Sade al cinema. L’educazione sentimentale di Eugenie.

L’uscita nelle sale cinematografiche di L’educazione sentimentale di Eugenie, tratto dalla Filosofia nel boudoir di Sade, è l’occasione per una riflessione sulle modalità di trasposizione di un’opera letteraria (e di un’opera così ricca e importante come quella di Sade) in un film. Di Gigi Livio e Armando Petrini La trasposizione di un’opera letteraria in un film pone il problema complesso del rapporto fra linguaggio scritto e linguaggio cinematografico.
Nonostante la maggior parte dei film tratti da opere letterarie vantino un legame con l’opera di partenza semplicemente sul piano dei contenuti, la questione del rapporto fra letteratura e cinema andrebbe più correttamente affrontato dal punto di vista del linguaggio.
A maggior ragione quando si ha a che fare con capolavori assoluti come avviene nel caso dell’opera sadiana, e della Filosofia nel boudoir in particolare.

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Se è vero che il mondo di Sade non è “figurabile”, è altrettanto vero che, all’epoca, i suoi libri sono stati illustrati. Queste incisioni tratte da un’edizione della Nouvelle Justinesono particolarmente interessanti perché restituiscono, anche nella loro astratta macchinosità, l’universo nero sadiano.

Se è vero che il mondo di Sade non è “figurabile”, è altrettanto vero che, all’epoca, i suoi libri sono stati illustrati. Queste incisioni tratte da un’edizione della Nouvelle Justinesono particolarmente interessanti perché restituiscono, anche nella loro astratta macchinosità, l’universo nero sadiano.

Se è vero che il mondo di Sade non è “figurabile”, è altrettanto vero che, all’epoca, i suoi libri sono stati illustrati. Queste incisioni tratte da un’edizione della Nouvelle Justinesono particolarmente interessanti perché restituiscono, anche nella loro astratta macchinosità, l’universo nero sadiano.


The Assassination. L’altra faccia del ‘sogno americano’

È uscito nelle sale cinematografiche italiane, alla fine del mese scorso, l’opera prima del regista americano Niels Mueller: sullo schermo uno straordinario Sean Penn dice il nostro tempo. Di Maria Pia Petrini
Sean Penn frantuma il ‘sogno americano’ mostrandocene i due volti: quello dell’illusione e quello della disperazione. Ci rivela un mondo tanto potente quanto fragile che, come il protagonista Sam Bicke, contiene in sé le proprie contraddizioni. Una pellicola che dice il nostro tempo, un tempo capace di emarginare chi non riesce ad ammaliare, capace di renderci ‘soli, divisi e deboli’. Ma anche un film contro il nostro tempo, perché ha il coraggio di smascherarlo e di invitarci a comprenderlo.

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Il primo piano di Sean Penn (nella foto) ci consente di cogliere nel volto di Sam una stonatura: i tratti del viso ne delineano un’espressione quasi stupida e imbambolata, ma in realtà lo sguardo è lucido anche se intriso di una tristezza profonda.

Ciglia aggrottate da cattivo su un volto che tradisce insicurezza e paura, e un corpo che pare ritrarsi assumendo una posizione fetale, con le mani tra le gambe e la schiena incurvata. Sean Penn (nella foto) non manca mai di mostrare al contempo i due volti di Sam, entrambi troppo sopra le righe eppure altrettanto trattenuti.

Con l’espressione profondamente delusa, imbronciata e triste di chi vede il proprio sogno frantumarsi, Sam Brike (Sean Penn) guarda la foto dei suoi cari. Anche la famiglia è parte del ‘sogno americano’, ma Sam, e come lui tanti altri piccoli grandi uomini, la perde per una Cadillac; come spesso ci viene ricordato nel corso del film: tutto è denaro.


Gian Maria Volonté: la volontà di essere attore

Dieci anni fa l’attore moriva sul set di un film: riguardare alla sua arte lucida e raffinata serve a comprendere, oggi più che mai, il discrimine tra la radicalità e il coraggio delle scelte autentiche e la convenienza e superficialità della falsa coscienza. Di Silvia Iracà
Il decennale della morte di Gian Maria Volonté (dicembre 2004) ha fornito l’occasione per tornare a riflettere sull’arte e sulla vita di questo nostro grande attore: televisione e giornali lo hanno ricordato con la consueta oziosità aneddotica che da sempre intrattiene il grande pubblico.
Ma la figura di Gian Maria Volonté fu, e continua a essere, difficile da costringere in una formula, tanto più se pensata ad uso e consumo della frivolezza a cui tanta diffusa spettacolarizzazione ci ha abituati da qualche decennio a questa parte.

