Il filo del rasoio di Bruno Ganz

Bruno Ganz, grande attore dialettico, riesce a recitare la parte di un Hitler alla fine della propria vita rendendo con grande efficacia la contemporanea esistenza nel personaggio di una radice profondamente disumana e di un estremo residuo di umanità. Di Gigi Livio

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Cinematografo – da cui, abbreviato, “cinema” – è parola derivata dal greco e composta di “movimento” (chinema) e “descrivere” (grafo). Pertanto nessun fotogramma isolato può restituire il valore del movimento di cui è privato. Da questi due fotogrammi si può però desumere la straordinaria capacità di Bruno Ganz di usare lo sguardo nel recitare la parte di un Hitler ormai sconfitto e giunto alla fine della propria vita e della propria avventura politica e militare. È lo sguardo di una belva ferita a morte, ma pur sempre di una belva che, però, mantiene, essendo un uomo, un barlume di umanità. Una contraddizione in termini che l’attore riesce a rendere con estrema efficacia artistica.

Cinematografo – da cui, abbreviato, “cinema” – è parola derivata dal greco e composta di “movimento” (chinema) e “descrivere” (grafo). Pertanto nessun fotogramma isolato può restituire il valore del movimento di cui è privato. Da questi due fotogrammi si può però desumere la straordinaria capacità di Bruno Ganz di usare lo sguardo nel recitare la parte di un Hitler ormai sconfitto e giunto alla fine della propria vita e della propria avventura politica e militare. È lo sguardo di una belva ferita a morte, ma pur sempre di una belva che, però, mantiene, essendo un uomo, un barlume di umanità. Una contraddizione in termini che l’attore riesce a rendere con estrema efficacia artistica.

Sans. Assenza.

Lo spettacolo presentato a Helsinki da La Compagnie du Solitarie e dalla coreografa Martine Pisani restituisce una ventata d’aria fresca alla condizione stagnante della danza e del teatro contemporaneo riportando valore etico ed estetico all’essenzialità dell’opera d’arte spogliata finalmente da inutili vezzi e merletti. Di Valérie Bubbio

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L’equilibrio instabile che genera il movimento e al contempo lo distrugge è percepibile in Sanscome una costante. Una assidua contrapposizione tra elementi che si annullano reciprocamente anima il corpo dei danzatori-attori continuamente sospesi tra poli opposti. La forza può legarsi nei loro gesti a una fragilità disarmante, la permanenza a una perentoria precarietà lasciando lo spettacolo nella dimensione dell’incompiuto e della transitorietà.

Topoi e banalità

Il cigno nero, diretto da Darren Aronofsky, è un collage di banalità e banalizzazioni, ultimo aggiornamento della tecnica hollywoodiana di produzione del consenso. Di Angela Bresci

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Vincent Cassel interpreta la parte di Thomas Leroy, direttore e coreografo della compagnia di balletto. Anche lui è un’accozzaglia di banalissimi stereotipi: è autoritario, ambizioso, europeo e spiccatamente omosessuale.

Una delle immagini della trasformazione finale della ballerina interpretata da Natalie Portman nel Cigno nero. In un momento così importante per il personaggio e per l’attrice, che di quel personaggio avrebbe potuto ora mostrare la folle deriva, la recitazione viene abbandonata in funzione dell’effetto speciale. Al volto di Natalie Portman non viene chiesto di fare o esprimere niente, anzi probabilmente viene consigliato di non disturbare l’effetto speciale (gli occhi “demoniaci”). La potenziale riflessione espressiva del volto dell’attrice viene sacrificata a vantaggio di un procedimento (l’effetto speciale) che, al posto di suggerire, assorda: gli occhi rossi sono l’ennesima didascalia mirata a dichiarare l’atmosfera “demoniaca” del momento e la vittoria del doppio “maligno”.