Non essere «Charlie Hebdo»

Il sette, otto e nove gennaio, presso la redazione del settimanale «Charlie Hebdo» e in altre zone di Parigi, diciassette persone sono state uccise da tre giovani legati — pare — ad Al Qaeda, a loro volta uccisi dalla polizia. Ho deciso di condividere qui alcune mie riflessioni legate alla comunicazione mediatica dell’evento. di Enrico A. Pili

Molte cose mi hanno subito colpito dei modi in cui la terribile vicenda di Parigi è stata convertita in notizia. La prima è stata forse il lessico da piccolo undici settembre (non quello cileno del 1973 ma quello newyorkese) utilizzato da televisioni, giornali e social networks per dare forma all’accaduto. Non a caso «Le Monde» ha titolato: Le 11-septembre français. Così mi ha colpito anche la velocità con cui la vicenda è stata trasformata in un racconto semplice e lineare, circoscritto a un luogo (Parigi) e a un tempo (tre giorni di gennaio), facile da “afferrare” per lo spettatore e quindi facilmente “vendibile”, come le magliette che questo gennaio hanno ripetuto roboticamente «Je suis Charlie». Questo significa che la vicenda è diventata da subito un facile oggetto di strumentalizzazione.
[E la strumentalizzazione della storia non è mai neutrale. A questo proposito consiglio la lettura di questo interessante articolo di Wu Ming 1]

Io credo sia necessario, mentre è ancora forte il dolore per tutti i morti di quei giorni, non perdere d’occhio il contesto storico in cui i fatti si sviluppano e il modo in cui divengono narrazioni televisive e giornalistiche. Istintiva è certamente l’empatia che ci spinge per esempio a soffrire assieme ai parenti delle vittime. Ma all’istinto deve seguire il ragionamento critico, perché il rischio è sempre quello di farsi trascinare dalla parola del più forte, cioè da colui che ha a disposizione il megafono più grande.

E temo che il megafono più grande appartenga oggi a chi vuole narrare l’attentato di Parigi come la dichiarazione di guerra di un supposto blocco orientale, musulmano e barbaro (o, quando va bene, di una internazionale islamista del terrore), a un supposto blocco occidentale democratico, laico e tollerante.

Una prima obiezione che va fatta riguarda la problematicità di parlare di Islam come di un qualcosa di anche vagamente compatto o uniforme, visto che per sua natura il mondo musulmano è una galassia estremamente vasta e variegata. È quindi insensata la richiesta di chi pretende dalle comunità musulmane d’Europa una presa di distanza dal gesto dei fratelli Kouachi, visto che l’abisso che separa le prime dal secondo dovrebbe essere dato per scontato. Solo perché Breivik, il norvegese che ammazzò settantasette persone il ventidue luglio del 2011, si definiva «salvatore del Cristianesimo», nessuno ha ritenuto un dovere delle autorità cristiane, nemmeno di quelle norvegesi, una presa di distanza dal suo operato. E meno male.

Senza contare che i musulmani d’Europa sono i primi a essere stati danneggiati dall’attacco del sette gennaio. «Repubblica.it» riporta i dati dell’Osservatorio contro l’islamofobia del Consiglio francese del culto musulmano (Cfcm): nei cinque giorni successivi all’attentato, solo in Francia si sono registrate una cinquantina di aggressioni e attentati contro musulmani e moschee. Chi guadagna da questo clima, così come dalla riproposizione sui giornali delle vignette di «Charlie Hebdo», sono invece, ci ricorda la giornalista Barbara Serra, «gli imam radicali, che possono andare dai giovani e dire: vedete, non vi rispettano. In Occidente non ci sarà mai posto per voi».

Per quanto poi riguarda la teoria dei due blocchi, certamente non possiamo sintetizzare in poche righe un argomento estremamente complesso come è quello del neocolonialismo e dei rapporti tra Europa, Stati Uniti, gruppi criminali internazionali e paesi musulmani. Anche solo considerando la storia coloniale e neocoloniale della Francia. Certo è che i rapporti tra una nazione e l’altra e tra un gruppo di potere e un altro sono oggetto di un continuo processo di ridefinizione. Cosa ne sarebbe oggi di Al-Qaeda se gli Stati Uniti non avessero finanziato i talebani in funzione antisovietica per tutti gli anni ottanta?

E come mai chi condanna “l’estremismo islamico” è in prima linea nel permettere a certi governi salafiti della penisola arabica, apertamente sessisti, classisti e totalitari, di prosperare e diffondere la propria ideologia?

