“Je suis Charlie”?

Appunti sulla strage di Parigi e non solo su quella

La strage di Parigi ha portato alla luce molti problemi e contraddizioni del mondo in cui viviamo. Affrontare questi problemi pretendendo di darne una lettura univoca è altrettanto sbagliato quanto tacere su un fatto così terribilmente luttuoso. Ma si possono avanzare dubbi che poggino, però, su elementi non superficiali al contrario di ciò che, in questo periodo, hanno fatto, e non c’è da stupirsene, i mezzi di comunicazione di massa dai quotidiani, non tutti ma quasi, alla radio e alla televisione. di Gigi Livio

Premessa necessaria. All’indomani dell’eccidio di Parigi c’è stato uno scambio di rapide opinioni sulla nostra pagina Facebook. Letizia Gatti ha condiviso un post dell’“Internazionale” a proposito della presa di posizione che si riassume nello slogan “Je suis Charlie”; la risposta brevissima di Enrico Pili era accentrata sul fatto che egli non si sentiva, e immagino non si senta ancora, di condividere quello slogan perché in disaccordo con la linea editoriale della rivista “ebdomadaria”, e cioè “settimanale”, “Charlie Hebdo”.

Anche Andrea Scarel, che da tempo segue questa rivista e che invito a mandarci un suo scritto, è entrato nella discussione. A tutti e tre ho risposto che occorreva meditare, perché, aggiungo ora, l’argomento è estremamente complesso, e avere il tempo per iniziare a elaborare il lutto; e, intanto, promettevo un articolo anch’io.

Quanto all’elaborazione del lutto, stilema freudiano oggi di moda, lasciamo perdere: la verità è che noi dimentichiamo i morti e le morti perché vogliamo dimenticare per continuare a vivere con una relativa serenità, relativa perché sappiamo di dover morire (ma qui semplifico un po’ brutalmente: esiste infatti anche la “morte civile”, che può essere esemplificata nel rimanere senza lavoro, nel dover subire le guerre e, ovviamente, le stragi e in altre cose ancora) e, dunque, probabilmente l’elaborazione del lutto coincide soltanto con la dimenticanza, col lasciar passare il tempo che il solito proverbio filisteo ci insegna che sana tutte le cose; la mia convinzione, al contrario, è che non sani un bel niente.

Altra cosa è il meditare sui fatti appena accaduti. Qui il tempo serve semplicemente perché permette di pensare. Ecco “pensare” è oggi un termine importante perché il ritmo ormai ossessivamente accelerato della vita, ritmo che per fortuna non è uguale da paese a paese e finanche da regione a regione, tende a limitare non solo il “pensiero critico” ma lo stesso pensiero, che può anche non essere programmaticamente “critico” ma che costringe a riflettere su ciò che è successo e, pertanto, su ciò che diciamo e scriviamo.

E il pensare porta con sé, di necessità, il dubbio. Certamente non un dubbio ‘scettico’, basato su un concetto metafisico che preveda l’impossibilità della ragione umana di giungere mai alla verità, o un altro tipo di dubbio incentrato non sullo scetticismo tout court, come quello del primo tipo, ma su uno scetticismo che questa volta poggia i suoi fondamenti su un fatto molto più concreto e cioè la constatazione che oggi l’informazione è talmente “amministrata” e ideologica per cui risulta impossibile, anche in questo caso, arrivare a una qualche verità. Quest’ultimo concetto è naturalmente condivisibile perché l’analisi è giusta. Non fosse che un terzo modo di intendere il dubbio, più fertile e intenzionato a superare l’inerzia del pensiero, può proprio partire dal “mettere in dubbio” tutto il materiale informativo di cui disponiamo. Questo potrebbe permettere di portare alla luce le menzogne e gli inganni, se non tutti almeno in parte, dell’ideologia che copre come una spessa coltre di polvere non solo la verità ma certamente anche la realtà.

E allora, per mettere alla prova il ragionamento appena svolto e partendo dallo sbandieramento degli ideali dell’Illuminismo, iniziamo col riflettere su cosa siano questi ideali e come realmente si sono strutturati nel tempo. Qui tutti — non tutti, ovviamente, ma le eccezioni non le ho percepite, anche se so benissimo che questa affermazione può essere contraddetta perché nessuno può leggere tutti i giornali e tutte le riviste e sorbirsi tutti i programmi televisivi dove per sentire cinque minuti qualcuno che dice cose belle e col tono giusto devi sopportare ore di sproloqui di squallidi personaggi che sono lì soltanto perché fanno audience — si riempiono la bocca di questo termine ridotto a una formula: la libertà di espressione; e giù tutti a citare Voltaire che, pur non essendo d’accordo, darebbe la vita per permettere a chi non la pensa come lui di esprimere la sua opinione. Banale dire che l’Illuminismo non è solo Voltaire e che un periodo storico così complesso e articolato come fu quello non può essere racchiuso in una formula.
Ricorro allora proprio a due saggisti illustri cui dobbiamo il massimo sviluppo del “pensiero critico”, Horkheimer e Adorno, non per approfondire e, tanto meno, risolvere il problema, cosa che richiederebbe un lungo discorso, ma per aprire la mente alla fecondità del dubbio.

Max Horkheimer, a sinistra, con Theodor W. Adorno, in una fotografia scattata nell’aprile del 1964, ad Heidelberg, in occasione della Deutscher Soziologentag “Max Weber und die Soziologie heute”, il convegno della Società tedesca di Sociologia intitolato a Max Weber. In secondo piano, a destra, con una mano tra i capelli, Jürgen Habermas. Foto (CC) di Jeremy J. Shapiro.

In Dialettica dell’illuminismo, la cui prima edizione è del 1944, i due filosofi sottopongono sia gli ideali dell’Illuminismo che la loro applicazione pratica nel tempo a un’analisi profonda e straordinariamente acuta. Il volume è ricchissimo di spunti e non sono certo due citazioni, come quelle che mi accingo a trascrivere, che ne possano sintetizzare la eccezionale articolazione. Semplicemente, e non senza umiltà di fronte a simili giganti del pensiero, oggi che il “pensiero” è monopolizzato da nani dello stesso cui i servi del sistema si affidano ciecamente, propongo poche righe che mi pare possano servire a vedere le cose da un altro punto di vista, un punto di vista non solo alternativo ma decisamente antagonistico nei confronti del common sense. Ecco, dunque:

“La ragione, come io trascendentale superindividuale, implica l’idea di una libera convivenza degli uomini, in cui essi si costituiscano a soggetto universale e superino il dissidio tra la ragion pura e empirica nella consapevole solidarietà del tutto. Che è poi l’idea della vera universalità, l’utopia. Ma insieme la ragione rappresenta l’istanza del pensiero calcolante, che organizza il mondo ai fini dell’autoconservazione e non conosce altra funzione che non sia quella della preparazione dell’oggetto, da mero contenuto sensibile, a materiale di sfruttamento. La vera natura dello schematismo che accorda dall’esterno universale e particolare, concetto e caso singolo, si rivela da ultimo, nella scienza odierna, come l’interesse della società industriale. […] Tutto diventa processo ripetibile e sostituibile, semplice esempio dei moduli concettuali del sistema: anche il singolo uomo, per non dire dell’animale” (Max Horkheimer — Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, ed. 1966, pp. 92–93).

Il linguaggio dei due pensatori è piuttosto difficile da decifrare come, del resto, risulta criptico lo stile specifico della filosofia tedesca. E, anche se a parafrasare questo linguaggio si incappa ineluttabilmente nella semplificazione, ci accorgiamo subito che qui i due autori impostano il problema della ragione in modo non certo tradizionale, quello in cui lo si usa ancora oggi e cioè quello per cui questo strumento del pensiero sarebbe del tutto avulso da condizioni storiche e sociali e risulterebbe pertanto qualcosa di astratto e astrattamente applicabile a qualsiasi circostanza, ma indagano invece l’uso storico-sociale che la borghesia ha fatto del concetto di ragione. Concetto che è passato dal prefigurare una “solidarietà del tutto” a divenire il motore dell’organizzazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo dove il singolo uomo diventa “ripetibile e sostituibile”.

Non pretendo qui, nemmeno lontanamente, di cercare di riassumere ciò che dice questo libro che, appunto, non è riassumibile (non so a chi si deve la quarta di copertina della Dialettica negativa di Adorno, ma certamente si tratta o dell’autore stesso o di persona assai esperta del suo pensiero dal momento che lì si dice che “La Dialettica negativa avrebbe fallito il suo scopo se si lasciasse riassumere”) ma voglio ancora soffermarmi su un punto che mi pare faccia decisamente al fatto nostro: la compassione sottoposta al vaglio del pensiero critico.

