in cui si svolsero i fatti, serve al regista -che ritaglia per sé un ruolo secondario- per mettere meglio in evidenza i chiaroscuri: e la cosa gli riesce benissimo perché ha saputo scegliere l’attore protagonista adatto (David Strathairn, a destra) che offre allo spettatore un volto insieme scavato e sereno nella sua determinazione a dare un significato di onestá intellettuale e di rigore morale al suo personaggio.

La scelta di ambientare il film negli studi della Cbs dove avvennero i fatti ottiene due risultati: quello di dare un senso di veritá documentaria alla narrazione e quello di evocare in modo diretto il mondo della televisione con tutti i suoi problemi, le sue luci e le sue ombre. È l’ambiente in cui matura e, in questo caso esemplare, si concretizza la rivolta nei confronti dell’ingiustizia sociale e culturale che il senatore McCarthy perpetra nei confronti soprattutto del proprio paese e in chi crede ai valori della democrazia e della costituzione.

David Strathairn fornisce in questo film una prova d’attore eccezionale. Recitando in modo asciutto e scabro, senza i riboboli e i barocchismi propri degli attori americani che si ispirano al metodo dell’Actors Studio, riporta il suo mestiere verso quell’orizzonte artistico che serve a esprimere l’oggettività delle cose e non la psicologia individuale, propria di un individualismo esasperato, attraverso il cui filtro vedere e giudicare la realtà. Una certa leggera tensione rivelata costantemente dal suo sguardo ci ricorda che il vero coraggio, quello dell’uomo cosciente di ciò che sta facendo, non può essere mai esente da una forma sottile di timore.

Pasolini su Pasolini. A trent’anni dalla morte.

Di Donatella Orecchia
Nella notte fra il 1 e il 2 novembre 1975 Pier Paolo Pasolini muore assassinato all’Idroscalo di Ostia: con lui, dirà Alberto Moravia ai suoi funerali, muore uno di quei due o tre poeti che nascono in un secolo. L’unico poeta civile che la sinistra italiana abbia avuto.

A trent’anni di distanza, molti programmi televisivi, manifestazioni pubbliche, articoli e libri ricordano la sua opera di artista, di intellettuale, di polemista infaticabile. 

In un’intervista fino a oggi inedita del 1969, pubblicata da Archinto edizioni, Pasolini ricorda con una lucida e appassionata sintesi il suo percorso intellettuale: dagli anni giovanili friulani, all’incontro con le borgate romane alla passione per il cinema, alla crisi della fine degli anni sessanta. Un’occasione per essere ancora una volta provocati dalla tensione etica che caratterizzò sempre la sua ricerca: e che mai ebbe il timore o la vergogna delle proprie contraddizioni.

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Pasolini nelle borgate romane negli anni Cinquanta.
“Ragazzo del popolo che canti
qui a Rebibbia sulla misera riva
dell’Aniene la nuova canzonetta, vanti,
è vero cantando, l’antica, la festiva
leggerezza dei semplici. Ma quale
dura certezza tu sollevi insieme
d’imminente riscossa, in mezzo a ignari
tuguri e grattacieli, allegro seme
in cuore al triste mondo popolare?”
(P.P. Pasolini, Il canto popolare).
Pasolini con Franco Citti, 1960.
Scelto come protagonista di Accattone, per il suo volto, per il suo lessico e per la sua conoscenza della Roma borgatara, Citti sarà uno dei più affezionati amici di Pasolini e uno degli attori non professionisti da lui più amati. “Io preferisco lavorare con attori scelti nella via, a caso […]. L’attore professionista ha fin troppo l’ossessione del naturale e del ghirigoro. Ora, io odio il naturale (che del resto viene per lo più esagerato dall’attore per paura di non rendere le sfumature), detesto, in arte, tutto ciò che attiene al naturalismo” (P.P. Pasolini, Il sogno del centauro).



Pasolini durante le riprese di Salò, 1975.
“All’inizio io la [la tecnica cinematografica] usavo per afferrare la realtà, per divorarla, tentavo con la mia cinepresa di restare fedele a questa realtà che apparteneva agli altri, al popolo. Ora è differente, io utilizzo la cinepresa per creare una sorta di mosaico razionale, che rende accettabili, chiare, affermative delle storie aberranti […]. Invece di mettersi al servizio della mia interiorità o magari invece di far pesantemente risaltare l’interiorità degli oggetti, essa è impiegata ora come metodo di stilizzazione, di riduzione degli elementi dell’essenziale” (P.P. Pasolini, Intervista, in “Cahiers du Cinéma”, 1969).

Isabelle Huppert – “una certa idea di verità”.

Protagonista di Gabrielle, l’ultimo film di Patrice Chéreau presentato al Festival di Venezia, Isabelle Huppert anche in quest’occasione non manca di spiazzare lo spettatore. A partire da questa pellicola qualche riflessione sulla recitazione dell’attrice francese. Di Maria Pia Petrini Isabelle Huppert non aderisce mai perfettamente ai suoi personaggi, restituendoli al pubblico sfaccettati e veri.
Asciutta ed essenziale, priva di eccessi nei gesti, nel tono di voce e nei movimenti, mai sopra né sotto le righe, risulta comunque sempre ‘fuori parte’, inducendo in tal modo lo spettatore a prestare uno sguardo attento.
Un grande talento speso per mostrare un mondo senza veli e un animo umano complesso e contraddittorio.

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Sul volto di Isabelle Huppert (nella foto, in Gabrielle) le labbra si piegano appena in un sorriso tanto lieve quanto penetrante senza quasi modificarne i lineamenti, mentre gli occhi, poco più che socchiusi, rivelano uno sguardo fermo e distaccato ma al contempo incuriosito e interessato.

Nella commedia di François Ozon, Otto donne e un mistero, Isabelle Huppert (nella foto) è Augustine, donna acida e arcigna ma evidentemente finta e ironica: a tratti l’attrice indossa i panni di divertita spettatrice e sul suo volto compare un sottile sorriso estraneo alla parte.

Isabelle Huppert (nella foto, in Gabrielle), introducendo un accenno di sorpresa e un impercettibile sorriso ironico allo sguardo, riesce a rendere intenso quel sentimento di disprezzo che le si legge sul volto, pur mantenendo tratti somatici quasi inalterati e distesi.