Il teatro di narrazione secondo Valeriano Gialli

In occasione del suo ultimo spettacolo, Moby Dick, Valeriano Gialli ha parlato di teatro di narrazione: in questo breve intervento filmato ci spiega che cosa è per lui e come lo pratica. (mvg)
Gialli distingue tra il teatro di narrazione così come viene normalmente inteso, che mette in scena le radici e il vissuto personale dell’attore, da un altro modo di concepire il teatro di narrazione, il suo, che egli stesso definisce “radicale” perchè opera un rovesciamento rispetto alla drammaturgia tradizionale, nel senso che l’attore non recita più un personaggio, ma è simile all’antico aedo che canta una storia.
Il teatro di cui Valeriano Gialli parla è quello epico, che abbandona la centralità della psicologia del personaggio grazie a una recitazione anti-naturalistica in cui, come diceva Brecht, l’attore pone una distanza fra sè e il personaggio e fra sè e le cose che rappresenta. Ciò di cui parla questo attore sono grandi eventi, grandi poemi, non i piccoli e noiosi psicologismi della vita quotidiana.
Un teatro tanto più moderno quanto più fa riferimento al più antico modo di recitare che conosciamo: quello omerico, che è pre-tragico.

The Assassination. L’altra faccia del ‘sogno americano’

È uscito nelle sale cinematografiche italiane, alla fine del mese scorso, l’opera prima del regista americano Niels Mueller: sullo schermo uno straordinario Sean Penn dice il nostro tempo. Di Maria Pia Petrini
Sean Penn frantuma il ‘sogno americano’ mostrandocene i due volti: quello dell’illusione e quello della disperazione. Ci rivela un mondo tanto potente quanto fragile che, come il protagonista Sam Bicke, contiene in sé le proprie contraddizioni. Una pellicola che dice il nostro tempo, un tempo capace di emarginare chi non riesce ad ammaliare, capace di renderci ‘soli, divisi e deboli’. Ma anche un film contro il nostro tempo, perché ha il coraggio di smascherarlo e di invitarci a comprenderlo.

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Il primo piano di Sean Penn (nella foto) ci consente di cogliere nel volto di Sam una stonatura: i tratti del viso ne delineano un’espressione quasi stupida e imbambolata, ma in realtà lo sguardo è lucido anche se intriso di una tristezza profonda.

Ciglia aggrottate da cattivo su un volto che tradisce insicurezza e paura, e un corpo che pare ritrarsi assumendo una posizione fetale, con le mani tra le gambe e la schiena incurvata. Sean Penn (nella foto) non manca mai di mostrare al contempo i due volti di Sam, entrambi troppo sopra le righe eppure altrettanto trattenuti.

Con l’espressione profondamente delusa, imbronciata e triste di chi vede il proprio sogno frantumarsi, Sam Brike (Sean Penn) guarda la foto dei suoi cari. Anche la famiglia è parte del ‘sogno americano’, ma Sam, e come lui tanti altri piccoli grandi uomini, la perde per una Cadillac; come spesso ci viene ricordato nel corso del film: tutto è denaro.


L’attacco all’Università pubblica

E’ in discussione nelle aule parlamentari il Disegno di Legge delega sul riordino dello stato giuridico dei docenti universitari. Un vero e proprio attacco all’Università pubblica intesa come sede dell’alta formazione e della ricerca. Di Armando Petrini

C’è qualcosa di perfettamente coerente nel progetto di riforma dell’Università preparato dal Ministro Moratti che delinea una progressiva subordinazione degli Atenei alla logica della competitività e del mercato.

Coerente non soltanto con la politica complessiva del governo di cui il Ministro fa parte, che non ha perso occasione per ribadire la centralità della logica dell’impresa e delle ragioni dell’individualismo proprietario a discapito della logica della cosa pubblica e di un sentimento dell’individuo sociale.

Ma coerente anche con la serie di sedicenti riforme dell’Università che, da un decennio a questa parte, ne hanno progressivamente mutato la fisionomia e fiaccato la capacità di sedimentare e di veicolare un pensiero critico.

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Incanto e scacco in Giacometti

La Loggetta Lombardesca di Ravenna ospita, fino al 15 febbraio, una mostra dedicata ad Alberto Giacometti: sono esposte su tre piani preziose opere del grande maestro svizzero, dalle sculture del ‘periodo surrealista’ a disegni, litografie, tele, per concludere con un bellissimo Homme qui marche. Di Maria Pia Petrini
Una ricerca che si spinge ben oltre le apparenze; matita, pennello e mani riducono e sottraggono, dischiudendoci un luogo dove ogni nostra certezza si scopre infondata.
 
