Francis Bacon – tra azzardo e senso critico

Qualche appunto sul grande artista, intrecciando l’opera pittorica alle riflessioni sull’arte – e sulla vita – tratte dalle interviste che Francis Bacon concede a David Sylvester.
Di Maria Pia Petrini

Muovendosi tra «azzardo» e «senso critico», Francis Bacon ci restituisce immagini di una realtà violenta e ambigua, senza ricorrere né all’illustrazione né alla narrazione.

Per quanto egli stesso affermi che l’artista oggi sia fuori da ogni tradizione, di quest’ultima le sue opere mantengono lo spirito più profondo, pur stravolgendone il linguaggio. È infatti ora necessario abbreviare, ridurre e deformare per «reinventare il realismo, perché una cosa come il realismo naturale in pittura non esiste più».

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Head VI, 1949
olio su tela, 93,2X76,5 cm
“Si può dire che un grido sia un’immagine d’orrore, ma io ero interessato in realtà a dipingere il grido più che l’orrore. Penso che, se avessi davvero riflettuto su ciò che induce una persona a gridare, il grido che tentavo di dipingere ne sarebbe risultato molto più efficace. In un senso, avrei dovuto essere più consapevole dell’orrore da cui nasce il grido. Le mie immagini erano in realtà troppo astratte.”
Più avanti sempre Bacon afferma: “ho sempre voluto dipingere il sorriso, senza mai riuscirci”.



Triptych – Studies of human body, 1970
olio su tela, trittico, ciascun pannello 198X147,5 cm
“[le interruzioni verticali tra le tele di un trittico] le isolano l’una dall’altra. E interrompono la storia fra l’una e l’altra. Il fatto che le figure siano dipinte su tre tele diverse aiuta a evitare la narrazzione. Certo, molti dei più grandi dipinti mai realizzati includono una serie di figure su una stessa tela. […] Ma, data la fase terribilmente complessa che attraversiamo oggi, la storia che viene narrata già tra una figura e l’altra annulla la possibilità di ciò che si può fare con la pittura in sé. E questa è una grandissima difficoltà. Ma prima o poi arriverà qualcuno capace di mettere più figure su una tela”.
Figure with meat, 1954
olio su tela, 129,9X117 cm
“Quando si entra in una macelleria e si nota quanto la carne possa essere bella e poi ci si riflette sopra, si può arrivare a pensare a tutto l’orrore della vita: di come una cosa viva a spese di un’altra. Pensi, per esempio a tutte quelle stupidaggini che si dicono sulle corride. La gente mangia la carne e poi però condanna le corride; vanno a lamentarsi delle corride coperti di pellicce e con uccellini nei capelli”.



Un altro sguardo su Welles in Italia

Il libro di Alberto Anile, pubblicato da Il Castoro, ricostruisce il rapporto intenso e travagliato tra l’Italia e Orson Welles. Attraverso documenti, testimonianze e recensioni dell’epoca, il libro offre uno spaccato denso e pungente di un periodo poco noto della carriera dell’artista americano. Di Mariapaola Pierini
Tra il 1947 e il 1953 Welles visse, ma soprattutto lavorò, in Italia e il libro di Alberto Anile ricostruisce, passo a passo, il tormentato rapporto tra Welles e il nostro paese. Si tratta di una fase cruciale, di svolta, in cui Welles abbandona gli Stati Uniti, elegge l’Italia a sua patria adottiva senza però riuscire a sintonizzarsi fino in fondo con il clima culturale e il panorama cinematografico. Sono anni di lavoro intenso e travagliato, in cui si intrecciano cinema, politica, mondanità, amori, affannose ricerche di denaro, battaglie con produttori, feroci polemiche e incomprensioni con i critici. Welles in Italia contribuisce a illuminare, a rendere più nitido e intelligibile un passaggio importante di una carriera artistica nomade e piena di traversie.

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