Quentin Tarantino. Pulp fiction. Se il critico non critica

È uscita in libreria la monografia dedicata a Pulp Fiction di Alberto Morsiani. L’Asino vola ospita volentieri la recensione al libro di uno studente della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Torino. Di Enrico Pili

La monografia Quentin Tarantino. Pulp Fiction di Alberto Morsiani è l’ennesimo elogio a Pulp Fiction (1994):
film moralista, prepotentemente conformista, e frutto maturo di quel naturalismo aggiornato all’estetica postmoderna. Ma il libro di Morsiani ci pone anche di fronte alla tendenza di certa critica a rinunciare a determinare il valore dell’opera di fronte a cui si pone – per usare un’espressione di Ezra Pound – limitandosi 
di fatto ad assecondare il gusto dominante.

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Cinema e contesti. A proposito del Divo e di Gomorra

Il divo di Paolo Sorrentino e Gomorra di Matteo Garrone, nelle sale dopo i successi riportati 
al 61° festival di Cannes, tornano a far parlare di “cinema d’impegno” e risollevano gli animi di chi, in Italia, lamentava l’assenza di un cinema di denuncia, capace di scuotere le coscienze.
Ma le due pellicole sono mosse da intenti diversi e, per certi aspetti, lontani dall’impegno civile e politico che caratterizzò il nostro cinema negli anni sessanta e settanta.
 Di Silvia Iracà
Oggi si assiste a uno stemperarsi di quella connotazione “forte” dell’impegno nel cinema e in generale 
in tutta l’arte. Tant’è che spesso per guadagnarsi un tale riconoscimento sembra essere sufficiente 
un soggetto che attinga dalla materia di volta in volta politica, storica o sociale, senza che l’impronta autoriale
si spinga al di là della semplice illustrazione, o ancora, dell’acritica accettazione dell’esistente, riducendo
così la storia a un pacificante spettacolo di intrattenimento.

Una delle immagini “belle” del film Il divo. Sorrentino spesso organizza le inquadrature secondo un gusto manifestamente pittorico.
Qui, per esempio, ricorre alla citazione attraverso l’imitazione figurativa dell’Ultima cena leonardesca. Ma da questa accurata ricerca estetica che percorre tutta la pellicola non scaturisce, come dovrebbe (per contrasto
con la bruttura di ciò che quelle immagini illustrano) alcuno strazio, anzi a 
tratti si direbbe che Sorrentino se ne compiaccia, cedendo alle lusinghe 
di un gusto estetizzante e finendo per indebolire il senso dell’intera operazione registica.

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Ciro e Michele, i due ragazzi-emblema dell’epica camorristica inscenata da Garrone in Gomorra, sono qui ripresi durante una delle loro scorribande.
La sequenza da cui è tratto questo fotogramma, insieme a quella con cui si chiude la pellicola, è una delle più eloquenti e meglio riuscite del film, in cui spesso si ha la sensazione che gli attori non recitino una parte, ma incarnino, restituendolo senza orpelli, il paradigmatico paradosso delle loro vite e della realtà in cui sono immersi. In particolare, nella vicenda umana di questi due giovani si concentra il dramma del tentativo vano di un riscatto in un mondo dominato dai poteri criminali, dove si parla con le armi, si vive stretti dalla morsa della violenza e la vita di chi vorrebbe “distinguersi” non può che imitare la finzione di un film di mafia.