“Je suis Charlie”?

Appunti sulla strage di Parigi e non solo su quella

La strage di Parigi ha portato alla luce molti problemi e contraddizioni del mondo in cui viviamo. Affrontare questi problemi pretendendo di darne una lettura univoca è altrettanto sbagliato quanto tacere su un fatto così terribilmente luttuoso. Ma si possono avanzare dubbi che poggino, però, su elementi non superficiali al contrario di ciò che, in questo periodo, hanno fatto, e non c’è da stupirsene, i mezzi di comunicazione di massa dai quotidiani, non tutti ma quasi, alla radio e alla televisione. di Gigi Livio

Premessa necessaria. All’indomani dell’eccidio di Parigi c’è stato uno scambio di rapide opinioni sulla nostra pagina Facebook. Letizia Gatti ha condiviso un post dell’“Internazionale” a proposito della presa di posizione che si riassume nello slogan “Je suis Charlie”; la risposta brevissima di Enrico Pili era accentrata sul fatto che egli non si sentiva, e immagino non si senta ancora, di condividere quello slogan perché in disaccordo con la linea editoriale della rivista “ebdomadaria”, e cioè “settimanale”, “Charlie Hebdo”.

Anche Andrea Scarel, che da tempo segue questa rivista e che invito a mandarci un suo scritto, è entrato nella discussione. A tutti e tre ho risposto che occorreva meditare, perché, aggiungo ora, l’argomento è estremamente complesso, e avere il tempo per iniziare a elaborare il lutto; e, intanto, promettevo un articolo anch’io.

Quanto all’elaborazione del lutto, stilema freudiano oggi di moda, lasciamo perdere: la verità è che noi dimentichiamo i morti e le morti perché vogliamo dimenticare per continuare a vivere con una relativa serenità, relativa perché sappiamo di dover morire (ma qui semplifico un po’ brutalmente: esiste infatti anche la “morte civile”, che può essere esemplificata nel rimanere senza lavoro, nel dover subire le guerre e, ovviamente, le stragi e in altre cose ancora) e, dunque, probabilmente l’elaborazione del lutto coincide soltanto con la dimenticanza, col lasciar passare il tempo che il solito proverbio filisteo ci insegna che sana tutte le cose; la mia convinzione, al contrario, è che non sani un bel niente.

Altra cosa è il meditare sui fatti appena accaduti. Qui il tempo serve semplicemente perché permette di pensare. Ecco “pensare” è oggi un termine importante perché il ritmo ormai ossessivamente accelerato della vita, ritmo che per fortuna non è uguale da paese a paese e finanche da regione a regione, tende a limitare non solo il “pensiero critico” ma lo stesso pensiero, che può anche non essere programmaticamente “critico” ma che costringe a riflettere su ciò che è successo e, pertanto, su ciò che diciamo e scriviamo.

E il pensare porta con sé, di necessità, il dubbio. Certamente non un dubbio ‘scettico’, basato su un concetto metafisico che preveda l’impossibilità della ragione umana di giungere mai alla verità, o un altro tipo di dubbio incentrato non sullo scetticismo tout court, come quello del primo tipo, ma su uno scetticismo che questa volta poggia i suoi fondamenti su un fatto molto più concreto e cioè la constatazione che oggi l’informazione è talmente “amministrata” e ideologica per cui risulta impossibile, anche in questo caso, arrivare a una qualche verità. Quest’ultimo concetto è naturalmente condivisibile perché l’analisi è giusta. Non fosse che un terzo modo di intendere il dubbio, più fertile e intenzionato a superare l’inerzia del pensiero, può proprio partire dal “mettere in dubbio” tutto il materiale informativo di cui disponiamo. Questo potrebbe permettere di portare alla luce le menzogne e gli inganni, se non tutti almeno in parte, dell’ideologia che copre come una spessa coltre di polvere non solo la verità ma certamente anche la realtà.