[La compassione] conferma la regola dell’inumanità con l’eccezione stessa che compie. Affidando il superamento dell’ingiustizia all’amore del prossimo nella sua casualità, essa accetta come immutabile la legge dell’estraniazione universale che vorrebbe mitigare”. Di qui la valorizzazione di pensatori, Sade e Nietzsche, che certamente i due esuli marxisti e ebrei dalla Germania nazista non possono erigere a loro bandiera, soprattutto il secondo ampiamente manipolato dal nazismo come è ben noto, se non leggendoli come “coloro che smaschera[ndo] la pietà prendevano posizione — indirettamente — per la rivoluzione” (p. 112).

Su questa linea di pensiero, Horkheimer e Adorno possono chiudere il capitolo dedicato alla morale dell’illuminismo con queste parole:

“Proclamando l’identità di ragione e dominio, le dottrine spietate sono più pietose di quelle dei lacchè della borghesia. ‘Dove sono i tuoi massimi pericoli? — si è chiesto una volta Nietzsche: — nella compassione’. Egli ha salvato, nella sua negazione, la fiducia incrollabile nell’uomo, che è tradita giorno per giorno da ogni assicurazione consolante” (p. 129).

In questi, che sono “appunti”, ho appuntato osservazioni che possono essere utili a coltivare, e seminare, il dubbio con cui la strage di Parigi è stata accolta. Soprattutto dai mezzi di comunicazione di massa che sono oggi i principali diffusori dell’ideologia, proprio nel senso di falsa coscienza, di mistificazione programmata che diviene programmatica, di manipolazione delle coscienze e di controllo, ancora una volta programmato, dell’immaginario individuale e di quello collettivo.

Vorrei fosse chiaro che il fatto di avanzare dubbi sul modo come è stato manipolato il fatto orrendo non ha nemmeno lontanamente l’intenzione di diminuire la responsabilità degli assassini che restano tali senza che questa volta si possa avanzare alcun dubbio. Solo un accenno a un altro avvenimento tremendo: in Nigeria Boko Haram avrebbe compiuto una strage uccidendo 2000 persone (la cifra non è sicura, neanche si trattasse di sacchi di grano) ma, qui invece la cifra è purtroppo certa, sacrificando tre bambine usate come bombe. Se quindi mi appunterei sul petto un cartello con su scritto “Je suis Charlie” per quel senso di umanità residuale che ancora ci divide dalla barbarie totale, ancor più convintamente farei con un “Je suis le grand-père…” con il nome, se si conoscesse, delle bambine così orribilmente sacrificate.

Ma per tornare alla questione dell’Illuminismo il quesito potrebbe, e forse dovrebbe, essere posto in questi termini: di quale libertà vanno cianciando i nostri giornalisti televisivi e non? Della liberté promessa dalla Rivoluzione francese cosa ne è stato? (Mettiamo per ora da parte il discutere a che concezione della vita rimandino gli altri due termini che compongono il trittico in cui si riassume il progetto ‘politico’ di quella rivoluzione, e cioè “égalité” e “fraternité”, perché il discorso sarebbe troppo lungo.) Dov’è, oggi, la libertà, compresa quella di satira? Viviamo in democrazie, termine di cui tutti si riempiono la bocca senza sapere o fingendo di non sapere di cosa parlano, che sono espressione di una oligarchia formata dai plutocrati (quelli che oggi si definiscono, con una certa esattezza per altro, “poteri forti”) che reggono le sorti di ogni nazione del mondo occidentale, limitiamo pure il campo. In queste “democrazie” (e cioè, etimologicamente, “potere del popolo”) si ha la libertà di pensare, ma no!, e anche però di dire e scrivere ciò che si vuole purché si rinunci, parlo per i giovani ovviamente, non solo a fare carriera ma anche a entrare nel mondo del lavoro e purché si sappia che le proprie convinzioni, comunque espresse, non arriveranno mai a incidere alcunché perché verranno escluse, prima ancora che dalle redazioni dei giornali e dai programmi televisivi, dal muro eretto dal conformismo di massa, espresso da masse preventivamente manipolate fin nei più nascosti recessi dello spirito dall’ideologia diffusa attraverso i mezzi di comunicazione di cui ho già detto.

Ieri, 22 gennaio, come supplemento alla “Repubblica”, è uscita una rivista che raccoglie molto materiale sulla strage. Tra i molti interventi ce n’è anche uno di Žižek di cui trascrivo l’ultima parte:

“Quello che Horkhmeir aveva detto riguardo a fascismo e capitalismo, e cioè che chi non è disposto a parlare in modo critico del capitalismo non dovrebbe contestare neppure il fascismo, andrebbe applicato anche al fondamentalismo dei nostri giorni: chi non è disposto a parlare in modo critico della democrazia liberale non dovrebbe contestare neppure il fondamentalismo religioso”.

Mi pare che qui Žižek si riveli come straordinario svelatore dell’ideologia che sottostà, come scrivevo prima, alla democrazia borghese-liberale e quanto sia importante rifarsi agli stessi filosofi cui mi sono in precedenza richiamato perché è lì, nel pensiero della Scuola di Francoforte, che troviamo l’impostazione della lettura di tutti i fenomeni da cui siamo investiti oggi: non hanno vinto loro, è ben noto, ma altri pensatori a loro antagonisti primo fra tutti il mistificatore Heidegger da loro molto avversato e molto amato, invece, dai nostri “filosofi” postmoderni.

https://www.newstatesman.com/international

Anche di lì, sul piano delle idee, non certo nasce ma si conferma e “modernizza” il razzismo. Ricorro, ancora una volta, al “pensiero critico” e in ispecie a Adorno. C’è un libro del filosofo tedesco, Terminologia filosofica, che è certamente particolare. Si tratta, infatti, della trascrizione di un corso universitario dallo stesso titolo, tenuto nel 1962 e nel 1963, che, come precisa il curatore dell’edizione tedesca, non è stato rivisto dall’autore-professore. Giustamente e per questo motivo, in sede strettamente filosofica, chi scrive su Adorno cita la Terminologia filosofica con molta prudenza; a me, antico didatta, il volume è caro perché mette in luce come Adorno, scrittore ostico, difficile e spesso sacrosantemente sprezzante, come didatta fosse invece estremamente affabile e cercasse in ogni modo di mettersi in comunicazione con i propri studenti; approfondirò il discorso altra volta se altra volta ci sarà.
Ed ecco che proprio in risposta a una lettera che gli ha scritto uno studente del corso, il professor Adorno si impegna a chiarire ciò che egli vede nella filosofia del ‘nemico’ Heidegger a proposito del razzismo; e dice:

“Poiché nella dottrina heideggeriana, che è qui in questione, il concetto del fondamento viene usato con la massima energia come controconcetto rispetto a un pensiero che si pretende senza fondamento, abbiamo allora il diritto di chieder[ci] che cosa Heidegger propriamente intende con questo fondamento. […] Ritengo che dietro questo ideale del primo principio inteso come fondamento si celi l’ideale dell’autoctonia; o […] qui è entrata acriticamente nella filosofia un’idea che proviene dalla società: l’idea che colui che è stato per primo in qualche posto, che ha posseduto per primo, sia il migliore, il più nobile rispetto al new-comer o all’immigrato” (ed. 1975, pp. 155–156); e sarebbe bello poter ancora soffermarsi sull’osservazione dove dice che “le metafore di Heidegger si rifanno continuamente al mondo agricolo” e considerare gli approfondimenti di Adorno sul tema; ma questi appunti sono già troppo lunghi.

Ho riportato questo pensiero adorniano perché poi le cose vanno veramente così. Suona un po’ strano dire che il rozzo Salvini e la Le Pen derivino la loro visione del mondo dal raffinatissimo Heidegger, ma, si sa, tra la cultura alta e quella bassa, e cioè tra la filosofia e la sua vulgata, passa un filo sottile fin che si vuole ma resistente anche perché ho citato due esempi noti a tutti ma molti, anzi moltissimi, quale che sia l’ideologia che a parole professano, la pensano come lui, sono heideggeriani senza saperlo come il borghese gentiluomo di Molière parlava in prosa senza saperlo. Ora l’ondata di razzismo che si è scatenata dopo la strage di Parigi (ma perché non dopo quella compiuta da Boko Haram? ovviamente, secondo il senso comune, perché si tratta di “esseri inferiori” che si sbranano fra di loro) ha le sue radici nel sangue e nel suolo, ben tristemente noto slogan-programma nazista.

