L’oscenità del dono

Le festività natalizie offrono lo spunto per una riflessione sulla decadenza del dono, tra sociologia, psicoanalisi e “pensiero critico”. Di Letizia Gatti

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Una vignetta satirica di Gahan Wilson,pubblicata sul “The New Yorker” il 19 dicembre del 1988, gioca sugli stereotipi della psicoanalisi freudiana e sull’immaginario collettivo dei lettori per fare emergere le contraddizioni delle festività natalizie. La battuta riportata in calce è pronunciata dallo psicanalista, che così si rivolge a un Babbo Natale evidentemente turbato: “Mi creda, tutti si sentono un po’ depressi in questo periodo dell’anno!”.

Sabotare la narrazione. Il documentario di Kamran Shirdel.

Tra l’11 e il 14 dicembre si è tenuta a Cagliari la ventottesima assemblea generale della FICC (Federazione Italiana Circoli del Cinema). In questa occasione è stato consegnato un premio alla carriera al regista iraniano Kamran Shirdel e sono stati proiettati molti dei suoi lavori. Di Enrico A. Pili

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Una foto che ritrae Kamran Shirdel assieme a Michelangelo Antonioni al terzo Festival Internazionale del Cinema di Teheran del 1974. Per l’occasione fu permesso a Shirdel di completare la realizzazione di Oun Shab Keh Baroun Oumad. Il film vinse il grand prix, ma la gloria durò appena il tempo del festival perché, una volta rincasati gli ospiti internazionali, l’opera tornò all’indice fino al 1979.

In questa sequenza di Oun Shab Keh Baroun Oumad sentiamo il regista istruire gli abitanti del villaggio di Lamelang sulla posa da assumere per le riprese. È certamente uno dei momenti in cui con maggior forza viene ridicolizzata la pretesa del reportage giornalistico di restituire allo spettatore la cosiddetta “realtà oggettiva”.

In questa sequenza di Oun Shab Keh Baroun Oumad sentiamo il regista istruire gli abitanti del villaggio di Lamelang sulla posa da assumere per le riprese. È certamente uno dei momenti in cui con maggior forza viene ridicolizzata la pretesa del reportage giornalistico di restituire allo spettatore la cosiddetta “realtà oggettiva”.

Il giovane favoloso: meno male che non ci sono i pidocchi

L’articolo riprende la questione del Giovane favoloso, già affrontata da Gigi Livio nel numero precedente, mettendo in rilievo, dal punto di vista della storia letteraria, come il film sia lontano dal rendere la straordinaria ricchezza dell’avventura intellettuale leopardiana e al contrario si riduca a una bassa aneddotica biografica. Siccome il film, che ha ottenuto un largo successo di pubblico ed è accompagnato da una martellante campagna di recensioni e interviste, si presenta come un’operazione di mercato di vasta portata (e una brutta operazione), insistere su una analisi critica risulta un dovere non solo culturale ma civile. Di Guido Baldi

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I bambini sanno ancora giocare?

L’autrice propone una riflessione sulla crescente incapacità dei bambini a giocare da soli e senza l’ausilio di tecnologie, che tendono a ridurre la loro immaginazione e la loro creatività. Di Elma Krimer

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Nella foto si possono osservare dei bambini intenti a giocare al salto della corda, gioco di antiche origini, che non necessita di chissà quale attrezzatura ma solo di una corda, qualche canzoncina di accompagnamento e naturalmente la presenza di tre o più bambini. Seppur di semplice svolgimento il gioco in questione ha la prerogativa di far incontrare e interagire tra loro, generalmente all’aria aperta, i bambini.

Pasolini e Leopardi “filmati”

L’autore dell’articolo si propone, di fronte a un coro di lodi elevate nei confronti del Giovane favoloso dai mezzi di comunicazione di massa e da molti “intellettuali”, di imitare per quanto sa e può il bambino (cattivo e anche un po’ perfido) che fa notare che il re è nudo. La comparazione poi con Pasolini permette, anche in questo caso, di vedere come i laudatores di opere corrive cadano spesso in errore quando si tratta di raffinare i propri strumenti critici per affrontare un’opera con scopi un po’ più alti di quelli del botteghino e che ha il coraggio di mettere piede nel tempio che, come si dovrebbe sapere, sorge a fianco del mercato. Di Gigi Livio