La destabilizzazione di paesi africani e asiatici è stata praticata per decenni e in maniera sistematica dalla NATO e da paesi a lei fedeli. Si pensi a cosa sta succedendo oggi in Siria. E molto altro ci sarebbe da dire, ma non voglio addentrarmi in un ginepraio su cui esiste già un’ampia letteratura.

[Voglio però affidare al giudizio del lettore le suggestioni di Jean Lup Amselle, apparse su «Il Manifesto» del diciassette gennaio nell’articolo Due pesi e due misure, che riallacciano gli omicidi parigini al particolare della politica estera francese: «[L]’attitudine favo­re­vole nei con­fronti di Israele — espressa negli ultimi anni dai governi fran­cesi, tanto di destra quanto di sinistra, unita alla poli­tica anti-musulmana di Fra­nçois Hol­lande in Mali, Repub­blica Cen­tra­fri­cana e, in nome della lotta con­tro il «ter­ro­ri­smo» in Iraq — sono legati agli atti anti­se­miti che hanno deva­stato la Fran­cia negli ultimi anni. Lo testi­mo­niano l’attentato rea­liz­zato da Moha­med Merah con­tro una scuola ebraica a Tolosa, nel 2012, quello a opera del fran­cese Mehdi Nem­mou­che con­tro il Museo ebraico di Bru­xel­les nel mag­gio del 2014 e, ultimo, l’attacco e il mas­sa­cro com­piuti dai fra­telli Koua­chi, in nome della lotta con­tro «giu­dei» e «cro­ciati», con­tro Char­lie Hebdo oltre a quello del loro com­plice Amedy Cou­li­baly con­tro il nego­zio di ali­men­tari kosher di Porte de Vin­cen­nes, a Parigi. Tutti que­sti cri­mini e atten­tati, per quanto odiosi e ese­cra­bili, sono stati oggetto di stru­men­ta­liz­za­zione e recu­pero da parte del governo israe­liano che se ne è ser­vito per acce­le­rare la migra­zione (aliyah) degli ebrei fran­cesi verso Israele. Lo stesso vale per quello fran­cese che non ha smesso di dare soste­gno alle isti­tu­zioni ebrai­che in Fran­cia e al governo israe­liano, durante l’ultima offen­siva su Gaza, vie­tando mani­fe­sta­zioni pro-palestinesi».]

Per tornare ai fatti francesi e al loro racconto mediatico, un bell’articolo di Jamila Mascat, ricollegandosi al saggio di Derrida intitolato Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia, ci ricorda che è meglio diffidare dalle «retoriche dell’apocalisse per gli stratagemmi che adottano; per le “astuzie criptiche” che mobilitano, per la fine imminente che annunciano e a cui poi non tengono fede, per quell’annichilamento distruttivo che promettono e non mantengono al solo scopo di garantirsi una sopravvivenza più duratura. Al pari di un’accorta strategia di comunicazione, infatti, i toni apocalittici sottintendono più di quel che narrano esplicitamente, e agitano lo spauracchio della fine proprio allo scopo di poter preservare le cose come stanno. Nulla insomma finisce davvero con l’Apocalisse e molto si perpetua immutato, a discapito delle apparenze».

Per intenderci, quando vediamo Matteo Salvini in televisione dire che in giro per l’Italia ci sono orde di musulmani pronti a sgozzarci a partire da domani, bisogna chiedersi chi trae beneficio da quel genere di annunci.
Così bisogna chiedersi chi trae beneficio dall’erezione di «Charlie Hebdo» a baluardo della libertà di stampa e quindi interrogarsi sui rischi di questa strumentalizzazione.

Cosa è oggi, o cosa era fino a ieri, «Charlie Hebdo»? Abbiamo spesso letto sui giornali e sentito alla televisione la definizione rivista satirica, ma è così? La risposta è un secco no, non era (non più?) una rivista satirica. La satira colpisce la morale comune mettendo a nudo la sua coscienza sporca e ridicolizzando l’ipocrisia dei centri di potere. Le battute di «Charlie Hebdo» invece si costituivano spesso come insulto gratuito, spesso bieco e discriminatorio, verso categorie socialmente deboli e minoritarie. Non vi è svelamento nella vignetta che ironizza sulla situazione delle donne rapite e tenute in schiavitù dalle truppe di Boko Haram, ma solo un pessimo gusto (e il razzismo ignorante di chi si ferma alla superficie delle cose, come suggerisce Max Fisher in un bell’articolo uscito su «Vox»).