Una vita spesa a “mordere” la realtà per comprenderla, con l’ossessione di non vedere mai abbastanza, con lo strazio di doversi fermare all’incanto di un solo attimo.
 
Un insegnamento prezioso, che ci svela la bellezza di spendersi per la comprensione, in un mondo che impone, invece, di vendere se stessi.

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Project pour un livre V, 1951. Matita litografica su carta (mm395x295). La capacità di vedere è anche quella di saper togliere: i pochi tratti di matita attraversano e sgretolano l’immagine di un uomo che si volta stupito, per cogliere l’attimo e l’abisso della sua insicurezza.

Femme égorgée, 1932 (1940). Bronzo (cm 23,2×89). Il nostro sguardo resta “disorientato” e “perduto” alla vista di opere come Donna sgozzata, in cui vita e morte sono compresenti in un corpo ancora in tensione nonostante la letale ferita.

Homme qui marche I, 1960. Bronzo (cm 183x26x95,5). Una sottile e fragile figura che avanza protesa e trattenuta nel vuoto: un’esile sagoma abbozzata e senza tempo, che si fa movimento portando con sé l’eco di un passato antico, di un’assenza incolmabile eppure presente e volta al futuro.

Gian Maria Volonté: la volontà di essere attore

Dieci anni fa l’attore moriva sul set di un film: riguardare alla sua arte lucida e raffinata serve a comprendere, oggi più che mai, il discrimine tra la radicalità e il coraggio delle scelte autentiche e la convenienza e superficialità della falsa coscienza. Di Silvia Iracà
Il decennale della morte di Gian Maria Volonté (dicembre 2004) ha fornito l’occasione per tornare a riflettere sull’arte e sulla vita di questo nostro grande attore: televisione e giornali lo hanno ricordato con la consueta oziosità aneddotica che da sempre intrattiene il grande pubblico.
Ma la figura di Gian Maria Volonté fu, e continua a essere, difficile da costringere in una formula, tanto più se pensata ad uso e consumo della frivolezza a cui tanta diffusa spettacolarizzazione ci ha abituati da qualche decennio a questa parte.

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Volonté è Lulù Massa nella Classe operaia va in paradiso di Elio Petri (1972): la forza espressiva dell’attore è il risultato di una raffinata e complessa tecnica recitativa al servizio di uno studio rigoroso e minuzioso sul personaggio da cui sapeva sempre trarne, come nel caso dell’operaio Massa, l’intima verità.

Randone/Militina, Volonté/Lulù Massa nella Classe operaia va in paradiso di Elio Petri (1972). L’attore di tradizione e l’attore della generazione successiva: due poetiche recitative a confronto che entrano in rapporto dialettico. L’espressività sorniona del vecchio Randone, a tratti ironica, a tratti mesta e quella schizofrenica del giovane Volonté giocata sull’accostamento dissonante di accenti striduli e sommessi e gesti enfatici e rattenuti, si combinano con maestria dando luogo a scene di rara intensità.

Il commissario di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Elio Petri, 1970) è un esempio altissimo della cifra grottesca nella recitazione di Volonté. L’attore fa del personaggio un’incarnazione puerile e nevrotica dell’uomo di polizia e in questa parodia svela con angoscia la vanità del potere.


Kontakthof. Pina Bausch e il rimpianto della danza

Pina Bausch ripropone un suo vecchio spettacolo. In scena attori sopra i sessantacinque anni. Un ritorno al passato attraverso un riallestimento che vuole sottrarsi a ogni possibile retorica celebrativa. Di Donatella Orecchia e Mariapaola Pierini

Dal 18 al 21 novembre al Teatro della Corte di Genova va in scena Kontakthof. Mit Damen und Herren ab 65.
Lo spettacolo è quello del 1978, ma chi lo porta in scena è più vecchio di quanto non siano oggi i ballerini della versione originale.
 
Un’immagine sfocata di ciò che è stato, una riedizione in cui i corpi malfermi e imperfetti degli attori si affannano negli inseguimenti amorosi degli impossibili contatti dello spettacolo.
 
