C.S.I.: un esempio del ritorno dell’“orroroso” nella nostra società.

Il telefilm statunitense C.S.I., con i suoi due spin-off, costituisce un spia molto evidente del riemergere di una tematica che, a partire dal Barocco, si è ciclicamente ripresentata – nel Seicento a livello artistico, e nell’ambito dell’intrattenimento televisivo oggi-: l’“orroroso”. Un tema che, abilmente adoperato dal potere, diviene ora uno strumento politico estremamente sottile e insidioso. Di Chiara Delmastro

Negli ultimi anni si è potuto assistere a un ampio riemergere della tematica dell’“orroroso” – in 
televisione, con fiction e programmi sul genere, al cinema e in letteratura – sostenuto da un cospicuo 
successo di pubblico; si tratta di un motivo che, pur se con sostanziali differenze, riaffiora 
periodicamente a partire dal Barocco sino a giungere a oggi, con telefilm sul modello dello statunitense C.S.I.

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La Medusa di Caravaggio: un esempio eccellente della rappresentazione delle inquietudini dell’uomo del Barocco, immerso in una realtà che non lo vedeva più come il centro del mondo; questa immagine dimostra come il “brutto” in arte possa essere al contempo molto “bello” e magneticamente inquietante.

Un particolare che mostra in modo molto evidente con quanta meticolosa cura gli ideatori delle serie di C.S.I. presentino anche i dettagli più “orrorosi”, senza nulla celare agli occhi dello spettatore, che può così appagare e placare ogni possibile istinto perverso: lo scopo del potere è quello di appiattire e normalizzare l’individuo, privandolo di ogni potenziale impulso eversivo.

Arte, passione civile e disincanto in Elio Petri

Rivedere i film di Petri a distanza di vent’anni e leggere le sue riflessioni sul senso dell’operare artistico nella società contemporanea può aiutarci a comprendere meglio il nostro tempo: comprendere, cioè, che oggi come allora l’azione di un artista che rifugge le facili consolazioni tanto care all’industria culturale è una strada che conduce al travisamento e all’isolamento. Di Silvia Iracà

Quest’anno ricorre il venticinquesimo anniversario dalla morte di Elio Petri (morì il 10 novembre 1982 
a 53 anni). Lo scorso settembre il Museo Nazionale del Cinema di Torino ha proiettato la retrospettiva completa dei suoi film. Contemporaneamente è uscita nelle librerie una raccolta di scritti del regista curata dal critico e studioso Jean Gili (Elio Petri, Scritti di cinema e di vita, a cura di Jean A. Gili, Bulzoni, Roma, 2007, pp. 252, euro 20), scritti che mostrano la consapevolezza artistica e l’impegno politico di Petri nel corso dei decenni, dagli esordi come critico cinematrografico e sceneggiatore alla contrastata affermazione come regista: gli stessi decenni che furono segnati dalla ricostruzione post-bellica, dal boom economico, dalla guerra fredda, dal sessantotto e le grandi lotte di classe e dalla successiva deriva reazionaria degli anni di piombo, ma anche dalla progressiva involuzione culturale posta in essere dalla logica omologante dell’industria culturale (e cinematografica in particolare), all’indomani di una delle stagioni artisticamente più fertili del cinema italiano, quella del neorealismo.

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«Quando Volonté si lasciava coinvolgere dal personaggio, specialmente con Petri, era l’eccesso nevrotico o sussiegoso a ristabilire la distanza, a tradire la condizione alienante in cui questo agiva marcando la somiglianza con il personaggio fino all’esasperazione e sortendo per eccesso di naturalismo effetti opposti, voluti, di astrazione, disagio, paradosso. Di programmatico straniamento» (A. G. Mancino, 
La maschera sociale, in Gian Maria VolontéLo sguardo ribelle, Fandango, 
Roma, 2004).
«Nell’ultimo periodo della mia vita, io ho fatto film sgradevoli. Sì, film sgradevoli in una società che ormai chiede la gradevolezza a tutto, persino all’impegno… I miei film, al contrario, oltrepassano addiritura il segno della sgradevolezza. A cosa è imputabile tutto questo? Perché faccio film così? Evidentemente è per via di una netta sensazione di essere arrivato al punto in cui mi pare che tutte le premesse che c’erano quando io ero ragazzo, si siano proprio vanificate» (Elio Petri, testo tratto dal DVD Elio Petri, appunti su un autore, Feltrinelli, Milano, 2005).

Elio Petri e, sullo sfondo, Pier Paolo Pasolini durante l’occupazione del Centro Sperimentale di Cinematografia (Roma, 1968). «Come la struttura sociale si basa sul sistema dell’esclusione dal possesso dei mezzi di produzione e del potere degli strati immensi degli operai e dei contadini, così il sistema […] della cultura si d[à] nella cosciente esclusione della comunicazione della stragrande maggioranza dei contemporanei» (Elio Petri su “Bianco e Nero”, 1972).