Il Convegno sul teatro di contraddizione

Dal 4 al 6 marzo 2004, all’Università degli Studi di Torino (Facoltà di Scienze della Formazione) un incontro di tre giorni con storici del teatro, musicologi e studiosi di letterature per ricostruire la grandiosa rivoluzione – non per colpa dei protagonisti fallita – del teatro di contraddizione alla presenza di alcuni testimoni di quel momento. Di Silvia Iracà

Il Convegno è stato un’occasione – sempre più rara nell’era del pensiero unico, nemico di ogni forma autentica di elaborazione critica del reale – di confronto e approfondimento sulla stagione più fertile e audace del nostro teatro dagli anni ’60 ad oggi, e uno dei rari momenti di incontro con alcuni dei teatranti, Claudio Remondi, Riccardo Caporossi, Carlo Quartucci e Carla Tatò che, insieme a Carmelo Bene, Carlo Cecchi, Leo De Berardinis, Perla Peragallo e Rino Sudano, ne furono i protagonisti.
 
Dagli interventi, così come dalle preziose testimonianze degli artisti, è emerso il valore etico, oltrechè estetico, della ‘contraddizione’ intesa come poetica rivoluzionaria, capace di scardinare le certezze consolidate e consolatorie di una società culturalmente asservita e assuefatta alle logiche del potere.

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L’ostinata lotta di Buster

Si torna oggi a parlare e a vedere i film di Keaton. Comico fra i più grandi e insuperati della storia del cinema, ha rivoluzionato il linguaggio artistico del suo tempo: con lucidità e un tocco di grazia.Di Donatella Orecchia

Quello sguardo sbigottito, carico di malinconica estraneità e quella tensione ostinata e irriducibile alle regole del mondo che lo circonda sono il suo modo di guardare all’America degli anni ’20 e le trasformazioni di una società sempre più industrializzata, massificata ma proprio piena di contraddizioni.
 
Con uno stile particolarissimo: astratto, antipsicologico, antinarrativo, antidrammatico, straniato, prosciugato da ogni umore sentimentale, essenziale e, paradossalmente, anticomico. Senza tentazioni consolatorie. Senza un sorriso. Così Keaton ha detto e continua oggi a dire che l’arte (come forma di conoscenza) può far saltare i codici, che l’ideologia dominante vorrebbe naturali, con cui si guarda la realtà.

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Primo piano di Buster Keaton: lo sguardo attonito di chi guarda un mondo alla cui ferrea e brutale logica resta estraneo, senza un sorriso, senza un cenno di confidenza ammiccante con lo spettatore. ‘Quando un comico comincia a ridere sullo schermo è come se dicesse al pubblico di non prenderlo sul serio, che il tutto non è che uno scherzo’ (B. Keaton).

Sherlock Jr., 1924. Buster Keaton fissa con sguardo interdetto il ferri del mestiere e i generi della tradizione cinematografica che la sua opera mette continuamente in discussione.

Go West, 1925. Friendless, protagonista solitario (di nome e di fatto) della pellicola, qui in una caratteristica inquadratura dei film di Keaton: ripresa frontale, campo lungo, spazio dalla linearità geometrica, figura intera, stilizzata, che ha tutta l’astrazione di un disegno.

Il ritorno di Maigret

L’editore Adelphi ristampa tutta l’opera di Simenon. La RAI distribuisce, in nastro e DVD, Le inchieste del commissario Maigret con Gino Cervi. Una ghiotta occasione per rivedere al lavoro un importante attore della seconda metà del novecento. Di Gigi Livio e Giuliana Pititu

Lo spettatore televisivo di fronte a Gino Cervi-Maigret può avere un rifiuto netto o essere al contrario affascinato dalla sua recitazione, lontana dai canoni attuali, lenta rispetto ai ritmi televisivi ai quali siamo stati abituati dalle fiction che ogni giorno rimbalzano sui nostri schermi.
 
La sua forza è tutta all’interno della drammaturgia d’attore, intrisa di un linguaggio particolare. Si può vedere come usa la pipa, simbolo del commissario di Simenon, che per Cervi diviene uno degli ‘strumenti’ che gli serve a rendere unica la sua recitazione.
 
La pipa è un’occasione per rendere, nella naturalezza, più incidentato il fraseggio e la gestualità dell’attore, che così acquistano un tono personalissimo e particolarmente suo.


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La particolare capacità espressiva di Gino Cervi è il tratto caratterizzante della sua recitazione. Il suo sguardo è penetrante ma spesso anche distante, riempie lo schermo e rapisce l’attenzione del pubblico. Il non detto comunica più delle parole.

Il particolare linguaggio della naturalezza di Cervi, così vicino alla vita quotidiana, è esemplificato con efficacia in questa immagine: qui traspare tutta la sua corposa voracità, la capacità di coinvolgere il pubblico fino al punto di fargli quasi sentire il sapore di ciò che sta mangiando.

La pipa è l’oggetto che maggiormente caratterizza Maigret-Cervi nell’immaginario del pubblico. La sua abilità attorale gli permette di sfruttare questo elemento come un impedimento al fluire limpido della parola.