Nel ritornare sul proprio passato, la Bausch compie una riflessione amara e insieme lieve sul senso del proprio lavoro. Senza ridonargli brillantezza e ostacolando, attraverso questi corpi segnati dal tempo, ogni possibile compiacimento formale, la coreografa ribadisce e rende ancor più doloroso il suo rimpianto per un’impossibile danza.

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Kontakthof. La versione originale del 1978. I ballerini attori del Wuppertaler Tanztheater avanzano verso la platea in una sequenza di piccoli e precisi movimenti. Nel teatro di Pina Bausch la danza si distilla e si frantuma per lasciare spazio a una gestualità ripetiviva e a corpi crudamente sensuali.

Kontakthof. Il riallestimento. I medesimi costumi e i medesimi movimenti. Tutto però cambia di segno. Pina Bausch ha forzato lo spettacolo verso i suoi limiti estremi, e i corpi malfermi e incerti esprimono tutto il disincanto e la meraviglia di ciò che è stato e non è più.

Cafè Müller. Nello spettacolo del 1978 la Bausch appare in scena. Una figura spettrale dalle lunghe braccia e dal corpo sofferente si aggira come una sonnambula tra i tavoli e le sedie di un caffè.

Il falso e il finto. Sale di Eugenio Barba

Una lettura critica di Sale, spettacolo realizzato da Eugenio Barba nel 2002 ma ripreso in occasione del quarantennale dell’Odin Teatret. Di Armando Petrini

Il quarantennale della fondazione dell’Odin Teatret, la compagnia teatrale diretta da Eugenio Barba,
è l’occasione per una riflessione sul significato di alcune delle scelte espressive del cosiddetto terzo teatro.
Un teatro volutamente distante dal gioco consapevole della finzione e tutto orientato al contrario verso la ricerca di una naturalezza espressiva che, rinunciando al finto, finisce per consegnarsi appunto al falso.
 
Particolarmente significativo in questo senso lo spettacolo Sale, recentemente ripreso dall’Odin.

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L’attrice, Roberta Carreri, esprime in scena uno stile recitativo improntato a una chiarissima forma di naturalezza espressiva.

Uno spettacolo, Sale, che unisce una particolare forma di povertà a una sensibilità estetizzante, finendo per eludere la ricerca di un autentico rigore espressivo.



Cinema Cielo

Danio Manfredini al Teatro dell’Elfo di Milano con Cinema Cielo: la poetica personalissima di un attore-autore tra i più interessanti del panorama italiano in uno spettacolo che a tratti scade nel patetismo. Di Maria Vittoria Gialli
Nel febbraio 2004 è stato riproposto a Milano al Teatro dell’Elfo Cinema Cielo, uno spettacolo di e con Danio Manfredini. Un’occasione per vedere un attore come pochi fedele a se stesso nelle sue ossessioni e passioni artistiche.
Manfredini ci mostra l’interno di un cinema porno effettivamente attivo a Milano negli anni settanta e il mondo che lo anima; in quella platea omosessuali, trans e strane coppie etero cercano se stessi (e un fugace piacere sessuale). Qui Manfredini nei panni del personaggio di Samira, ardente e tormentata transessuale, racconta la sua iniziazione con toni intesi, intrisi di umorismo e disperazione.
Il talento e lo stile personalissimo di Manfredini si stemperano tuttavia in uno spettacolo non del tutto risolto.

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Nella sala di Cinema Cielo gli attori-spettatori guardano verso la platea del teatro: fra i due scorre una pellicola immaginaria di cui si ode soltanto il sonoro. Il pubblico reale si trova così a specchiarsi nel pubblico della finzione, senza che tuttavia sia permessa alcuna immedesimazione: tutto è finto in quella sala, compresi molti dei suoi frequentatori che sono rigidi manichini di plastica.

La Scenografia, le luci, la presenza dei manichini e la recitazione un po’ marionettistica degli attori, tutto nello spettacolo mira a rendere esplicita la finzione scenica. Ma il solo Manfredini ha la forza e l’intensità per fare di tale finzione l’espressione autentica della sua poetica d’attore.