Mi rimane ancora un’osservazione da fare: subito dopo la strage è venuta fuori una posizione che si può riassumere nella frase “Sì, va bene, ma un po’ se la sono andati a cercare”. Chiarisco subito che non intendo affatto dire che chi critica la rivista “Charlie Hebdo” per le sue posizioni ideologiche abbia torto perché io non ne so niente e, in questo caso, non mi interessa neanche saperne di più; aggrappandomi a quell’umanità residua, cui ho già accennato, soffro per le vittime senza dimenticare gli assassini che hanno perso la vita anche loro, anche se forse era ineluttabile che andasse così e se, ancora forse, essi stessi avevano pianificato la propria fine: il fatto è che sono morti e i morti non sono affatto tutti eguali, ci mancherebbe metter sullo stesso piano vittime innocenti con gli assassini che li hanno uccisi; ma, e qui ci vuole un “però”, sono morti: e ciò provoca un disagio morale per chi odia la violenza indiscriminata anche se portata contro se stessi.

Ecco, ma questo pensare che in qualche modo le vittime siano responsabili del loro essere diventate vittime è proprio qualcosa di, moralmente, insopportabile. Durante il fascismo era cosa comune, e cioè che riguardava il pensiero comune, attribuire alla vittima la colpa dell’essere divenuta vittima: si diceva “Non aveva che da lasciar perdere, fare il suo lavoro e godersi la famiglia”.

È cosa nota e anche riportata in qualche film non banale sul fascismo o sulla Resistenza. In fondo quei vignettisti (ma ci sono anche gli avventori del supermercato frequentato da ebrei, quattro uccisi e gli altri traumatizzati probabilmente per tutta la vita) avrebbero potuto essere più cauti. Ora ci si mette di mezzo anche il nuovo Papa promettendo un pugno a chi gli parla male della mamma. Oh, la Mamma! E giù i giornalisti a spiegarci che la mamma è metafora della Fede, di qualsiasi fede perché dio è unico comunque lo si nomini.

Siamo ancora e sempre nel common sense. Questo è ciò che volevano sentirsi dire tutti coloro che pensavano che le vittime se la fossero cercata per uno scopo ben preciso e ben potentemente supportato dal solito pensiero comune (che non è il “buon senso” ma il “senso comune” che è altra cosa anche se non propriamente opposta alla prima; ma, anche qui, sarebbe troppo lungo affrontare l’argomento) e cioè quello di rimuovere l’idea della morte. L’uomo e la donna contemporanei non vogliono sentir parlare della morte: oggi non si muore, ma si scompare, si manca (“è mancato”), si vien meno, non si è più tra noi, eccetera: la rimozione è evidente a livello linguistico e la lingua, che non a caso muta continuamente, riflette sempre un modo di sentire e di essere. Quando poi la morte si impone per ragioni storiche, come nel caso di cui stiamo parlando, meglio dire che chi è morto è morto perché voleva morire; e così si allontana lo spettro della nera signora con la falce da noi. E il pugno del Papa si svela come metafora di proiettili di piombo.

Scrive Guy Debord nelle prime pagine del suo Panegirico: “Le citazioni sono utili nei periodi di ignoranza o di credenze oscurantiste. […] Giungeranno a proposito nel discorso: nessun computer me ne avrebbe potuto fornire la pertinente varietà”.

Ancora un ultimo appunto sullo sfruttamento televisivo della morte come spettacolo; perché, se nessuno vuol parlare della morte perché ciò lo fa pensare alla propria ineluttabile morte, molti, moltissimi però bramano dal vedere la morte degli altri per poter dire “è toccato a te e non a me”, soprattutto se l’evento è opportunamente spettacolarizzato. Citare Debord è ormai piuttosto banale perché quasi tutti i giornalisti e divulgatori si sono appropriati del titolo del suo libro più famoso, La società dello spettacolo, magari senza averlo letto e non condividendone affatto la filosofia di fondo.

Ma in questo caso la citazione è d’obbligo perché il pomeriggio dopo la strage “Tutto ciò che era [un tempo] direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”.

Confesso di non aver resistito più di mezz’ora il giorno della “diretta” della cattura e dell’eliminazione dei due fratelli assassini: sembrava di essere di fronte a uno dei soliti telefilm polizieschi che le televisioni trasmettono in gran copia e ho avuto proprio la sensazione di ciò che scrive Debord e cioè che la mia realtà, che in quel momento era intrisa di pietas per le vittime del giorno precedente ma anche di angoscia per ciò che stava per succedere agli assassini, stesse allontanandosi, non lo saprei dire meglio, in una rappresentazione, una rappresentazione che intendeva sortire l’effetto del cannocchiale rovesciato con cui i carnefici assistono alla definitiva eliminazione delle vittime nel Salò o le centoventi giornate di Sodoma di Pasolini là dove i malvagi provano certamente piacere ma, contemporaneamente, allontanano da sé l’immagine della morte per prendere le distanze da quella che, sebbene coscientemente inflitta da loro, è pur sempre una morte: de te et de me fabula narratur.

Non essere «Charlie Hebdo»

Il sette, otto e nove gennaio, presso la redazione del settimanale «Charlie Hebdo» e in altre zone di Parigi, diciassette persone sono state uccise da tre giovani legati — pare — ad Al Qaeda, a loro volta uccisi dalla polizia. Ho deciso di condividere qui alcune mie riflessioni legate alla comunicazione mediatica dell’evento. di Enrico A. Pili

Molte cose mi hanno subito colpito dei modi in cui la terribile vicenda di Parigi è stata convertita in notizia. La prima è stata forse il lessico da piccolo undici settembre (non quello cileno del 1973 ma quello newyorkese) utilizzato da televisioni, giornali e social networks per dare forma all’accaduto. Non a caso «Le Monde» ha titolato: Le 11-septembre français. Così mi ha colpito anche la velocità con cui la vicenda è stata trasformata in un racconto semplice e lineare, circoscritto a un luogo (Parigi) e a un tempo (tre giorni di gennaio), facile da “afferrare” per lo spettatore e quindi facilmente “vendibile”, come le magliette che questo gennaio hanno ripetuto roboticamente «Je suis Charlie». Questo significa che la vicenda è diventata da subito un facile oggetto di strumentalizzazione.
[E la strumentalizzazione della storia non è mai neutrale. A questo proposito consiglio la lettura di questo interessante articolo di Wu Ming 1]

Io credo sia necessario, mentre è ancora forte il dolore per tutti i morti di quei giorni, non perdere d’occhio il contesto storico in cui i fatti si sviluppano e il modo in cui divengono narrazioni televisive e giornalistiche. Istintiva è certamente l’empatia che ci spinge per esempio a soffrire assieme ai parenti delle vittime. Ma all’istinto deve seguire il ragionamento critico, perché il rischio è sempre quello di farsi trascinare dalla parola del più forte, cioè da colui che ha a disposizione il megafono più grande.

E temo che il megafono più grande appartenga oggi a chi vuole narrare l’attentato di Parigi come la dichiarazione di guerra di un supposto blocco orientale, musulmano e barbaro (o, quando va bene, di una internazionale islamista del terrore), a un supposto blocco occidentale democratico, laico e tollerante.

Una prima obiezione che va fatta riguarda la problematicità di parlare di Islam come di un qualcosa di anche vagamente compatto o uniforme, visto che per sua natura il mondo musulmano è una galassia estremamente vasta e variegata. È quindi insensata la richiesta di chi pretende dalle comunità musulmane d’Europa una presa di distanza dal gesto dei fratelli Kouachi, visto che l’abisso che separa le prime dal secondo dovrebbe essere dato per scontato. Solo perché Breivik, il norvegese che ammazzò settantasette persone il ventidue luglio del 2011, si definiva «salvatore del Cristianesimo», nessuno ha ritenuto un dovere delle autorità cristiane, nemmeno di quelle norvegesi, una presa di distanza dal suo operato. E meno male.

Senza contare che i musulmani d’Europa sono i primi a essere stati danneggiati dall’attacco del sette gennaio. «Repubblica.it» riporta i dati dell’Osservatorio contro l’islamofobia del Consiglio francese del culto musulmano (Cfcm): nei cinque giorni successivi all’attentato, solo in Francia si sono registrate una cinquantina di aggressioni e attentati contro musulmani e moschee. Chi guadagna da questo clima, così come dalla riproposizione sui giornali delle vignette di «Charlie Hebdo», sono invece, ci ricorda la giornalista Barbara Serra, «gli imam radicali, che possono andare dai giovani e dire: vedete, non vi rispettano. In Occidente non ci sarà mai posto per voi».