E allora, per mettere alla prova il ragionamento appena svolto e partendo dallo sbandieramento degli ideali dell’Illuminismo, iniziamo col riflettere su cosa siano questi ideali e come realmente si sono strutturati nel tempo. Qui tutti — non tutti, ovviamente, ma le eccezioni non le ho percepite, anche se so benissimo che questa affermazione può essere contraddetta perché nessuno può leggere tutti i giornali e tutte le riviste e sorbirsi tutti i programmi televisivi dove per sentire cinque minuti qualcuno che dice cose belle e col tono giusto devi sopportare ore di sproloqui di squallidi personaggi che sono lì soltanto perché fanno audience — si riempiono la bocca di questo termine ridotto a una formula: la libertà di espressione; e giù tutti a citare Voltaire che, pur non essendo d’accordo, darebbe la vita per permettere a chi non la pensa come lui di esprimere la sua opinione. Banale dire che l’Illuminismo non è solo Voltaire e che un periodo storico così complesso e articolato come fu quello non può essere racchiuso in una formula.
Ricorro allora proprio a due saggisti illustri cui dobbiamo il massimo sviluppo del “pensiero critico”, Horkheimer e Adorno, non per approfondire e, tanto meno, risolvere il problema, cosa che richiederebbe un lungo discorso, ma per aprire la mente alla fecondità del dubbio.

Max Horkheimer, a sinistra, con Theodor W. Adorno, in una fotografia scattata nell’aprile del 1964, ad Heidelberg, in occasione della Deutscher Soziologentag “Max Weber und die Soziologie heute”, il convegno della Società tedesca di Sociologia intitolato a Max Weber. In secondo piano, a destra, con una mano tra i capelli, Jürgen Habermas. Foto (CC) di Jeremy J. Shapiro.

In Dialettica dell’illuminismo, la cui prima edizione è del 1944, i due filosofi sottopongono sia gli ideali dell’Illuminismo che la loro applicazione pratica nel tempo a un’analisi profonda e straordinariamente acuta. Il volume è ricchissimo di spunti e non sono certo due citazioni, come quelle che mi accingo a trascrivere, che ne possano sintetizzare la eccezionale articolazione. Semplicemente, e non senza umiltà di fronte a simili giganti del pensiero, oggi che il “pensiero” è monopolizzato da nani dello stesso cui i servi del sistema si affidano ciecamente, propongo poche righe che mi pare possano servire a vedere le cose da un altro punto di vista, un punto di vista non solo alternativo ma decisamente antagonistico nei confronti del common sense. Ecco, dunque:

“La ragione, come io trascendentale superindividuale, implica l’idea di una libera convivenza degli uomini, in cui essi si costituiscano a soggetto universale e superino il dissidio tra la ragion pura e empirica nella consapevole solidarietà del tutto. Che è poi l’idea della vera universalità, l’utopia. Ma insieme la ragione rappresenta l’istanza del pensiero calcolante, che organizza il mondo ai fini dell’autoconservazione e non conosce altra funzione che non sia quella della preparazione dell’oggetto, da mero contenuto sensibile, a materiale di sfruttamento. La vera natura dello schematismo che accorda dall’esterno universale e particolare, concetto e caso singolo, si rivela da ultimo, nella scienza odierna, come l’interesse della società industriale. […] Tutto diventa processo ripetibile e sostituibile, semplice esempio dei moduli concettuali del sistema: anche il singolo uomo, per non dire dell’animale” (Max Horkheimer — Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, ed. 1966, pp. 92–93).

Il linguaggio dei due pensatori è piuttosto difficile da decifrare come, del resto, risulta criptico lo stile specifico della filosofia tedesca. E, anche se a parafrasare questo linguaggio si incappa ineluttabilmente nella semplificazione, ci accorgiamo subito che qui i due autori impostano il problema della ragione in modo non certo tradizionale, quello in cui lo si usa ancora oggi e cioè quello per cui questo strumento del pensiero sarebbe del tutto avulso da condizioni storiche e sociali e risulterebbe pertanto qualcosa di astratto e astrattamente applicabile a qualsiasi circostanza, ma indagano invece l’uso storico-sociale che la borghesia ha fatto del concetto di ragione. Concetto che è passato dal prefigurare una “solidarietà del tutto” a divenire il motore dell’organizzazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo dove il singolo uomo diventa “ripetibile e sostituibile”.

Non pretendo qui, nemmeno lontanamente, di cercare di riassumere ciò che dice questo libro che, appunto, non è riassumibile (non so a chi si deve la quarta di copertina della Dialettica negativa di Adorno, ma certamente si tratta o dell’autore stesso o di persona assai esperta del suo pensiero dal momento che lì si dice che “La Dialettica negativa avrebbe fallito il suo scopo se si lasciasse riassumere”) ma voglio ancora soffermarmi su un punto che mi pare faccia decisamente al fatto nostro: la compassione sottoposta al vaglio del pensiero critico.