La vignetta recita: Le schiave sessuali di Boko Haram in collera: «Non toccate i nostri benefici fiscali». I benefici fiscali di cui si parla sono quelli riservati alle famiglie numerose, un’allusione al fatto che le donne ritratte sono state stuprate e costrette ad avere figli. Come precisa Fisher, la vignetta è indirizzata alla destra francese, talmente «mostruosa» da sostenere che persino le rifugiate nigeriane sono arrivate in Francia con il solo obiettivo di ottenere delle facilitazioni fiscali. Sarebbe quindi un buon esempio del doppio livello di lettura richiesto dalle vignette della rivista per essere decifrate. Allo stesso tempo però anche questa rappresentazione delle donne nigeriane risulta inutilmente mostruosa, oltre che vile nello strumentalizzare una situazione di sofferenza estrema.
Ma il pallino della rivista era già da tempo divenuto l’Islam. La parabola del giornale è stata ben tracciata da Olivier Cyran, ex collaboratore della rivista, in una lettera scritta ai suoi vecchi colleghi sul finire del 2013.

È il 2001 quando il crollo delle Twin Towers porta nella redazione, a dire del giornalista, una «nevrosi islamofoba», a partire dall’ossessione dell’allora direttore Philippe Val per il «mondo arabo-musulmano», considerato come «un oceano di barbarie che minaccia di sommergere da un momento all’altro quell’isola di alta cultura e fine democrazia che è per lui lo Stato di Israele». Quello stesso anno, Cyran abbandona la redazione. «Charlie Hebdo» ha ormai preso posizione: «chi non si riconosce in una visione del mondo che oppone i civili (europei) agli oscurantisti (musulmani) si trova in men che non si dica tra le file degli “utili idioti” o degli “islamo-gauchisti”».

Eppure, dicono alcuni, un disegno non ha mai fatto male a nessuno. Ma i dodici anni di pseudosatira anti-musulmana post-undici settembre hanno avuto, secondo Cyran, conseguenze concrete. «Charlie Hebdo» «ha contribuito a riprendere, nell’opinione “di sinistra”, l’idea che l’Islam è uno dei “problemi” principali della società francese» e che «disprezzare i musulmani non è più un privilegio dell’estrema destra», ma diritto di ogni cittadino, praticato in nome della «laicità, della repubblica e del “vivere insieme”».
Forse, anche tra i nostri lettori, ci sarà qualcuno che controbatterà che «Charlie Hebdo» ha ospitato anche moltissime vignette contro la Chiesa. Rispondiamo loro con le parole di Cyran: «Voi vi rifate alla tradizione anticlericale, ma fingete d’ignorare in cosa questa si differenzi radicalmente dall’islamofobia: la prima origina da una lotta dura, lunga e feroce contro un clero cattolico effettivamente dotato di un potere concreto, che possedeva — e che possiede ancora — i suoi giornali, i suoi deputati, le sue lobbies, i suoi negozi e il suo immenso patrimonio immobiliare; la seconda attacca i membri di una confessione minoritaria privata di qualunque spazio di influenza nella sfera pubblica. [Sempre la seconda] consiste nel deviare l’attenzione dagli interessi che governano questo paese per aizzare la folla contro dei cittadini che già non se la passano molto bene […]. È troppo chiedere a una equipe che, per usare le vostre parole, “si divide tra sinistra, estrema sinistra, anarchia e ecologia”, di prendere un pochino in considerazione la storia del paese e la sua realtà sociale?».

Insomma, fare di «Charlie Hebdo» una bandiera della libertà di stampa e di espressione non è proprio il massimo, e quando avviene in un paese come la Francia non può che apparire come una scelta tanto ridicola quanto pericolosa. Perché infatti difendere il diritto di «Charlie Hebdo» a promuovere in tutte le edicole la sua retorica dell’apocalisse islamica mentre si condanna Jean-Marie Le Pen a 10.000 euro di multa — incitamento all’odio razziale — per aver fatto intendere che «la comunità musulmana è un pericolo per i francesi»? E la multa al famoso creatore di profumi Jean-Paul Guerlain? E quella al rapper Monsieur R per aver scritto una canzone che dice: «Piscio su Napoleone e sul generale de Gaulle»? Chi ha difeso la loro “libertà” di espressione?

Si capiscono così le ragioni del comico francese Dieudonné, diventato celebre anche fuori dai confini nazionali a causa delle sue battute antisemite, quando scrive al ministro dell’interno di sentirsi come «Charlie Hebdo», ma che nonostante ciò non si cerca di capirlo, anzi lo si condanna. Come eccepire? Il ragionamento fila: se la Francia fa della pubblicazione delle vignette islamofobe di «Charlie Hebdo» una battaglia di civiltà, anzi addirittura un dogma indiscutibile («tutti devono poter dire e pubblicare quello che vogliono»), perché Dieudonné viene condannato?