Per quanto poi riguarda la teoria dei due blocchi, certamente non possiamo sintetizzare in poche righe un argomento estremamente complesso come è quello del neocolonialismo e dei rapporti tra Europa, Stati Uniti, gruppi criminali internazionali e paesi musulmani. Anche solo considerando la storia coloniale e neocoloniale della Francia. Certo è che i rapporti tra una nazione e l’altra e tra un gruppo di potere e un altro sono oggetto di un continuo processo di ridefinizione. Cosa ne sarebbe oggi di Al-Qaeda se gli Stati Uniti non avessero finanziato i talebani in funzione antisovietica per tutti gli anni ottanta?

E come mai chi condanna “l’estremismo islamico” è in prima linea nel permettere a certi governi salafiti della penisola arabica, apertamente sessisti, classisti e totalitari, di prosperare e diffondere la propria ideologia?

La destabilizzazione di paesi africani e asiatici è stata praticata per decenni e in maniera sistematica dalla NATO e da paesi a lei fedeli. Si pensi a cosa sta succedendo oggi in Siria. E molto altro ci sarebbe da dire, ma non voglio addentrarmi in un ginepraio su cui esiste già un’ampia letteratura.

[Voglio però affidare al giudizio del lettore le suggestioni di Jean Lup Amselle, apparse su «Il Manifesto» del diciassette gennaio nell’articolo Due pesi e due misure, che riallacciano gli omicidi parigini al particolare della politica estera francese: «[L]’attitudine favo­re­vole nei con­fronti di Israele — espressa negli ultimi anni dai governi fran­cesi, tanto di destra quanto di sinistra, unita alla poli­tica anti-musulmana di Fra­nçois Hol­lande in Mali, Repub­blica Cen­tra­fri­cana e, in nome della lotta con­tro il «ter­ro­ri­smo» in Iraq — sono legati agli atti anti­se­miti che hanno deva­stato la Fran­cia negli ultimi anni. Lo testi­mo­niano l’attentato rea­liz­zato da Moha­med Merah con­tro una scuola ebraica a Tolosa, nel 2012, quello a opera del fran­cese Mehdi Nem­mou­che con­tro il Museo ebraico di Bru­xel­les nel mag­gio del 2014 e, ultimo, l’attacco e il mas­sa­cro com­piuti dai fra­telli Koua­chi, in nome della lotta con­tro «giu­dei» e «cro­ciati», con­tro Char­lie Hebdo oltre a quello del loro com­plice Amedy Cou­li­baly con­tro il nego­zio di ali­men­tari kosher di Porte de Vin­cen­nes, a Parigi. Tutti que­sti cri­mini e atten­tati, per quanto odiosi e ese­cra­bili, sono stati oggetto di stru­men­ta­liz­za­zione e recu­pero da parte del governo israe­liano che se ne è ser­vito per acce­le­rare la migra­zione (aliyah) degli ebrei fran­cesi verso Israele. Lo stesso vale per quello fran­cese che non ha smesso di dare soste­gno alle isti­tu­zioni ebrai­che in Fran­cia e al governo israe­liano, durante l’ultima offen­siva su Gaza, vie­tando mani­fe­sta­zioni pro-palestinesi».]

Per tornare ai fatti francesi e al loro racconto mediatico, un bell’articolo di Jamila Mascat, ricollegandosi al saggio di Derrida intitolato Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia, ci ricorda che è meglio diffidare dalle «retoriche dell’apocalisse per gli stratagemmi che adottano; per le “astuzie criptiche” che mobilitano, per la fine imminente che annunciano e a cui poi non tengono fede, per quell’annichilamento distruttivo che promettono e non mantengono al solo scopo di garantirsi una sopravvivenza più duratura. Al pari di un’accorta strategia di comunicazione, infatti, i toni apocalittici sottintendono più di quel che narrano esplicitamente, e agitano lo spauracchio della fine proprio allo scopo di poter preservare le cose come stanno. Nulla insomma finisce davvero con l’Apocalisse e molto si perpetua immutato, a discapito delle apparenze».

Per intenderci, quando vediamo Matteo Salvini in televisione dire che in giro per l’Italia ci sono orde di musulmani pronti a sgozzarci a partire da domani, bisogna chiedersi chi trae beneficio da quel genere di annunci.
Così bisogna chiedersi chi trae beneficio dall’erezione di «Charlie Hebdo» a baluardo della libertà di stampa e quindi interrogarsi sui rischi di questa strumentalizzazione.

Cosa è oggi, o cosa era fino a ieri, «Charlie Hebdo»? Abbiamo spesso letto sui giornali e sentito alla televisione la definizione rivista satirica, ma è così? La risposta è un secco no, non era (non più?) una rivista satirica. La satira colpisce la morale comune mettendo a nudo la sua coscienza sporca e ridicolizzando l’ipocrisia dei centri di potere. Le battute di «Charlie Hebdo» invece si costituivano spesso come insulto gratuito, spesso bieco e discriminatorio, verso categorie socialmente deboli e minoritarie. Non vi è svelamento nella vignetta che ironizza sulla situazione delle donne rapite e tenute in schiavitù dalle truppe di Boko Haram, ma solo un pessimo gusto (e il razzismo ignorante di chi si ferma alla superficie delle cose, come suggerisce Max Fisher in un bell’articolo uscito su «Vox»).

La vignetta recita: Le schiave sessuali di Boko Haram in collera: «Non toccate i nostri benefici fiscali». I benefici fiscali di cui si parla sono quelli riservati alle famiglie numerose, un’allusione al fatto che le donne ritratte sono state stuprate e costrette ad avere figli. Come precisa Fisher, la vignetta è indirizzata alla destra francese, talmente «mostruosa» da sostenere che persino le rifugiate nigeriane sono arrivate in Francia con il solo obiettivo di ottenere delle facilitazioni fiscali. Sarebbe quindi un buon esempio del doppio livello di lettura richiesto dalle vignette della rivista per essere decifrate. Allo stesso tempo però anche questa rappresentazione delle donne nigeriane risulta inutilmente mostruosa, oltre che vile nello strumentalizzare una situazione di sofferenza estrema.
Ma il pallino della rivista era già da tempo divenuto l’Islam. La parabola del giornale è stata ben tracciata da Olivier Cyran, ex collaboratore della rivista, in una lettera scritta ai suoi vecchi colleghi sul finire del 2013.

È il 2001 quando il crollo delle Twin Towers porta nella redazione, a dire del giornalista, una «nevrosi islamofoba», a partire dall’ossessione dell’allora direttore Philippe Val per il «mondo arabo-musulmano», considerato come «un oceano di barbarie che minaccia di sommergere da un momento all’altro quell’isola di alta cultura e fine democrazia che è per lui lo Stato di Israele». Quello stesso anno, Cyran abbandona la redazione. «Charlie Hebdo» ha ormai preso posizione: «chi non si riconosce in una visione del mondo che oppone i civili (europei) agli oscurantisti (musulmani) si trova in men che non si dica tra le file degli “utili idioti” o degli “islamo-gauchisti”».

Eppure, dicono alcuni, un disegno non ha mai fatto male a nessuno. Ma i dodici anni di pseudosatira anti-musulmana post-undici settembre hanno avuto, secondo Cyran, conseguenze concrete. «Charlie Hebdo» «ha contribuito a riprendere, nell’opinione “di sinistra”, l’idea che l’Islam è uno dei “problemi” principali della società francese» e che «disprezzare i musulmani non è più un privilegio dell’estrema destra», ma diritto di ogni cittadino, praticato in nome della «laicità, della repubblica e del “vivere insieme”».
Forse, anche tra i nostri lettori, ci sarà qualcuno che controbatterà che «Charlie Hebdo» ha ospitato anche moltissime vignette contro la Chiesa. Rispondiamo loro con le parole di Cyran: «Voi vi rifate alla tradizione anticlericale, ma fingete d’ignorare in cosa questa si differenzi radicalmente dall’islamofobia: la prima origina da una lotta dura, lunga e feroce contro un clero cattolico effettivamente dotato di un potere concreto, che possedeva — e che possiede ancora — i suoi giornali, i suoi deputati, le sue lobbies, i suoi negozi e il suo immenso patrimonio immobiliare; la seconda attacca i membri di una confessione minoritaria privata di qualunque spazio di influenza nella sfera pubblica. [Sempre la seconda] consiste nel deviare l’attenzione dagli interessi che governano questo paese per aizzare la folla contro dei cittadini che già non se la passano molto bene […]. È troppo chiedere a una equipe che, per usare le vostre parole, “si divide tra sinistra, estrema sinistra, anarchia e ecologia”, di prendere un pochino in considerazione la storia del paese e la sua realtà sociale?».