[La compassione] conferma la regola dell’inumanità con l’eccezione stessa che compie. Affidando il superamento dell’ingiustizia all’amore del prossimo nella sua casualità, essa accetta come immutabile la legge dell’estraniazione universale che vorrebbe mitigare”. Di qui la valorizzazione di pensatori, Sade e Nietzsche, che certamente i due esuli marxisti e ebrei dalla Germania nazista non possono erigere a loro bandiera, soprattutto il secondo ampiamente manipolato dal nazismo come è ben noto, se non leggendoli come “coloro che smaschera[ndo] la pietà prendevano posizione — indirettamente — per la rivoluzione” (p. 112).

Su questa linea di pensiero, Horkheimer e Adorno possono chiudere il capitolo dedicato alla morale dell’illuminismo con queste parole:

“Proclamando l’identità di ragione e dominio, le dottrine spietate sono più pietose di quelle dei lacchè della borghesia. ‘Dove sono i tuoi massimi pericoli? — si è chiesto una volta Nietzsche: — nella compassione’. Egli ha salvato, nella sua negazione, la fiducia incrollabile nell’uomo, che è tradita giorno per giorno da ogni assicurazione consolante” (p. 129).

In questi, che sono “appunti”, ho appuntato osservazioni che possono essere utili a coltivare, e seminare, il dubbio con cui la strage di Parigi è stata accolta. Soprattutto dai mezzi di comunicazione di massa che sono oggi i principali diffusori dell’ideologia, proprio nel senso di falsa coscienza, di mistificazione programmata che diviene programmatica, di manipolazione delle coscienze e di controllo, ancora una volta programmato, dell’immaginario individuale e di quello collettivo.

Vorrei fosse chiaro che il fatto di avanzare dubbi sul modo come è stato manipolato il fatto orrendo non ha nemmeno lontanamente l’intenzione di diminuire la responsabilità degli assassini che restano tali senza che questa volta si possa avanzare alcun dubbio. Solo un accenno a un altro avvenimento tremendo: in Nigeria Boko Haram avrebbe compiuto una strage uccidendo 2000 persone (la cifra non è sicura, neanche si trattasse di sacchi di grano) ma, qui invece la cifra è purtroppo certa, sacrificando tre bambine usate come bombe. Se quindi mi appunterei sul petto un cartello con su scritto “Je suis Charlie” per quel senso di umanità residuale che ancora ci divide dalla barbarie totale, ancor più convintamente farei con un “Je suis le grand-père…” con il nome, se si conoscesse, delle bambine così orribilmente sacrificate.

Ma per tornare alla questione dell’Illuminismo il quesito potrebbe, e forse dovrebbe, essere posto in questi termini: di quale libertà vanno cianciando i nostri giornalisti televisivi e non? Della liberté promessa dalla Rivoluzione francese cosa ne è stato? (Mettiamo per ora da parte il discutere a che concezione della vita rimandino gli altri due termini che compongono il trittico in cui si riassume il progetto ‘politico’ di quella rivoluzione, e cioè “égalité” e “fraternité”, perché il discorso sarebbe troppo lungo.) Dov’è, oggi, la libertà, compresa quella di satira? Viviamo in democrazie, termine di cui tutti si riempiono la bocca senza sapere o fingendo di non sapere di cosa parlano, che sono espressione di una oligarchia formata dai plutocrati (quelli che oggi si definiscono, con una certa esattezza per altro, “poteri forti”) che reggono le sorti di ogni nazione del mondo occidentale, limitiamo pure il campo. In queste “democrazie” (e cioè, etimologicamente, “potere del popolo”) si ha la libertà di pensare, ma no!, e anche però di dire e scrivere ciò che si vuole purché si rinunci, parlo per i giovani ovviamente, non solo a fare carriera ma anche a entrare nel mondo del lavoro e purché si sappia che le proprie convinzioni, comunque espresse, non arriveranno mai a incidere alcunché perché verranno escluse, prima ancora che dalle redazioni dei giornali e dai programmi televisivi, dal muro eretto dal conformismo di massa, espresso da masse preventivamente manipolate fin nei più nascosti recessi dello spirito dall’ideologia diffusa attraverso i mezzi di comunicazione di cui ho già detto.

Ieri, 22 gennaio, come supplemento alla “Repubblica”, è uscita una rivista che raccoglie molto materiale sulla strage. Tra i molti interventi ce n’è anche uno di Žižek di cui trascrivo l’ultima parte:

“Quello che Horkhmeir aveva detto riguardo a fascismo e capitalismo, e cioè che chi non è disposto a parlare in modo critico del capitalismo non dovrebbe contestare neppure il fascismo, andrebbe applicato anche al fondamentalismo dei nostri giorni: chi non è disposto a parlare in modo critico della democrazia liberale non dovrebbe contestare neppure il fondamentalismo religioso”.