The Passion of the Christ di Mel Gibson

Il 7 di aprile 2004 è uscito anche nelle sale italiane The Passion of the Christ di Mel Gibson: un film che, nel suo fondamentalismo ideologico ed estetico, riflette in pieno l’attuale politica statunitense. Di Chiara Delmastro e Donatella Orecchia
Una pellicola che rappresenta in maniera ideale l’era di Bush e che si può analizzare sostanzialmente sotto tre profili; dapprima quello più strettamente filologico, poi quello dell’estetica cinematografica, i quali rimandano all’aspetto politico-ideologico dell’opera, quello che con più urgenza richiedeva di essere esaminato.
E forse il lato maggiormente inquietante del fenomeno è proprio questo, cioè che a molti, fra pubblico e critica, pare sia sfuggito il rozzo manicheismo che regge tutta la narrazione; sintomatico di un’epoca di crisi strutturale che investe la nostra società come tutto il mondo occidentale.

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Dopo la cruenta flagellazione il corpo di Gesù viene rappresentato come un pezzo di carne pesta e sanguinante a cui non resta più alcuna traccia di identità umana. La componente morbosamente ipernaturalistica del film, che intenderebbe svelare la verità del dolore, non è altro che la sua volgare e spudorata spettacolarizzazione.

Elogio della ribalderia

Dire che mai come oggi il conformismo dilaga è un’affermazione che può sembrare eccessiva se si tiene conto che il conformarsi ai costumi della maggioranza costituisce da sempre uno strumento di difesa nei confronti delle possibili aggressioni da parte degli imprevisti della vita dovuti a fattori storici e sociali e economici o all’orrida casualità che regge i destini naturali dell’uomo. D’altro canto, però, il conformismo rappresenta un forte strumento di dominio per il potere costituito, che gioca proprio sulla paura storica e ontologica insieme, per rafforzare la sua posizione di supremazia e mantenerla.
E’ ovvio che prima con la nascita e poi con il lento ma inesorabile affermarsi dei mezzi di comunicazione di massa (quelli che non a caso con termine anglo-latino vengono definiti i mass media) il potere ha più possibilità di esercitare pressioni sulle coscienze in modo di poterle meglio controllare. I giornali prima, la fotografia e il cinema più tardi e, infine, la radio e la televisione possono sviluppare delle potenzialità, sconosciute all’epoca pre-borghese, nello strutturare un modo sia di pensare che di vivere coerente, e quindi conveniente, all’oligarchia economica che governava un tempo le nazioni e oggi il mondo. Leopardi, con quello sguardo che scava nella contemporaneità così a fondo da scoprirne i germi degli sviluppi futuri – e che è appannaggio solo dei grandissimi -, già nel 1835 bollava il ‘civil gregge’, straordinario, sarcastico e grottesco ossimoro, pronto a credere, e cedere, ai miti imposti ‘da pamphlets, da riviste e da gazzette’: l’evirazione del pensiero e della poesia leopardiana, compiuti da Croce l’anno stesso della marcia su Roma, hanno il sapore acre e allappante del trionfo del conformismo (il ‘civil gregge’, appunto) nei confronti di un poeta che ebbe proprio questo come bersaglio principale della sua lotta etico-estetica. 
Ma la battaglia, che ai tempi di Leopardi era certo disperante anche se non disperata, appare oggi una lotta contro i mulini a vento tanto il conformismo, auspici appunto i mass media, è radicato e dilagato nelle coscienze sia individuali sia di massa. Ma appare e non è. Il cinema (e qui intendiamo il cinema come è stato strutturato dalla società capitalistica e cioè quale veicolo dell’ideologia dal momento che i film critici sono assai pochi e influiscono in modo relativo sulla cultura di un’epoca), la radio, la televisione non soddisfano interessi primari bensì servono a distrarre dagli interessi primari: fanno credere che la libertà esista indipendentemente dai fattori economici e cercano di far dimenticare il fatto che chi non mangia non è libero, tutto teso com’è a soddisfare appunto i bisogni primari dell’esistenza e da questa tensione portato a evadere nell’unico modo possibile che è quello di frequentare impossibili sogni di riscatto. Nell’ottocento questa funzione di velamento della realtà attraverso l’ideologia, venne svolto dal romanzo e il successo, per non fare che un esempio, del Conte di Montecristo chiarisce bene ciò di cui stiamo parlando; nel novecento spettò al cinema, quel cinema di cui abbiamo detto, di svolgere questa funzione prima dell’avvento della televisione: e, infatti, Hollywood venne correttamente definita ‘la fabbrica dei sogni’. 