Insomma, fare di «Charlie Hebdo» una bandiera della libertà di stampa e di espressione non è proprio il massimo, e quando avviene in un paese come la Francia non può che apparire come una scelta tanto ridicola quanto pericolosa. Perché infatti difendere il diritto di «Charlie Hebdo» a promuovere in tutte le edicole la sua retorica dell’apocalisse islamica mentre si condanna Jean-Marie Le Pen a 10.000 euro di multa — incitamento all’odio razziale — per aver fatto intendere che «la comunità musulmana è un pericolo per i francesi»? E la multa al famoso creatore di profumi Jean-Paul Guerlain? E quella al rapper Monsieur R per aver scritto una canzone che dice: «Piscio su Napoleone e sul generale de Gaulle»? Chi ha difeso la loro “libertà” di espressione?

Si capiscono così le ragioni del comico francese Dieudonné, diventato celebre anche fuori dai confini nazionali a causa delle sue battute antisemite, quando scrive al ministro dell’interno di sentirsi come «Charlie Hebdo», ma che nonostante ciò non si cerca di capirlo, anzi lo si condanna. Come eccepire? Il ragionamento fila: se la Francia fa della pubblicazione delle vignette islamofobe di «Charlie Hebdo» una battaglia di civiltà, anzi addirittura un dogma indiscutibile («tutti devono poter dire e pubblicare quello che vogliono»), perché Dieudonné viene condannato?

Sarà chiaro a questo punto che, se il problema della libertà di espressione è già di per sé molto complesso, diventa addirittura insondabile quando la parola libertà viene svuotata di significato ed esibita all’occhiello del pensée unique, che come sappiamo bene non accetta contraddittorio.
A quel punto si può spacciare per libertà anche la libertà di opprimere o di spingere alla violenza verso un certo gruppo sociale, etnico o religioso. Perversione dell’Illuminismo e realizzazione delle nere profezie sadiane.
Parlare di libertà di espressione e di stampa scardinandola da ogni contesto non è semplicemente problematico, ma anche contraddittorio. Come scrive Giacomo Sartori, in Francia ci si è riempiti la bocca di liberté, mentre l’egalité e la fraternité venivano perse per strada.

Difatti i tre sono pensabili singolarmente, o addirittura antagonisticamente, soltanto in una società totalmente alienata, nella quale l’individuo non esiste più come essere umano. È questa la Francia di oggi? È a questo che aspira l’Europa unita?

Queste in sostanza le pericolosissime ambiguità che si celano malamente dietro l’etichetta/hashtag #JeSuisCharlie, che ripropone la logica del «o noi, o loro» prestandosi alla strumentalizzazione di gruppi di potere e capi di Stato che sanno benissimo quello che fanno.

Ma in fondo in questi giorni molto si è scritto e molto si è detto (anche se temo poco si sia discusso in televisione, ancora la principale fonte di informazioni per la maggior parte degli italiani) sugli argomenti da me trattati, così come su quello stucchevole quadretto parigino che ha voluto affiancare ai nostri beneamati leaders europei una folta schiera di paladini delle libertà individuali, dal re Abdullah di Giordania all’israeliano Netanyhau, al presidente Keita del Mali. E anch’io ho scritto già troppo e mi avvio, pertanto, alla conclusione. In queste ultime righe non mi resta che augurarmi, e augurarvi, che cadano nel nulla i proclami apocalittici di chi, puntando il dito lontano da sé, vuole distogliere la nostra attenzione dai problemi fondamentali (soprattutto sociali ed economici) di cui l’Europa deve discutere subito. Perché dietro la presunta difesa di questo presunto occidente una banda di spietati cialtroni persegue il nostro annichilimento.

Del conformismo imperante

Dire “conformismo imperante” non vuole assolutamente affermare che il conformismo prima non ci fosse. Semplicemente qui si vuole mettere in luce il fatto che il conformismo non è mai stato totalitario come nell’epoca in cui stiamo vivendo. A questo risultato concorrono più elementi contemporaneamente che cercheremo di illustrare senza dimenticare che per interpretare una realtà complessa è necessario esercitare un pensiero altrettanto complesso; e il fatto che l’attuale società rifiuti un pensiero complesso si inscrive già nell’alveo del conformismo imperante.

Inizio con un’osservazione che a me pare ovvia ma che forse ovvia non è: qualche anno fa il conformismo, ormai diffusissimo, non era ‘imperante’: si aprivano spiragli, strettissimi invero, alla speranza in un possibile cambiamento. Oggi tutti gli spiragli si sono chiusi a uno a uno e dolorosamente e, come succede all’amico di Hamm in Finale di partita, non si vedono che ceneri. È pur vero che, poi, Hamm e Clov “tirano avanti”; ma senza speranza alcuna. Anche noi ‘tiriamo avanti’ ma con una sola prospettiva e cioè quella di pensare, non “vedere”, che sotto quelle ceneri covi ancora qualche favilla di brace. Gigi Livio

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Necessità dell’antagonismo

La critica al postmoderno, oggi, non può non partire da una constatazione tanto oggettiva quanto priva di inutili consolazioni: il postmoderno ha vinto. La mutazione antropologica, paventata da Pasolini più di quaranta anni fa, è ormai un fatto compiuto e quasi totalitario. In quel “quasi” è la nostra speranza.
La critica al postmoderno, inoltre, non può essere condotta a partire da una difesa a oltranza del moderno riproponendo valori di quell’epoca, e della ideologia che ne è scaturita, senza tener conto dei disastri cui questi valori hanno portato. Si tratta di fondare il discorso sulla constatazione che molti dei non-valori e dei regressi tipici del postmoderno trovano la loro origine nelle contraddizioni dell’epoca moderna.
Strumento ineliminabile messo a punto dalla modernità su tracce antiche è, invece, la dialettica che permette di scoprire le contraddizioni oggi più che mai occultate dall’ideologia dominante.
Queste contraddizioni non hanno voce anche per colpa di una cultura asservita. Portarle alla luce è il compito di ogni intellettuale che intenda ancora onorare il proprio ruolo: quello di tentare di essere la coscienza critica del presente.

Nell’epoca del trionfo del postmoderno, che frequenta una morale debole e che valuta in modo positivo il tradimento, scendere a patti sui valori fondamentali del vivere civile vuol dire tradire.
Il lavoro dall’interno delle istituzioni culturali, così come sono oggi, un tempo giustamente vissuto come sano e produttivo, non è più praticabile perché immediatamente si rivolta in compromesso col nemico.
Perché un’istituzione culturale esista, e sia dunque riformabile, è infatti necessario che la volontà delle persone che ne fanno parte la voglia e pretenda come tale e cioè come una struttura tesa a migliorare la cultura tramite un’autocritica e una critica costanti.
Nel momento in cui l’individualismo negativo dell’epoca postmoderna ha preso il sopravvento eliminando ogni forma di socialità della cultura a favore dell’interesse personale ha negato l’istituzione proprio in quanto tale.
La proposizione brechtiana “abbraccia il boia ma cambia il mondo” non è oggi più praticabile: chi abbraccia il boia viene a sua volta da lui stretto in un abbraccio mortale.

La riduzione a merce dell’arte e della cultura, contro cui gli artisti e gli intellettuali in genere hanno combattuto battaglie epocali nell’epoca moderna, non senza compromissioni da parte di molti, viene ora accettata come un dato ineludibile e addirittura esaltata nell’epoca postmoderna.
La dialettica, troppo spesso prostituita per giustificare trasformismi e opportunismi, deve ritrovare la forza e la capacità di ri-proporsi come strumento di analisi spietata (a incominciare da se stessi) per prepararsi a portare avanti uno scontro frontale, che non può prevedere discese a patti.

