Romanzo di una strage: la storia dalla parte degli oppressori

L’ultimo film di Marco Tullio Giordana si prefigge l’arduo compito di narrare un episodio molto complesso della nostra storia semplificandone i fatti e riducendo i personaggi a caricature di se stessi. Dobbiamo constatare che il compito è fallito. Di Enrico A. Pili

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In alto a destra sulla locandina del film leggiamo la suddetta scritta. Non sappiamo a quale corrente filosofica aderisca l’autore del manifesto, se al New Realism o a uno dei vecchi realismi novecenteschi, certo però salta all’occhio l’ingenuità dell’affermazione, che sembra dirci: «Sappiamo che una bomba è esplosa a una certa ora: se la bomba è vera allora quello che vedrete in sala è vero». Sillogismo che, ci permettiamo di notare, è tutt’altro che brillante. Il problema del racconto della verità storica è molto attuale ma ha già prodotto al cinema degli ottimi frutti, dalle Histoire(s) du cinéma di Jean Luc Godard (1998) a Sono stato Dio in Bosnia di Erion Kadilli (2011), film che ci hanno insegnato come un racconto naturalistico non sia in grado di restituire l’elemento di verità della storia, che è poi la sua complessità, che deve essere salvata se non si vuole, per usare le parole di Benjamin, ridursi a strumento della classe dominante.