Sarà chiaro a questo punto che, se il problema della libertà di espressione è già di per sé molto complesso, diventa addirittura insondabile quando la parola libertà viene svuotata di significato ed esibita all’occhiello del pensée unique, che come sappiamo bene non accetta contraddittorio.
A quel punto si può spacciare per libertà anche la libertà di opprimere o di spingere alla violenza verso un certo gruppo sociale, etnico o religioso. Perversione dell’Illuminismo e realizzazione delle nere profezie sadiane.
Parlare di libertà di espressione e di stampa scardinandola da ogni contesto non è semplicemente problematico, ma anche contraddittorio. Come scrive Giacomo Sartori, in Francia ci si è riempiti la bocca di liberté, mentre l’egalité e la fraternité venivano perse per strada.

Difatti i tre sono pensabili singolarmente, o addirittura antagonisticamente, soltanto in una società totalmente alienata, nella quale l’individuo non esiste più come essere umano. È questa la Francia di oggi? È a questo che aspira l’Europa unita?

Queste in sostanza le pericolosissime ambiguità che si celano malamente dietro l’etichetta/hashtag #JeSuisCharlie, che ripropone la logica del «o noi, o loro» prestandosi alla strumentalizzazione di gruppi di potere e capi di Stato che sanno benissimo quello che fanno.

Ma in fondo in questi giorni molto si è scritto e molto si è detto (anche se temo poco si sia discusso in televisione, ancora la principale fonte di informazioni per la maggior parte degli italiani) sugli argomenti da me trattati, così come su quello stucchevole quadretto parigino che ha voluto affiancare ai nostri beneamati leaders europei una folta schiera di paladini delle libertà individuali, dal re Abdullah di Giordania all’israeliano Netanyhau, al presidente Keita del Mali. E anch’io ho scritto già troppo e mi avvio, pertanto, alla conclusione. In queste ultime righe non mi resta che augurarmi, e augurarvi, che cadano nel nulla i proclami apocalittici di chi, puntando il dito lontano da sé, vuole distogliere la nostra attenzione dai problemi fondamentali (soprattutto sociali ed economici) di cui l’Europa deve discutere subito. Perché dietro la presunta difesa di questo presunto occidente una banda di spietati cialtroni persegue il nostro annichilimento.

L’oscenità del dono

Le festività natalizie offrono lo spunto per una riflessione sulla decadenza del dono, tra sociologia, psicoanalisi e “pensiero critico”. Di Letizia Gatti

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Una vignetta satirica di Gahan Wilson,pubblicata sul “The New Yorker” il 19 dicembre del 1988, gioca sugli stereotipi della psicoanalisi freudiana e sull’immaginario collettivo dei lettori per fare emergere le contraddizioni delle festività natalizie. La battuta riportata in calce è pronunciata dallo psicanalista, che così si rivolge a un Babbo Natale evidentemente turbato: “Mi creda, tutti si sentono un po’ depressi in questo periodo dell’anno!”.

Sabotare la narrazione. Il documentario di Kamran Shirdel.

Tra l’11 e il 14 dicembre si è tenuta a Cagliari la ventottesima assemblea generale della FICC (Federazione Italiana Circoli del Cinema). In questa occasione è stato consegnato un premio alla carriera al regista iraniano Kamran Shirdel e sono stati proiettati molti dei suoi lavori. Di Enrico A. Pili

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Una foto che ritrae Kamran Shirdel assieme a Michelangelo Antonioni al terzo Festival Internazionale del Cinema di Teheran del 1974. Per l’occasione fu permesso a Shirdel di completare la realizzazione di Oun Shab Keh Baroun Oumad. Il film vinse il grand prix, ma la gloria durò appena il tempo del festival perché, una volta rincasati gli ospiti internazionali, l’opera tornò all’indice fino al 1979.

In questa sequenza di Oun Shab Keh Baroun Oumad sentiamo il regista istruire gli abitanti del villaggio di Lamelang sulla posa da assumere per le riprese. È certamente uno dei momenti in cui con maggior forza viene ridicolizzata la pretesa del reportage giornalistico di restituire allo spettatore la cosiddetta “realtà oggettiva”.

In questa sequenza di Oun Shab Keh Baroun Oumad sentiamo il regista istruire gli abitanti del villaggio di Lamelang sulla posa da assumere per le riprese. È certamente uno dei momenti in cui con maggior forza viene ridicolizzata la pretesa del reportage giornalistico di restituire allo spettatore la cosiddetta “realtà oggettiva”.