Un altro celebre detto ci serve a capire: “triste è il tempo che ha bisogno di eroi”. Viviamo tempi tristissimi che hanno, appunto, bisogno di eroi. L’interpretazione riduttiva e conformistica del detto di Brecht che crede di scorgervi l’invito a non fare gli eroi è cosa da pulcinella della morale.
E’ certamente vero, ciò che recentemente ha scritto Žižek e cioè che, “nell’era attuale del permissivismo che funge da ideologia dominante” riappropriarsi “della disciplina e dello spirito di sacrificio” è necessario poiché in questi valori “non c’è niente di intrinsecamente ‘fascista’” ed è altrettanto vero che anche il richiamo al coraggio di abbandonare posizioni opportunistiche e politicistiche -dove la politica è ridotta a chiacchiera- non ha in sé nulla di intrinsecamente ‘reazionario’.
Proporre un ideale eroico, oggi, vuol dire semplicemente prefiggersi di stare fuori, in ogni modo e sempre, dalla morale del mercato che gli omuncoli postmoderni declinano come “morale debole”. E anche dal linguaggio corrente democraticistico e filisteo, che è quello del mercato, e non aver paura della reboanza e della retorica utili al contrario a caricare dell’enfasi necessaria ciò che non può che essere detto in modo enfatico e reboante.
I valori antichi, che la borghesia ha sostituito con il freddo pagamento in contanti, mascherato ideologicamente da falsi valori, come ancora oggi ci insegna Marx, si basano sul rispetto di se stessi che comporta, di necessità, il rispetto degli altri.
L’inarrivabile Petrolini ci invita a partire dall’orrore di se stessi, “gettati” in un mondo che non abbiamo scelto e in cui dobbiamo pur vivere senza estraniarci dallo stesso ché sarebbe ridicola fuga individualistica nel proprio io. C’è un solo modo per tornare al rispetto di sé, oggi, ed è quello di provare orrore per se stessi.
E’ partendo proprio da questo orrore che hanno lavorato gli artisti di contraddizione, da Sade e Leopardi fino a noi. E ora che l’orrore ci morde il cuore e ci attossica il cervello, anche noi cercheremo, come critici e storici, di essere all’altezza di quei pochi artisti forti, ridotti ormai a pochissimi, che hanno il coraggio di porsi fuori del mercato senza cercare compromessi tanto osceni quanto ridicoli.

Se ci sarà un riscatto, e quando ci sarà, a loro, e a loro soli, guarderanno coloro che intendono preparare un “ordine nuovo”, nell’accezione gramsciana ovviamente, nel campo della cultura per sé e per quel numero spaventoso di persone che soffrono sotto il giogo del mercato capitalistico e che non hanno voce. Dar voce a questo popolo di morti-viventi è lo scopo di qualsiasi battaglia culturale che pretenda di avere ancora un senso.

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Elogio della ribalderia

Dire che mai come oggi il conformismo dilaga è un’affermazione che può sembrare eccessiva se si tiene conto che il conformarsi ai costumi della maggioranza costituisce da sempre uno strumento di difesa nei confronti delle possibili aggressioni da parte degli imprevisti della vita dovuti a fattori storici e sociali e economici o all’orrida casualità che regge i destini naturali dell’uomo. D’altro canto, però, il conformismo rappresenta un forte strumento di dominio per il potere costituito, che gioca proprio sulla paura storica e ontologica insieme, per rafforzare la sua posizione di supremazia e mantenerla.
E’ ovvio che prima con la nascita e poi con il lento ma inesorabile affermarsi dei mezzi di comunicazione di massa (quelli che non a caso con termine anglo-latino vengono definiti i mass media) il potere ha più possibilità di esercitare pressioni sulle coscienze in modo di poterle meglio controllare. I giornali prima, la fotografia e il cinema più tardi e, infine, la radio e la televisione possono sviluppare delle potenzialità, sconosciute all’epoca pre-borghese, nello strutturare un modo sia di pensare che di vivere coerente, e quindi conveniente, all’oligarchia economica che governava un tempo le nazioni e oggi il mondo. Leopardi, con quello sguardo che scava nella contemporaneità così a fondo da scoprirne i germi degli sviluppi futuri – e che è appannaggio solo dei grandissimi -, già nel 1835 bollava il ‘civil gregge’, straordinario, sarcastico e grottesco ossimoro, pronto a credere, e cedere, ai miti imposti ‘da pamphlets, da riviste e da gazzette’: l’evirazione del pensiero e della poesia leopardiana, compiuti da Croce l’anno stesso della marcia su Roma, hanno il sapore acre e allappante del trionfo del conformismo (il ‘civil gregge’, appunto) nei confronti di un poeta che ebbe proprio questo come bersaglio principale della sua lotta etico-estetica. 
Ma la battaglia, che ai tempi di Leopardi era certo disperante anche se non disperata, appare oggi una lotta contro i mulini a vento tanto il conformismo, auspici appunto i mass media, è radicato e dilagato nelle coscienze sia individuali sia di massa. Ma appare e non è. Il cinema (e qui intendiamo il cinema come è stato strutturato dalla società capitalistica e cioè quale veicolo dell’ideologia dal momento che i film critici sono assai pochi e influiscono in modo relativo sulla cultura di un’epoca), la radio, la televisione non soddisfano interessi primari bensì servono a distrarre dagli interessi primari: fanno credere che la libertà esista indipendentemente dai fattori economici e cercano di far dimenticare il fatto che chi non mangia non è libero, tutto teso com’è a soddisfare appunto i bisogni primari dell’esistenza e da questa tensione portato a evadere nell’unico modo possibile che è quello di frequentare impossibili sogni di riscatto. Nell’ottocento questa funzione di velamento della realtà attraverso l’ideologia, venne svolto dal romanzo e il successo, per non fare che un esempio, del Conte di Montecristo chiarisce bene ciò di cui stiamo parlando; nel novecento spettò al cinema, quel cinema di cui abbiamo detto, di svolgere questa funzione prima dell’avvento della televisione: e, infatti, Hollywood venne correttamente definita ‘la fabbrica dei sogni’. 
E dunque, e allora, l’affermazione iniziale a proposito del fatto che mai come oggi il conformismo dilaga e permea di sè le coscienze delle persone è affermazione che ha una sua verità ma che cela nel suo seno una contraddizione: il conformismo, infatti, si sta affermando e si affermerà sempre più fino al punto di rottura che è poi quello costituito dal fatto che gli uomini prima o poi – sotto la spinta di fatti materiali ineluttabili che incideranno fortemente sul piano spirituale – non potranno non rendersi conto del proprio stato di alienazione, di essere altro da sè, di aver consegnato le proprie coscienze al potere che le governa e le manipola a proprio vantaggio in modo brutale. 
Ma il potere queste cose le sa; e le teme. E sapendole e temendole cerca gli antidoti. Il conformismo, l’abbiamo già accennato in apertura di discorso, dà sicurezza, quella sicurezza che viene dalla coscienza di far parte del branco, di essere capiti perchè si parla un linguaggio comune e quindi, nelle alterne vicende della vita, di trovare aiuto dicendosi (non necessariamente essendo) disposti a darne agli altri purchè la pensino e si comportino come noi. Ma le contraddizioni sono lì, sotto gli occhi di tutti: il problema è vederle; e per vederle basta avere uno sguardo limpido che si liberi dai filtri che il potere, attraverso il conformismo, utilizza per distorcere la visione serena delle cose del mondo e dello spirito. Per comprendere questo movimento dialettico risulta fondamentale chiarire come si concepisce il presente. Detto in una formula: vivere il presente è l’unico modo di vivere per il singolo individuo dal momento che il passato è passato (‘Adesso non c’è più’ s’intitola un mirabile monologo di Rino Sudano) e il futuro non esiste (‘Di doman non c’è certezza’ cantava, più di cinque secoli fa, Lorenzo de’ Medici). Ma se questa declinazione del presente costituisce un’ottima regola di vita per l’individuo singolo tesa a contrastare posizioni spiritualistiche che rimandano a un futuro addirittura oltreterreno (le ‘superbe fole’: è ancora una volta, et pour cause Leopardi) la realizzazione di quella felicità che è un istinto naturale e, soprattutto, sociale dell’uomo (nessuna persona, che lo sappia o no, può essere felice se non lo sono tutti gli altri), contemporaneamente però bisogna notare che non si può vivere una vita autentica senza un progetto per il futuro. E questo tanto più vale se si passa dall’individuo singolo all’individuo che si rapporta con gli altri: infatti quando più individui si uniscono in gruppo sociale è ineluttabile e indispensabile che progettino il futuro; è progettando il futuro che sanno e possono agire nel presente: un tenacefilo rosso collega il marxiano ed engelsiano ‘Proletari di tutto il mondo unitevi!’ a ‘Un altro mondo è possibile’. Non si tratta di utopia, anche se quest’ultima può risultare un motore staordinario di trasformazione dell’esistente, ma di una possibilità che chi sa leggere la storia e la società già vede in nuce sotterraneamente attiva nel presente. Ed è proprio questa prospettiva di un’umana palingenesi che il potere borghese, per la sua conservazione, combatte con tutte le forze e, costringendo la persona a pensare come unica realtà vera il proprio presente individuale, spinge l’uomo a credere che la sua felicità dipenda solo da se stesso e che si realizzi non in unione ma contro gli altri uomini; e nel momento in cui quest’uomo, già così dimidiato, identifica la sua idea di felicità nel possesso di beni esclusivamente materiali rinuncia del tutto alla propria umanità. 
Ma l’uomo sulla spinta di eventi economici e sociali, ineluttabilmente inscritti all’interno del meccanismo borghese-capitalistico, sottoposto al capriccio degli eventi naturali governati da quella casualità che abbiamo definito ‘orrida’ (è il ‘cieco dispensator de’ casi’ di Leopardi) e stimolato dalle minoranze irriducibili tende, nei momenti di crisi, a aprirsi a una possibile presa di coscienza della propria alienazione. E’ a questo punto che scatta un antidoto assai utile a neutralizzare le spinte verso una coscienza meno dissociata; e questo antidoto è costituito dall’anticonformismo. L’anticonformismo è la via di sfogo, prevista dal potere, per canalizzare le pulsioni di rifiuto del conformismo. La lingua contemporanea (la lingua è sempre specchio dei rapporti sociali) ha ripescato – secondo il procedimento tipico di un’epoca e una cultura postmoderne che tutto riciclano (ciò che loro è utile, ovviamente) e non inventano più nulla – una locuzione significativa a questo proposito: ‘Essere fuori del coro’ già testimoniata a metà settecento. C’è persino una pubblicità di una bibita d’altri tempi, innovata nel modo più banale e cioè attraverso l’abbreviazione del proprio marchio, che recita: ‘Bevi fuori dal coro’. E’ fin troppo ovvio, e forse anche scontato, osservare che chi berrà quella bibita sarà perfettamente ‘dentro il coro’ dal momento che si sarà conformato alla pubblicità martellante di quel prodotto; ma dovrà sentirsi, pena l’insuccesso della costosissima campagna reclamistica, toccato dall’ala dell’anticonformismo. Un anticonformismo ineluttabilmente guidato e amministrato dal potere economico che segna, con precisione, i confini entro cui si può realizzare lo scarto dalla norma in modo che sia gratificante per l’individuo ma non pericoloso per il potere, anzi che tenda a rafforzare la sua ideologia, il suo background culturale. 
D’altro canto nell’epoca moderna è sempre stato così essendo l’anticonformismo l’altra faccia del conformismo dal momento che il primo si regola sul secondo traendo la sua forza dal perpetrare apparenti scarti dalla norma che servono solamente a dare all’individuo il brivido della trasgressione lasciando però le cose ben salde come stanno. Tutt’altra storia è quella scritta da coloro che trasgredirono veramente alla cultura e alla struttura sociale del proprio tempo: e qui stanno insieme, in una callida iunctura, Leopardi e Brecht, che si vantò con sofferto strazio di aver tradito la propria classe, Wilde e Gramsci, che patirono il carcere e praticamente vi morirono per essere andati ciascuno a proprio modo contro lo spirito del proprio tempo, Kafka, Joyce, Pound, Beckett, che non ebbero paura di essere emarginati pur di perseguire un loro ideale di un’arte di contraddizione, Petrolini, che fu con Gramsci la più grande figura etica del nostro novecento, e ancora pochissimi altri tra cui non dimenticheremo Adorno, che soffrì l’esilio per le sue idee, e Benjamin che arrivò al suicidio per sottrasi alle grinfie dei nazisti che gli davano la caccia. 
Questo elenco di personalità eccezionali costituisce, per noi, l’orgoglio del nostro retroterra. In un’epoca in cui intellettuali al servizio del potere hanno decretato la fine della storia e delle sue grandi narrazioni, provocando effetti devastanti nei giovani privati del proprio presente attraverso la sottrazione del loro passato, rivendichiamo con rabbia e determinazione questo nostro passato proprio per loro, per i giovani – a partire da quelli che collaborano e collaboreranno a questa iniziativa – cui dobbiamo un risarcimento anche se per colpe non nostre. Ovviamente sappiamo benissimo quanto limitate siano le forze confronto allo strapotere del pensiero conformato che ha ben altri mezzi a propria disposizione per espandere i suoi miasmi mefitici e corrompitori. Ma qui ci soccorre Gramsci che, pur nelle sue terribili condizioni di carcerato e di malato, non smise mai di lottare convinto com’era che ciascuno dovesse lavorare all’interno della propria cellula perchè le vicende umane potessero incominciare, almeno lì e da lì, a cambiare. 
E il sottotitolo di questa rivista – che s’intitola ‘L’asino vola’ in quanto filiazione di altra rivista, su carta, dal titolo ‘L’asino di B’ – abbiamo voluto suonasse: ‘Scritti molesti sullo spettacolo e la cultura nel tempo dell’emergenza’. ‘Molesti’, per la cultura di questo nostro tempo, per la doxa; ma si sarebbe potuto scrivere insolenti, impudenti, fastidiosi, corsari, non fosse stato, per quest’ultimo termine, il rimando per noi troppo alto. O ‘ribaldi’. Bene, di una certa ribalderia, e siamo ben consci anche della valenza negativa del termine, ci fregiamo dal momento che per lottare contro lo spirito e la cultura del tempo con forze così scarse e limitate, bisogna pur sentirsi e essere piuttosto gioiosamente – per quanto il tempo e questa sua cultura, che è tanto più torpida, buia e sorda mentre si gabella per ‘leggera’, permettano di prevedere un pensiero e un’azione gioiose – ribaldi.

