Il secolo del reale: una rivalutazione filosofica del radicalismo novecentesco

Un’ottima occasione per riflettere sulla persistente inadeguatezza del dibattito filosofico italiano ci viene da una raccolta di lezioni tenute dal novembre 1998 al marzo 2000 da Alain Badiou (con una Postfazione dell’autore del 2004), pubblicata da Seuil nel 2005 con il titolo Le siécle e tempestivamente proposta in traduzione italiana da Feltrinelli. Di Oliviero Calcagno
Una riflessione filosofica sul Novecento, non una ricostruzione della filosofia nel Novecento, verso l’enunciazione dei caratteri costitutivi del secolo. Vi è nel XX secolo qualcosa che è stato, ma che ancora va pensato. È da questa prospettiva che si può rovesciare il luogo comune di un secolo “maledetto” e rivalutarne quella passione che, erroneamente individuata e stigmatizzata come ideologica, è stata invece rivolta alla trasformazione della realtà.

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Alain Badiou, Il secolo, Milano, Feltrinelli, 2006. Traduzione italiana di Vera Verdiani, 204 pp.


Furor di popolo

«Ho fatto un lavoro e non uno spettacolo / Poiché il teatro non intrattiene casomai pertiene e trattiene, / non è strumento d’evasione, casomai imprigiona» (dal programma di sala di Furor di Popolo). Di Donatella Orecchia
Ospite quest’estate al festival di Castiglioncello, Claudio Morganti ha proposto il suo ultimo spettacolo Furor di popolo, un breve e folgorante esempio di teatro ‘politico’ dove, a una farsa grottesca (da Strindberg) segue un’intensa, asciutta e sentita lettura di brani di scritti politici di Pinter, di Gustavo Modena e di Büchner. Si tratta di un lavoro di grande interesse soprattutto nel suo porre l’accento su una questione nodale oggi, dopo gli anni del disimpegno postmoderno: l’urgenza di recuperare la dimensione dell’impegno politico e dell’intervento attivo sulla contemporaneità da parte dell’artista. Senza con ciò negare la specificità del lavoro sulla forma e sul linguaggio.

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Il busto di Gustavo Modena, attore fra i più grandi dell’Ottocento italiano, il cui impegno fu sempre contemporaneamente artistico e politico. In Furor di popolo Morganti legge una lettera da lui indirizzata ad Achille Majeroni nel 1857. «Avete letto le lettere di Modena? Sono di una cattiveria disillusa, impressionanti, ma non si discute la posizione, non c’è dubbio su dove mettersi, ecco, una cosa importante per noi credo sia riuscire a non avere dubbio di dove si sta. Non ho dubbio, su questo, posso morire di dolore perché il resto del mondo va nella direzione opposta, ma io in quella direzione vado, basta, non è discutibile quella questione» (Claudio Morganti).

Harold Pinter nella veste ‘insolita’ di attore nell’Ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett, spettacolo che è andato in scena al Royal Court’s Jerwood Theatre, nel mese di ottobre di quest’anno per la regia Ian Rickson. Tanto in Pinter quanto in Morganti l’impegno all’intervento diretto e alla presa di posizione netta sulla contemporaneità non si possono disgiungere da un impegno di ricerca sulla forma. E qui, e non è un caso, entrambi in un dialogo a distanza arrivano a confrontarsi con Beckett. L’amara sorte del servo Gigi di Morganti è una riscrittura di Krapp. La conclusione di Furor di popolo è la lettura del discorso di Pinter per il conferimento del Nobel.

«Claudio Morganti mentre grattugia un pezzo di pecorino» (didascalia di Claudio Morganti e di Rita Frongia). Alla richiesta di un’immagine da inserire come commento al presente articolo in assenza di fotografie relative allo spettacolo, Morganti ha segnalato questa. In una società che spettacolarizza ogni cosa per decurtarla del potenziale di contraddizione, un attore che sale sul palco per esprimere il suo furore artistico e civile con una forza che non può lasciare indifferenti e che poi per raccontarsi sceglie una grattugia, un pezzo di pecorino, un piatto di pasta, senza cedere però alla tentazione del facile ammicco (il suo volto non ammicca, l’immagine stessa, così poco patinata, non ammicca): ecco è scomodo. Difficile da collocare. Difficile da archiviare.