La ‘scuola di teatro’ di un attore brechtiano

E’ uscito in traduzione italiana un importante libro di Ekkehard Schall, attore tedesco allievo e continuatore di Brecht, che indaga con raffinatezza e profondità il pensiero, oggi spesso dimenticato, del maestro. Di Armando Petrini
La pubblicazione in italiano del libro di Schall (La mia scuola di teatro. Seminari, lezioni, dimostrazioni, discussioni, Ubulibri, 2004) è importante per almeno due motivi.
Innanzi tutto perchè consente di conoscere meglio e più da vicino un attore così interessante e raffinato qual è Schall. In secondo luogo perchè dà un nuovo spunto per tornare a parlare di Bertolt Brecht, di cui Schall fu allievo e, per certi versi, continuatore.
Dalla lettura del libro emerge un’idea estremamente articolata e complessa dei concetti di teatro epico e di straniamento, che vengono riconsegnati da Schall alla loro corretta dimensione etica e conflittuale.

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Schall nel gesto ampio e volutamente teatrale della posa del guerriero in Coriolano di Shakespeare/Brecht. Il corpo fa pernio sulla gamba destra e si mostra in equilibrio precario: ciò accresce la tensione drammatica e alla stesso tempo la fissa in un’immagine precisa.

Schall (al centro, seduto) recita l’Arturo Ui di Brecht. La postura del corpo, leggermente irrigidito, e il viso, che appare bloccato ma non privo di mobilità, alludono a una recitazione estremamente complessa e fatta di sapienti spigolosità.

Bertolt Brecht, Berlino 1931


Remondi e Caporossi. Una voce contro il tempo

Al teatro Metastasio di Prato una retrospettiva che ripercorre l’attività trentennale di due artisti della scena. Una mostra e una serie di spettacoli per dare voce a una ricerca ininterrotta, ostinata e appartata, sul linguaggio del teatro. Di Mariapaola Pierini
Nella retrospettiva di Parma Remondi e Caporossi presentano Me e Me, uno spettacolo prezioso e delicato, una riflessione sull’inesorabilità del tempo che scorre.
Sulla scena, due fili rossi si dipanano da un arcolaio e la voce di Remondi denuncia, con rabbia e lievità, il disagio di due artisti di fronte a un tempo che non comprendono e che forse non li può più comprendere.
Non c’è rassegnazione, e contro questo nostro tempo Rem e Cap ostinatamente continuano a ricercare e sperimentare. Come silenziosi artigiani del teatro conservano la memoria del proprio lavoro e trasmettono il loro sapere: e così i loro spettacoli storici degli anni ’70, Sacco e Pozzo, riprendono vita grazie a due giovani attori, Pasquale Scalzi e Armando Sanna.

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Remondi e Caporossi, due volti e due corpi, una coppia che sulla scena ha costruito un teatro di azioni, silenzi e sguardi.

Sotteraneo. Claudio Remondi, Riccardo Caporossi e Noemi Regalia, una riflessione lieve e impietosa sulla solitudine della vita quotidiana.

Il sacco è il protagonista dello spettacolo più celebre della coppia Remondi e Caporossi. Un gioco crudele, e talvolta comico, tra una vittima e un carnefice.


Dogville, un dono nel deserto

Uscito nelle sale nel 2003, Dogville è il primo film di una trilogia dedicata all’America del regista danese Lars von Trier: un’opera sapientemente costruita che indaga il linguaggio cinematografico e mostra il mondo spietato in cui viviamo. Di Maria Pia Petrini
In un tempo scandito dai ritmi e dalle leggi dello spettacolo, il cinema diventa una macchina per non farci pensare, che confeziona eroi non più tragici, falsi e non finti. La buia sala cinematografica invece d’incantarci ci distrae, confondendosi così fra i tanti orpelli costruiti per imprigionarci in una cella dorata.
Lars von Trier apre una crepa in quei muri e ne svela la fragilità e la falsità: spiazzandoci continuamente ci costringe a riflettere e a dubitare del falso oro luccicante. Ci mostra tutto il marcio del nostro mondo, dove la grazia, l’arte e il dono, sembrano non poter più esistere, ma svelandoci la finzione del suo gioco ci porta a guardare meglio e a vedere che hanno solo le ali spezzate e, costretti a terra, possono ancora lottare, seppur con un canto disperato.

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Nessuna illusione di realtà: Dogville non esiste se non sullo schermo. Finta dunque, ma non falsa, al contrario delle tante immagini perfettamente verosimili, e continuamente sotto i nostri occhi, che occultano la finzione per celare la propria falsità.

Grace è costretta alla fatica e alla burla dei bambini ancora ‘innocenti’, ma non alla
berlina degli ‘adulti’ ormai meschini, che per evitare il disvelamento di ogni possibile contraddizione le impongono il pesante marchingegno di collare, catena e ruota, obbligandola così a tener basso pure lo sguardo, insostenibile per chi non vuol
vedere la verità.