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Elogio del rigore

La società dei consumi è nemica del rigore.
La filosofia postmoderna è nemica del rigore.
Il pensiero debole è nemico dei rigore.

Infatti:

il rigore si oppone al consumo;
il rigore è antico e moderno;

l rigore è tale perché affonda le sue radici in un pensiero forte; perché ci sia rigore debbono esistere dei valori riconosciuti e riconoscibili, dei valori su cui poggia il giudizio e non importa che questi valori siano utopici: anche l’utopia è una forma del rigore.

Rigore vuol dire accettare che il concetto e la pratica del sacro siano scomparsi da una società che ha del tutto abdicato a quei valori che si sono presentati in modo diverso nello svolgersi della storia e che avevano retto il consorzio umano dalle sue origini e che li ha sostituiti con un unico valore, quello di scambio, che è la cifra fondante e immediatamente riconoscibile per connotare i nostri tempi.

Rigore vuol dire sapere che il sublime ha definitivamente abbandonato il nostro mondo e che tutta l’arte moderna si inscrive sotto il segno di Sade che, primo, ha lanciato il suo urlo straziato sulla perdita del sublime nella società moderna.

Rigore vuol dire rendersi conto che della fenomenologia della perversione — non del suo concetto — si è definitivamente impadronita la società dei consumi tutto appiattendo e riducendo la trasgressione a norma, al punto tale per cui della prima non si può più parlare.

Rigore vuol dire sapere che nella società dello spreco non c’ è più posto per lo spreco come lo intendeva Bataille e che se non c e più posto per lo spreco (di sé) non c’è nemmeno più posto per il dono in una società in cui tutto viene scambiato e per cui l’unico valore è proprio costituito da quello stabilito dal mercato.

Rigore vuol dire sapere con precisa esattezza che arte e industria non possono in alcun modo coniugarsi; vuol dire sapere che, allo stesso modo, cultura e industria non possono stare insieme dal momento che il mondo dell’una nega quello dell’altra e viceversa e che la semplice espressione “ industria culturale” è una bestemmia.

Rigore vuol dire sapere che il teatro è morto perché è venuta meno quella comunità etica cui da sempre ha fatto riferimento; perché sono venuti meno tutti i presupposti su cui si basa, che sono quelli elencati qui sopra: il sacro, il sublime, la perversione, lo spreco, il dono, l’arte e la cultura; a questi si può aggiungere ancora il piacere che, nella società del piacere diffuso, non ha più quel posto privilegiato che gli era proprio e che veniva demandato a luoghi e momenti particolari non della vita di tutti i giorni.