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Volonté è Lulù Massa nella Classe operaia va in paradiso di Elio Petri (1972): la forza espressiva dell’attore è il risultato di una raffinata e complessa tecnica recitativa al servizio di uno studio rigoroso e minuzioso sul personaggio da cui sapeva sempre trarne, come nel caso dell’operaio Massa, l’intima verità.

Randone/Militina, Volonté/Lulù Massa nella Classe operaia va in paradiso di Elio Petri (1972). L’attore di tradizione e l’attore della generazione successiva: due poetiche recitative a confronto che entrano in rapporto dialettico. L’espressività sorniona del vecchio Randone, a tratti ironica, a tratti mesta e quella schizofrenica del giovane Volonté giocata sull’accostamento dissonante di accenti striduli e sommessi e gesti enfatici e rattenuti, si combinano con maestria dando luogo a scene di rara intensità.

Il commissario di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Elio Petri, 1970) è un esempio altissimo della cifra grottesca nella recitazione di Volonté. L’attore fa del personaggio un’incarnazione puerile e nevrotica dell’uomo di polizia e in questa parodia svela con angoscia la vanità del potere.


The Passion of the Christ di Mel Gibson

Il 7 di aprile 2004 è uscito anche nelle sale italiane The Passion of the Christ di Mel Gibson: un film che, nel suo fondamentalismo ideologico ed estetico, riflette in pieno l’attuale politica statunitense. Di Chiara Delmastro e Donatella Orecchia
Una pellicola che rappresenta in maniera ideale l’era di Bush e che si può analizzare sostanzialmente sotto tre profili; dapprima quello più strettamente filologico, poi quello dell’estetica cinematografica, i quali rimandano all’aspetto politico-ideologico dell’opera, quello che con più urgenza richiedeva di essere esaminato.
E forse il lato maggiormente inquietante del fenomeno è proprio questo, cioè che a molti, fra pubblico e critica, pare sia sfuggito il rozzo manicheismo che regge tutta la narrazione; sintomatico di un’epoca di crisi strutturale che investe la nostra società come tutto il mondo occidentale.

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Dopo la cruenta flagellazione il corpo di Gesù viene rappresentato come un pezzo di carne pesta e sanguinante a cui non resta più alcuna traccia di identità umana. La componente morbosamente ipernaturalistica del film, che intenderebbe svelare la verità del dolore, non è altro che la sua volgare e spudorata spettacolarizzazione.

Dogville, un dono nel deserto

Uscito nelle sale nel 2003, Dogville è il primo film di una trilogia dedicata all’America del regista danese Lars von Trier: un’opera sapientemente costruita che indaga il linguaggio cinematografico e mostra il mondo spietato in cui viviamo. Di Maria Pia Petrini
In un tempo scandito dai ritmi e dalle leggi dello spettacolo, il cinema diventa una macchina per non farci pensare, che confeziona eroi non più tragici, falsi e non finti. La buia sala cinematografica invece d’incantarci ci distrae, confondendosi così fra i tanti orpelli costruiti per imprigionarci in una cella dorata.
Lars von Trier apre una crepa in quei muri e ne svela la fragilità e la falsità: spiazzandoci continuamente ci costringe a riflettere e a dubitare del falso oro luccicante. Ci mostra tutto il marcio del nostro mondo, dove la grazia, l’arte e il dono, sembrano non poter più esistere, ma svelandoci la finzione del suo gioco ci porta a guardare meglio e a vedere che hanno solo le ali spezzate e, costretti a terra, possono ancora lottare, seppur con un canto disperato.

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Nessuna illusione di realtà: Dogville non esiste se non sullo schermo. Finta dunque, ma non falsa, al contrario delle tante immagini perfettamente verosimili, e continuamente sotto i nostri occhi, che occultano la finzione per celare la propria falsità.

Grace è costretta alla fatica e alla burla dei bambini ancora ‘innocenti’, ma non alla
berlina degli ‘adulti’ ormai meschini, che per evitare il disvelamento di ogni possibile contraddizione le impongono il pesante marchingegno di collare, catena e ruota, obbligandola così a tener basso pure lo sguardo, insostenibile per chi non vuol
vedere la verità.