E dunque, e allora, l’affermazione iniziale a proposito del fatto che mai come oggi il conformismo dilaga e permea di sè le coscienze delle persone è affermazione che ha una sua verità ma che cela nel suo seno una contraddizione: il conformismo, infatti, si sta affermando e si affermerà sempre più fino al punto di rottura che è poi quello costituito dal fatto che gli uomini prima o poi – sotto la spinta di fatti materiali ineluttabili che incideranno fortemente sul piano spirituale – non potranno non rendersi conto del proprio stato di alienazione, di essere altro da sè, di aver consegnato le proprie coscienze al potere che le governa e le manipola a proprio vantaggio in modo brutale. 
Ma il potere queste cose le sa; e le teme. E sapendole e temendole cerca gli antidoti. Il conformismo, l’abbiamo già accennato in apertura di discorso, dà sicurezza, quella sicurezza che viene dalla coscienza di far parte del branco, di essere capiti perchè si parla un linguaggio comune e quindi, nelle alterne vicende della vita, di trovare aiuto dicendosi (non necessariamente essendo) disposti a darne agli altri purchè la pensino e si comportino come noi. Ma le contraddizioni sono lì, sotto gli occhi di tutti: il problema è vederle; e per vederle basta avere uno sguardo limpido che si liberi dai filtri che il potere, attraverso il conformismo, utilizza per distorcere la visione serena delle cose del mondo e dello spirito. Per comprendere questo movimento dialettico risulta fondamentale chiarire come si concepisce il presente. Detto in una formula: vivere il presente è l’unico modo di vivere per il singolo individuo dal momento che il passato è passato (‘Adesso non c’è più’ s’intitola un mirabile monologo di Rino Sudano) e il futuro non esiste (‘Di doman non c’è certezza’ cantava, più di cinque secoli fa, Lorenzo de’ Medici). Ma se questa declinazione del presente costituisce un’ottima regola di vita per l’individuo singolo tesa a contrastare posizioni spiritualistiche che rimandano a un futuro addirittura oltreterreno (le ‘superbe fole’: è ancora una volta, et pour cause Leopardi) la realizzazione di quella felicità che è un istinto naturale e, soprattutto, sociale dell’uomo (nessuna persona, che lo sappia o no, può essere felice se non lo sono tutti gli altri), contemporaneamente però bisogna notare che non si può vivere una vita autentica senza un progetto per il futuro. E questo tanto più vale se si passa dall’individuo singolo all’individuo che si rapporta con gli altri: infatti quando più individui si uniscono in gruppo sociale è ineluttabile e indispensabile che progettino il futuro; è progettando il futuro che sanno e possono agire nel presente: un tenacefilo rosso collega il marxiano ed engelsiano ‘Proletari di tutto il mondo unitevi!’ a ‘Un altro mondo è possibile’. Non si tratta di utopia, anche se quest’ultima può risultare un motore staordinario di trasformazione dell’esistente, ma di una possibilità che chi sa leggere la storia e la società già vede in nuce sotterraneamente attiva nel presente. Ed è proprio questa prospettiva di un’umana palingenesi che il potere borghese, per la sua conservazione, combatte con tutte le forze e, costringendo la persona a pensare come unica realtà vera il proprio presente individuale, spinge l’uomo a credere che la sua felicità dipenda solo da se stesso e che si realizzi non in unione ma contro gli altri uomini; e nel momento in cui quest’uomo, già così dimidiato, identifica la sua idea di felicità nel possesso di beni esclusivamente materiali rinuncia del tutto alla propria umanità. 