Rigore vuol dire sapere che il teatro è stato sostituito dallo spettacolo, che si offre come un prodotto da consumare e che non ha nulla a che fare con l’arte: lo spettacolo è la negazione del teatro in quanto rende tutto in superficie ciò che là è invece profondità, dal momento che trasforma in pura visione ciò che nel teatro è sentire autentico, in quanto spettacolarizza ciò che invece nel teatro (moderno) è sofferenza profonda per l’impossibilità di frequentare il sacro e di “mostrare” il sublime.

Rigore vuol dire frequentare ancora le categorie, tipicamente moderne, di naturalismo e antinaturalismo e non danzare la danza della soddisfazione consumistica e postmoderna in cui tutto si appiattisce in un giudizio di valore privo di riferimenti “ alti” che non siano la piacevolezza e la gradevolezza di un determinato prodotto; perché la lotta tra naturalismo e antinaturalismo appartiene alla nostra epoca e non tenerne conto vuoi dire espropriare i giovani del loro passato (che è anche il nostro): che è poi un modo di renderci complici dell’alienazione e della reificazione che stiamo vivendo.

Ma rigore vuol anche dire sapere che in questa pesante notte da cui siamo avvolti resta accesa una luce di speranza: e questa consiste nella contraddizione, in tutto ciò che si oppone all’ipertrofia del valore di scambio. Anche se nulla di consolatorio c’è ormai concesso: i valori perduti possono essere frequentati solamente nella loro dimensione rovesciata e un urlo straziato e straziante rimarrà li a documentare una tensione verso quei valori ormai impraticabili, ma vivi sempre in quella dimensione utopica di cui si sostanzia l’arte pur così difficile di questi tempi tristi e bui.

E infine rigore vuol dire cercare nella contraddizione la bellezza che, nella sua essenza, si è occultata nell’epoca storica che stiamo vivendo per espandersi nelle sue forme volgari e superficiali — anche in teatro proprio attraverso l’estetismo diffuso dello spettacolo, che nulla ha a che fare con l’autentica estetica del teatro — consapevoli che oggi la bellezza non può che presentarsi in forma rovesciata, come negazione della sua possibilità, come “ grottesco”, come stravolgimento: elementi che comunque non possono non mantenere un nucleo profondo di bellezza, nel senso di “tensione verso”, che è poi l’unica forma di “contemplazione” estetica che è concessa ai nostri tempi.

Perché una rivista

Ci sono molti motivi per fare una rivista; ma ci sono anche molti buoni motivi per non farla, tanto più se “di teatro e altro”. Tra questi ultimi il fatto che esistono già, sul mercato (ma è un mercatino quello di cui stiamo parlando), altre riviste; e forse troppe. Bisogna quindi avere una forte spinta per farne una nuova e dei validi motivi (o, almeno, essere profondamente convinti che esistano senza troppo vergognarsi delle proprie convinzioni).

E, per incominciare: questa è una rivista “militante”. Il termine vuol dire poco. Infatti: chi non è militante? Tutti militiamo in qualche milizia, o in un modo o nell’altro. Anche chi si pone dalla parte dell’esistente e della trionfante industria culturale milita; milita come conformista, ma milita. L’aggettivo “militante”, però, ha assunto una connotazione che lo significa come particolarmente attento ai fenomeni contemporanei, non senza un sospetto di partigianeria e di tendenziosità. In questo senso il termine ci si adatta e noi lo adattiamo a questa rivista: siamo, e non abbiamo mai nascosto di esserlo, partigiani e tendenziosi.

Ovviamente partigiani e tendenziosi (cioè “che stanno da una parte” e “che parteggiano per una tendenza”) è un termine ambivalente: tali ci rubricano quelli che non la pensano come noi e noi quindi ci appropriamo dei termini proprio come, nella storia, alcune parti politiche hanno rivoltato con orgoglio i termini spregiativi o limitativi con cui venivano designate, appunto, appropriandosene. Perché, in fin dei conti, noi non siamo né partigiani né tendenziosi visto che il fine dei nostri discorsi è l’arte in qualsiasi forma si mostri. E se questa poi, nei tempi bui che stiamo vivendo, si manifesta solo da una determinata parte o fazione non è certo colpa nostra. Noi qui testimoniamo un’idea del teatro (e di altro) che è quella che non ha ancora ceduto al conformismo trionfante di questi tempi.

Ma non diamo soluzioni al problema; o, perlomeno, diamo solo quelle che i tempi ci permettono di dare. Poiché siamo convinti che il modo corretto di procedere è quello di porli, i problemi, e non (o non solo) di fornire soluzioni. Mai, nell’epoca moderna, è stato necessario come oggi portare in luce i problemi, i nodi intorno a cui si dipanano le varie questioni così come mai come oggi è stato difficile risolvere questi problemi, questi nodi. Si pensi a una delle questioni poste nel primo numero di questa rivista da Rino Sudano nel colloquio che chiude quel fascicolo: il problema di quello che egli definisce “il pudore della forma”. In sintonia con questo discorso, e nello stesso periodo di tempo (novembre ‘ 97 e gennaio ‘98), e la cosa certo non è casuale, è uscito un volume di notevole interesse che è Pasolini contro Calvino di Carla Benedetti edito da Bollati-Boringhieri.

Sul volume si è immediatamente alzato un chiacchiericcio giornalistico in cui il buon senso, che è ciò che di peggio si possa dare in un dibattito su un fatto artistico o culturale, serviva solamente a nascondere, come è proprio dell’ideologia, interessi editoriali ben precisi. Ma, sottratto il volume a questo chiacchiericcio, e subito detto che qualcosa dell’impianto della Benedetti non convince del tutto (il non scegliere tra postmoderno e tarda modernità, il parlare di fine delle poetiche nel momento stesso in cui si nega la fine delle ideologie…), non possiamo non renderci conto che il succo del discorso dell’autore è in profonda sintonia con quanto espresso da Sudano. Si tratta, infatti, di mettere in luce come nel momento della crisi delle poetiche (così i termini ci sembrano rispondere meglio alla realtà ;, almeno così come noi la leggiamo) non ci sia, per i grandi, non solo della letteratura, che la fuga nell’istituzione o la testimonianza di un’arte strettamente legata alla vita e che da questa e per questa tragga la propria linfa vitale: così Calvino, che si rifugia nella forma andando incontro alle richieste dell’industria culturale, e, dall’ altra parte, Pasolini che con i suoi “brutti versi” rinuncia alla sua aura di poeta laureato per porsi continuamente in discussione e perseguire il “fine pratico della [sua] poesia”.

Ma il discorso si può estendere. E, per rimanere al campo di nostra pertinenza, che cosa sarà il rifugio nella fonè di Carmelo Bene o nell’istituzione di Leo De Berardinis confronto al rifiuto della forma di Rino Sudano, appunto, e, se pure in modo diverso e cioè nel suo operare concreto d’attore solo apparentemente “istituzionale”, di Carlo Cecchi? C’è poi anche chi continua a ‘formare’ – Carlo Quartucci e Carla Tatò, presente il primo in questo fascicolo; ma anche Remondi e Caporossi – ma senza per questo cedere dal momento che il loro non è un rifugiarsi nell’ ;istituzione ma, al contrario, è un portare avanti un discorso che viene da lontano e che si contraddistingue per essere di contraddizione con tutto ciò che non l’arte ma l’industria culturale ci propone: in una parola il teatro di regìa così come si è configurato negli ultimi quarant’anni. (Per non parlare del teatro del testo, in qualche modo legato a quello di regìa, che oggi sopravvive solo nella sua forma degenerata di prodotto di rifornimento per il mercato di un teatro totalmente arreso all’industria culturale).

Sintomi interessanti, questi, di una critica che rifiuta di arrendersi e che si pone, appunto e come dicevamo, problemi di grande interesse per l’epoca che stiamo vivendo; un’epoca cui non è data nessuna consolazione, che non sia un tradimento, ma cui solo è concesso tentare di mettere sale sulle ferite, divaricare le fessure che pure si aprono in un tessuto che vuole apparire compatto ma che tale non è per le leggi ineluttabili della dialettica che non solo non è morta ma che continua a essere l’unico strumento euristico praticabile così per conoscere il passato come per appropriarsi del presente. Gigi Livio

Editoriale

Su una trave che regge il soffitto dello studio di Brecht sono dipinte le parole:”La verità è concreta”.
Sul piano di una finestra c’è un asinello di legno che può assentire con la testa. Brecht gli ha appeso intorno al collo un cartellino, dove ha scritto “Devo capirlo anch’io”.

W. Benjamin, Conversazioni con Brecht. Appunti da Svendborg, 24 luglio 1934