Elogio del rigore

La società dei consumi è nemica del rigore.
La filosofia postmoderna è nemica del rigore.
Il pensiero debole è nemico dei rigore.

Infatti:

il rigore si oppone al consumo;
il rigore è antico e moderno;

l rigore è tale perché affonda le sue radici in un pensiero forte; perché ci sia rigore debbono esistere dei valori riconosciuti e riconoscibili, dei valori su cui poggia il giudizio e non importa che questi valori siano utopici: anche l’utopia è una forma del rigore.

Rigore vuol dire accettare che il concetto e la pratica del sacro siano scomparsi da una società che ha del tutto abdicato a quei valori che si sono presentati in modo diverso nello svolgersi della storia e che avevano retto il consorzio umano dalle sue origini e che li ha sostituiti con un unico valore, quello di scambio, che è la cifra fondante e immediatamente riconoscibile per connotare i nostri tempi.

Rigore vuol dire sapere che il sublime ha definitivamente abbandonato il nostro mondo e che tutta l’arte moderna si inscrive sotto il segno di Sade che, primo, ha lanciato il suo urlo straziato sulla perdita del sublime nella società moderna.

Rigore vuol dire rendersi conto che della fenomenologia della perversione — non del suo concetto — si è definitivamente impadronita la società dei consumi tutto appiattendo e riducendo la trasgressione a norma, al punto tale per cui della prima non si può più parlare.

Rigore vuol dire sapere che nella società dello spreco non c’ è più posto per lo spreco come lo intendeva Bataille e che se non c e più posto per lo spreco (di sé) non c’è nemmeno più posto per il dono in una società in cui tutto viene scambiato e per cui l’unico valore è proprio costituito da quello stabilito dal mercato.

Rigore vuol dire sapere con precisa esattezza che arte e industria non possono in alcun modo coniugarsi; vuol dire sapere che, allo stesso modo, cultura e industria non possono stare insieme dal momento che il mondo dell’una nega quello dell’altra e viceversa e che la semplice espressione “ industria culturale” è una bestemmia.

Rigore vuol dire sapere che il teatro è morto perché è venuta meno quella comunità etica cui da sempre ha fatto riferimento; perché sono venuti meno tutti i presupposti su cui si basa, che sono quelli elencati qui sopra: il sacro, il sublime, la perversione, lo spreco, il dono, l’arte e la cultura; a questi si può aggiungere ancora il piacere che, nella società del piacere diffuso, non ha più quel posto privilegiato che gli era proprio e che veniva demandato a luoghi e momenti particolari non della vita di tutti i giorni.

Rigore vuol dire sapere che il teatro è stato sostituito dallo spettacolo, che si offre come un prodotto da consumare e che non ha nulla a che fare con l’arte: lo spettacolo è la negazione del teatro in quanto rende tutto in superficie ciò che là è invece profondità, dal momento che trasforma in pura visione ciò che nel teatro è sentire autentico, in quanto spettacolarizza ciò che invece nel teatro (moderno) è sofferenza profonda per l’impossibilità di frequentare il sacro e di “mostrare” il sublime.

Rigore vuol dire frequentare ancora le categorie, tipicamente moderne, di naturalismo e antinaturalismo e non danzare la danza della soddisfazione consumistica e postmoderna in cui tutto si appiattisce in un giudizio di valore privo di riferimenti “ alti” che non siano la piacevolezza e la gradevolezza di un determinato prodotto; perché la lotta tra naturalismo e antinaturalismo appartiene alla nostra epoca e non tenerne conto vuoi dire espropriare i giovani del loro passato (che è anche il nostro): che è poi un modo di renderci complici dell’alienazione e della reificazione che stiamo vivendo.

Ma rigore vuol anche dire sapere che in questa pesante notte da cui siamo avvolti resta accesa una luce di speranza: e questa consiste nella contraddizione, in tutto ciò che si oppone all’ipertrofia del valore di scambio. Anche se nulla di consolatorio c’è ormai concesso: i valori perduti possono essere frequentati solamente nella loro dimensione rovesciata e un urlo straziato e straziante rimarrà li a documentare una tensione verso quei valori ormai impraticabili, ma vivi sempre in quella dimensione utopica di cui si sostanzia l’arte pur così difficile di questi tempi tristi e bui.

E infine rigore vuol dire cercare nella contraddizione la bellezza che, nella sua essenza, si è occultata nell’epoca storica che stiamo vivendo per espandersi nelle sue forme volgari e superficiali — anche in teatro proprio attraverso l’estetismo diffuso dello spettacolo, che nulla ha a che fare con l’autentica estetica del teatro — consapevoli che oggi la bellezza non può che presentarsi in forma rovesciata, come negazione della sua possibilità, come “ grottesco”, come stravolgimento: elementi che comunque non possono non mantenere un nucleo profondo di bellezza, nel senso di “tensione verso”, che è poi l’unica forma di “contemplazione” estetica che è concessa ai nostri tempi.