Ma l’uomo sulla spinta di eventi economici e sociali, ineluttabilmente inscritti all’interno del meccanismo borghese-capitalistico, sottoposto al capriccio degli eventi naturali governati da quella casualità che abbiamo definito ‘orrida’ (è il ‘cieco dispensator de’ casi’ di Leopardi) e stimolato dalle minoranze irriducibili tende, nei momenti di crisi, a aprirsi a una possibile presa di coscienza della propria alienazione. E’ a questo punto che scatta un antidoto assai utile a neutralizzare le spinte verso una coscienza meno dissociata; e questo antidoto è costituito dall’anticonformismo. L’anticonformismo è la via di sfogo, prevista dal potere, per canalizzare le pulsioni di rifiuto del conformismo. La lingua contemporanea (la lingua è sempre specchio dei rapporti sociali) ha ripescato – secondo il procedimento tipico di un’epoca e una cultura postmoderne che tutto riciclano (ciò che loro è utile, ovviamente) e non inventano più nulla – una locuzione significativa a questo proposito: ‘Essere fuori del coro’ già testimoniata a metà settecento. C’è persino una pubblicità di una bibita d’altri tempi, innovata nel modo più banale e cioè attraverso l’abbreviazione del proprio marchio, che recita: ‘Bevi fuori dal coro’. E’ fin troppo ovvio, e forse anche scontato, osservare che chi berrà quella bibita sarà perfettamente ‘dentro il coro’ dal momento che si sarà conformato alla pubblicità martellante di quel prodotto; ma dovrà sentirsi, pena l’insuccesso della costosissima campagna reclamistica, toccato dall’ala dell’anticonformismo. Un anticonformismo ineluttabilmente guidato e amministrato dal potere economico che segna, con precisione, i confini entro cui si può realizzare lo scarto dalla norma in modo che sia gratificante per l’individuo ma non pericoloso per il potere, anzi che tenda a rafforzare la sua ideologia, il suo background culturale. 
D’altro canto nell’epoca moderna è sempre stato così essendo l’anticonformismo l’altra faccia del conformismo dal momento che il primo si regola sul secondo traendo la sua forza dal perpetrare apparenti scarti dalla norma che servono solamente a dare all’individuo il brivido della trasgressione lasciando però le cose ben salde come stanno. Tutt’altra storia è quella scritta da coloro che trasgredirono veramente alla cultura e alla struttura sociale del proprio tempo: e qui stanno insieme, in una callida iunctura, Leopardi e Brecht, che si vantò con sofferto strazio di aver tradito la propria classe, Wilde e Gramsci, che patirono il carcere e praticamente vi morirono per essere andati ciascuno a proprio modo contro lo spirito del proprio tempo, Kafka, Joyce, Pound, Beckett, che non ebbero paura di essere emarginati pur di perseguire un loro ideale di un’arte di contraddizione, Petrolini, che fu con Gramsci la più grande figura etica del nostro novecento, e ancora pochissimi altri tra cui non dimenticheremo Adorno, che soffrì l’esilio per le sue idee, e Benjamin che arrivò al suicidio per sottrasi alle grinfie dei nazisti che gli davano la caccia. 
Questo elenco di personalità eccezionali costituisce, per noi, l’orgoglio del nostro retroterra. In un’epoca in cui intellettuali al servizio del potere hanno decretato la fine della storia e delle sue grandi narrazioni, provocando effetti devastanti nei giovani privati del proprio presente attraverso la sottrazione del loro passato, rivendichiamo con rabbia e determinazione questo nostro passato proprio per loro, per i giovani – a partire da quelli che collaborano e collaboreranno a questa iniziativa – cui dobbiamo un risarcimento anche se per colpe non nostre. Ovviamente sappiamo benissimo quanto limitate siano le forze confronto allo strapotere del pensiero conformato che ha ben altri mezzi a propria disposizione per espandere i suoi miasmi mefitici e corrompitori. Ma qui ci soccorre Gramsci che, pur nelle sue terribili condizioni di carcerato e di malato, non smise mai di lottare convinto com’era che ciascuno dovesse lavorare all’interno della propria cellula perchè le vicende umane potessero incominciare, almeno lì e da lì, a cambiare. 
E il sottotitolo di questa rivista – che s’intitola ‘L’asino vola’ in quanto filiazione di altra rivista, su carta, dal titolo ‘L’asino di B’ – abbiamo voluto suonasse: ‘Scritti molesti sullo spettacolo e la cultura nel tempo dell’emergenza’. ‘Molesti’, per la cultura di questo nostro tempo, per la doxa; ma si sarebbe potuto scrivere insolenti, impudenti, fastidiosi, corsari, non fosse stato, per quest’ultimo termine, il rimando per noi troppo alto. O ‘ribaldi’. Bene, di una certa ribalderia, e siamo ben consci anche della valenza negativa del termine, ci fregiamo dal momento che per lottare contro lo spirito e la cultura del tempo con forze così scarse e limitate, bisogna pur sentirsi e essere piuttosto gioiosamente – per quanto il tempo e questa sua cultura, che è tanto più torpida, buia e sorda mentre si gabella per ‘leggera’, permettano di prevedere un pensiero e un’azione gioiose – ribaldi.

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