Mi pare che qui Žižek si riveli come straordinario svelatore dell’ideologia che sottostà, come scrivevo prima, alla democrazia borghese-liberale e quanto sia importante rifarsi agli stessi filosofi cui mi sono in precedenza richiamato perché è lì, nel pensiero della Scuola di Francoforte, che troviamo l’impostazione della lettura di tutti i fenomeni da cui siamo investiti oggi: non hanno vinto loro, è ben noto, ma altri pensatori a loro antagonisti primo fra tutti il mistificatore Heidegger da loro molto avversato e molto amato, invece, dai nostri “filosofi” postmoderni.

https://www.newstatesman.com/international

Anche di lì, sul piano delle idee, non certo nasce ma si conferma e “modernizza” il razzismo. Ricorro, ancora una volta, al “pensiero critico” e in ispecie a Adorno. C’è un libro del filosofo tedesco, Terminologia filosofica, che è certamente particolare. Si tratta, infatti, della trascrizione di un corso universitario dallo stesso titolo, tenuto nel 1962 e nel 1963, che, come precisa il curatore dell’edizione tedesca, non è stato rivisto dall’autore-professore. Giustamente e per questo motivo, in sede strettamente filosofica, chi scrive su Adorno cita la Terminologia filosofica con molta prudenza; a me, antico didatta, il volume è caro perché mette in luce come Adorno, scrittore ostico, difficile e spesso sacrosantemente sprezzante, come didatta fosse invece estremamente affabile e cercasse in ogni modo di mettersi in comunicazione con i propri studenti; approfondirò il discorso altra volta se altra volta ci sarà.
Ed ecco che proprio in risposta a una lettera che gli ha scritto uno studente del corso, il professor Adorno si impegna a chiarire ciò che egli vede nella filosofia del ‘nemico’ Heidegger a proposito del razzismo; e dice:

“Poiché nella dottrina heideggeriana, che è qui in questione, il concetto del fondamento viene usato con la massima energia come controconcetto rispetto a un pensiero che si pretende senza fondamento, abbiamo allora il diritto di chieder[ci] che cosa Heidegger propriamente intende con questo fondamento. […] Ritengo che dietro questo ideale del primo principio inteso come fondamento si celi l’ideale dell’autoctonia; o […] qui è entrata acriticamente nella filosofia un’idea che proviene dalla società: l’idea che colui che è stato per primo in qualche posto, che ha posseduto per primo, sia il migliore, il più nobile rispetto al new-comer o all’immigrato” (ed. 1975, pp. 155–156); e sarebbe bello poter ancora soffermarsi sull’osservazione dove dice che “le metafore di Heidegger si rifanno continuamente al mondo agricolo” e considerare gli approfondimenti di Adorno sul tema; ma questi appunti sono già troppo lunghi.

Ho riportato questo pensiero adorniano perché poi le cose vanno veramente così. Suona un po’ strano dire che il rozzo Salvini e la Le Pen derivino la loro visione del mondo dal raffinatissimo Heidegger, ma, si sa, tra la cultura alta e quella bassa, e cioè tra la filosofia e la sua vulgata, passa un filo sottile fin che si vuole ma resistente anche perché ho citato due esempi noti a tutti ma molti, anzi moltissimi, quale che sia l’ideologia che a parole professano, la pensano come lui, sono heideggeriani senza saperlo come il borghese gentiluomo di Molière parlava in prosa senza saperlo. Ora l’ondata di razzismo che si è scatenata dopo la strage di Parigi (ma perché non dopo quella compiuta da Boko Haram? ovviamente, secondo il senso comune, perché si tratta di “esseri inferiori” che si sbranano fra di loro) ha le sue radici nel sangue e nel suolo, ben tristemente noto slogan-programma nazista.

Mi rimane ancora un’osservazione da fare: subito dopo la strage è venuta fuori una posizione che si può riassumere nella frase “Sì, va bene, ma un po’ se la sono andati a cercare”. Chiarisco subito che non intendo affatto dire che chi critica la rivista “Charlie Hebdo” per le sue posizioni ideologiche abbia torto perché io non ne so niente e, in questo caso, non mi interessa neanche saperne di più; aggrappandomi a quell’umanità residua, cui ho già accennato, soffro per le vittime senza dimenticare gli assassini che hanno perso la vita anche loro, anche se forse era ineluttabile che andasse così e se, ancora forse, essi stessi avevano pianificato la propria fine: il fatto è che sono morti e i morti non sono affatto tutti eguali, ci mancherebbe metter sullo stesso piano vittime innocenti con gli assassini che li hanno uccisi; ma, e qui ci vuole un “però”, sono morti: e ciò provoca un disagio morale per chi odia la violenza indiscriminata anche se portata contro se stessi.

