Perché una rivista

Ci sono molti motivi per fare una rivista; ma ci sono anche molti buoni motivi per non farla, tanto più se “di teatro e altro”. Tra questi ultimi il fatto che esistono già, sul mercato (ma è un mercatino quello di cui stiamo parlando), altre riviste; e forse troppe. Bisogna quindi avere una forte spinta per farne una nuova e dei validi motivi (o, almeno, essere profondamente convinti che esistano senza troppo vergognarsi delle proprie convinzioni).

E, per incominciare: questa è una rivista “militante”. Il termine vuol dire poco. Infatti: chi non è militante? Tutti militiamo in qualche milizia, o in un modo o nell’altro. Anche chi si pone dalla parte dell’esistente e della trionfante industria culturale milita; milita come conformista, ma milita. L’aggettivo “militante”, però, ha assunto una connotazione che lo significa come particolarmente attento ai fenomeni contemporanei, non senza un sospetto di partigianeria e di tendenziosità. In questo senso il termine ci si adatta e noi lo adattiamo a questa rivista: siamo, e non abbiamo mai nascosto di esserlo, partigiani e tendenziosi.

Ovviamente partigiani e tendenziosi (cioè “che stanno da una parte” e “che parteggiano per una tendenza”) è un termine ambivalente: tali ci rubricano quelli che non la pensano come noi e noi quindi ci appropriamo dei termini proprio come, nella storia, alcune parti politiche hanno rivoltato con orgoglio i termini spregiativi o limitativi con cui venivano designate, appunto, appropriandosene. Perché, in fin dei conti, noi non siamo né partigiani né tendenziosi visto che il fine dei nostri discorsi è l’arte in qualsiasi forma si mostri. E se questa poi, nei tempi bui che stiamo vivendo, si manifesta solo da una determinata parte o fazione non è certo colpa nostra. Noi qui testimoniamo un’idea del teatro (e di altro) che è quella che non ha ancora ceduto al conformismo trionfante di questi tempi.

Ma non diamo soluzioni al problema; o, perlomeno, diamo solo quelle che i tempi ci permettono di dare. Poiché siamo convinti che il modo corretto di procedere è quello di porli, i problemi, e non (o non solo) di fornire soluzioni. Mai, nell’epoca moderna, è stato necessario come oggi portare in luce i problemi, i nodi intorno a cui si dipanano le varie questioni così come mai come oggi è stato difficile risolvere questi problemi, questi nodi. Si pensi a una delle questioni poste nel primo numero di questa rivista da Rino Sudano nel colloquio che chiude quel fascicolo: il problema di quello che egli definisce “il pudore della forma”. In sintonia con questo discorso, e nello stesso periodo di tempo (novembre ‘ 97 e gennaio ‘98), e la cosa certo non è casuale, è uscito un volume di notevole interesse che è Pasolini contro Calvino di Carla Benedetti edito da Bollati-Boringhieri.

Sul volume si è immediatamente alzato un chiacchiericcio giornalistico in cui il buon senso, che è ciò che di peggio si possa dare in un dibattito su un fatto artistico o culturale, serviva solamente a nascondere, come è proprio dell’ideologia, interessi editoriali ben precisi. Ma, sottratto il volume a questo chiacchiericcio, e subito detto che qualcosa dell’impianto della Benedetti non convince del tutto (il non scegliere tra postmoderno e tarda modernità, il parlare di fine delle poetiche nel momento stesso in cui si nega la fine delle ideologie…), non possiamo non renderci conto che il succo del discorso dell’autore è in profonda sintonia con quanto espresso da Sudano. Si tratta, infatti, di mettere in luce come nel momento della crisi delle poetiche (così i termini ci sembrano rispondere meglio alla realtà ;, almeno così come noi la leggiamo) non ci sia, per i grandi, non solo della letteratura, che la fuga nell’istituzione o la testimonianza di un’arte strettamente legata alla vita e che da questa e per questa tragga la propria linfa vitale: così Calvino, che si rifugia nella forma andando incontro alle richieste dell’industria culturale, e, dall’ altra parte, Pasolini che con i suoi “brutti versi” rinuncia alla sua aura di poeta laureato per porsi continuamente in discussione e perseguire il “fine pratico della [sua] poesia”.

Ma il discorso si può estendere. E, per rimanere al campo di nostra pertinenza, che cosa sarà il rifugio nella fonè di Carmelo Bene o nell’istituzione di Leo De Berardinis confronto al rifiuto della forma di Rino Sudano, appunto, e, se pure in modo diverso e cioè nel suo operare concreto d’attore solo apparentemente “istituzionale”, di Carlo Cecchi? C’è poi anche chi continua a ‘formare’ – Carlo Quartucci e Carla Tatò, presente il primo in questo fascicolo; ma anche Remondi e Caporossi – ma senza per questo cedere dal momento che il loro non è un rifugiarsi nell’ ;istituzione ma, al contrario, è un portare avanti un discorso che viene da lontano e che si contraddistingue per essere di contraddizione con tutto ciò che non l’arte ma l’industria culturale ci propone: in una parola il teatro di regìa così come si è configurato negli ultimi quarant’anni. (Per non parlare del teatro del testo, in qualche modo legato a quello di regìa, che oggi sopravvive solo nella sua forma degenerata di prodotto di rifornimento per il mercato di un teatro totalmente arreso all’industria culturale).

Sintomi interessanti, questi, di una critica che rifiuta di arrendersi e che si pone, appunto e come dicevamo, problemi di grande interesse per l’epoca che stiamo vivendo; un’epoca cui non è data nessuna consolazione, che non sia un tradimento, ma cui solo è concesso tentare di mettere sale sulle ferite, divaricare le fessure che pure si aprono in un tessuto che vuole apparire compatto ma che tale non è per le leggi ineluttabili della dialettica che non solo non è morta ma che continua a essere l’unico strumento euristico praticabile così per conoscere il passato come per appropriarsi del presente. Gigi Livio