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Le due locandine servono a intuire, se non proprio a capire (ci vorrebbe la visione integrale dei due film), la differenza di impostazione recitativa tra i due protagonisti. Lasciamo stare l’espediente, tutto da ufficio marketing, del volto rovesciato dell’attore che recita il ruolo di Leopardi: l’allusione al fatto che il film dovrebbe “rovesciare” la solita, per gli autori del film non certo per la storia, interpretazione di Leopardi, è confutata nell’articolo. Qui è forse utile proporre una sorta di comparazione degli sguardi, per ciò che si può dire su immagini non del tutto pregnanti, tra i due attori, Elio Germano e Willem Dafoe. Lo sguardo che Germano usa per recitare la parte di Leopardi è uno sguardo un po’, ma in altre inquadrature anche molto, “perso”, tipico della tradizione basso romantica che legge il poeta come un individuo avulso dal mondo; ovviamente non è il caso di Leopardi, ma nemmeno di qualsiasi poeta della, restringiamo pure il campo, modernità: basterebbe pensare a un altro grandissimo e cioè a Baudelaire. Lo sguardo di Dafoe è offuscato dagli occhiali scuri e soltanto s’intravvede; ma tutto il primo piano è proprio in funzione di quello sguardo che traluce appena -in altre parti del film risulta molto evidente- e la mano, la posizione della testa, la mimica facciale mostrano ciò che esprime lo sguardo e cioè una malinconia senza fine ma virilmente accettata -è anche questa una caratteristica leopardiana, che il giovane favoloso non mette in luce- che non solo non esclude il poeta dal mondo ma che, al contrario, in questo mondo lo radica fortemente visto che lì è l’origine di quella malinconia. Il film non prende in considerazione direttamente Pasolini come poeta, ma sempre sottende alla ‘messa in scena’ del polemista e critico dei costumi il suo essere un poeta. Non anche un poeta, ma proprio un poeta che per il profondo legame che lo stringe al mondo, appunto, non può non farsi critico della società in cui vive (non stessimo parlando di due film bisognerebbe notare che, ancora una volta, ciò vale anche per Leopardi, ciascuno a suo modo ovviamente; e aggiungiamo pure Baudelaire).



Le divergenze di Maresco e Ciprì

L’ultimo film di Daniele Ciprì, La Buca, esce a poche settimane di distanza da Belluscone – una storia siciliana di Franco Maresco. I due registi, un tempo coppia artistica, non potrebbero oggi, alla luce dei loro nuovi lavori, apparire più incompatibili. Di Enrico A. Pili

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Il film di Maresco, girato in digitale con Luca Bigazzi, già direttore della fotografia de Lo zio di Brooklyn e Totò che visse due volte, alterna il bianco e nero al colore. È questa una delle tante articolazioni del disegno stilistico dell’opera: Ciccio Mira, virato in bianco e nero, evoca una presenza umana che non c’è più, che già in lui sopravvive per via negativa. Il colore invece diventa fondamentale per la definizione dei cantanti neomelodici (delle loro abbronzature e dei loro virtuosistici tagli di capelli), così come di tutti quei corpi che, per il regista, fanno parte di una nuova “post-umanità” antropologicamente mutata.

Il film di Maresco, girato in digitale con Luca Bigazzi, già direttore della fotografia de Lo zio di Brooklyn e Totò che visse due volte, alterna il bianco e nero al colore. È questa una delle tante articolazioni del disegno stilistico dell’opera: Ciccio Mira, virato in bianco e nero, evoca una presenza umana che non c’è più, che già in lui sopravvive per via negativa. Il colore invece diventa fondamentale per la definizione dei cantanti neomelodici (delle loro abbronzature e dei loro virtuosistici tagli di capelli), così come di tutti quei corpi che, per il regista, fanno parte di una nuova “post-umanità” antropologicamente mutata.

Il fotogramma, tratto dal film La buca, ci pare mostrare bene che il lavorio del regista sulla pellicola, mirato a dare a questa i colori «di un film antico», si risolve in un effetto pastello che, invece di straniare, o «evocare» come piace dire al regista, avvicina il film ai colori delle miniserie televisive italiane e alle scene oniriche di Un posto al sole. Nonostante infatti Ciprì sia soprattutto fotografo, e il lavoro su Vincere di Marco Bellocchio aveva fatto da questo punto di vista sperare in qualcosa di meglio, ci pare che la fotografia sia un altro elemento de La bucadecisamente da dimenticare.

Ma quale nuova didattica?

Un articolo dell’“Espresso” sulla “scuola del futuro”, e cioè quella in cui secondo l’autore dello scritto verranno usati gli strumenti digitali, offre lo spunto per un abbozzo (non di più ché se no ci vorrebbe un libro) di ragionamento sul problema oggi più impellente che mai di cercare di capire cosa si intenda per “rivoluzionare la didattica”. Di Gigi Livio

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