Ecco, ma questo pensare che in qualche modo le vittime siano responsabili del loro essere diventate vittime è proprio qualcosa di, moralmente, insopportabile. Durante il fascismo era cosa comune, e cioè che riguardava il pensiero comune, attribuire alla vittima la colpa dell’essere divenuta vittima: si diceva “Non aveva che da lasciar perdere, fare il suo lavoro e godersi la famiglia”.

È cosa nota e anche riportata in qualche film non banale sul fascismo o sulla Resistenza. In fondo quei vignettisti (ma ci sono anche gli avventori del supermercato frequentato da ebrei, quattro uccisi e gli altri traumatizzati probabilmente per tutta la vita) avrebbero potuto essere più cauti. Ora ci si mette di mezzo anche il nuovo Papa promettendo un pugno a chi gli parla male della mamma. Oh, la Mamma! E giù i giornalisti a spiegarci che la mamma è metafora della Fede, di qualsiasi fede perché dio è unico comunque lo si nomini.

Siamo ancora e sempre nel common sense. Questo è ciò che volevano sentirsi dire tutti coloro che pensavano che le vittime se la fossero cercata per uno scopo ben preciso e ben potentemente supportato dal solito pensiero comune (che non è il “buon senso” ma il “senso comune” che è altra cosa anche se non propriamente opposta alla prima; ma, anche qui, sarebbe troppo lungo affrontare l’argomento) e cioè quello di rimuovere l’idea della morte. L’uomo e la donna contemporanei non vogliono sentir parlare della morte: oggi non si muore, ma si scompare, si manca (“è mancato”), si vien meno, non si è più tra noi, eccetera: la rimozione è evidente a livello linguistico e la lingua, che non a caso muta continuamente, riflette sempre un modo di sentire e di essere. Quando poi la morte si impone per ragioni storiche, come nel caso di cui stiamo parlando, meglio dire che chi è morto è morto perché voleva morire; e così si allontana lo spettro della nera signora con la falce da noi. E il pugno del Papa si svela come metafora di proiettili di piombo.

Scrive Guy Debord nelle prime pagine del suo Panegirico: “Le citazioni sono utili nei periodi di ignoranza o di credenze oscurantiste. […] Giungeranno a proposito nel discorso: nessun computer me ne avrebbe potuto fornire la pertinente varietà”.

Ancora un ultimo appunto sullo sfruttamento televisivo della morte come spettacolo; perché, se nessuno vuol parlare della morte perché ciò lo fa pensare alla propria ineluttabile morte, molti, moltissimi però bramano dal vedere la morte degli altri per poter dire “è toccato a te e non a me”, soprattutto se l’evento è opportunamente spettacolarizzato. Citare Debord è ormai piuttosto banale perché quasi tutti i giornalisti e divulgatori si sono appropriati del titolo del suo libro più famoso, La società dello spettacolo, magari senza averlo letto e non condividendone affatto la filosofia di fondo.

Ma in questo caso la citazione è d’obbligo perché il pomeriggio dopo la strage “Tutto ciò che era [un tempo] direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”.

Confesso di non aver resistito più di mezz’ora il giorno della “diretta” della cattura e dell’eliminazione dei due fratelli assassini: sembrava di essere di fronte a uno dei soliti telefilm polizieschi che le televisioni trasmettono in gran copia e ho avuto proprio la sensazione di ciò che scrive Debord e cioè che la mia realtà, che in quel momento era intrisa di pietas per le vittime del giorno precedente ma anche di angoscia per ciò che stava per succedere agli assassini, stesse allontanandosi, non lo saprei dire meglio, in una rappresentazione, una rappresentazione che intendeva sortire l’effetto del cannocchiale rovesciato con cui i carnefici assistono alla definitiva eliminazione delle vittime nel Salò o le centoventi giornate di Sodoma di Pasolini là dove i malvagi provano certamente piacere ma, contemporaneamente, allontanano da sé l’immagine della morte per prendere le distanze da quella che, sebbene coscientemente inflitta da loro, è pur sempre una morte: de te et de me fabula narratur.