Volver: il ritorno di Almódovar

Il ritorno nelle sale, con meno coraggio ma con un velato e sofferto lirismo, del grande regista spagnolo Di Chiara DelmastroE’ nelle sale italiane dal 19 di maggio Volver, (Tornare) pellicola che segna, appunto, l’atteso ritorno di Pedro Almódovar: un ritorno a vecchie interpreti e vecchi luoghi, che non soddisferà pienamente gli amanti dei suoi film più coraggiosi, ma che, al contempo, svelerà un lato diverso dell’artista, più lirico e sofferto. Fra le attrici, spicca senz’altro una bravissima Penelope Cruz, in tutta la sua sfolgorante bellezza.

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Un giovane Pedro Almodóvar ai tempi dei suoi primi lavori, più marcatamente surreali e grotteschi dell’ultimo Volver.

Un intenso primo piano di Penelope Cruz, attrice che nell’ultimo lavoro del regista spagnolo incarna alla perfezione la poetica peculiare dell’opera.

Due pagine di Brecht su naturalismo e politica

Per il drammaturgo tedesco, morto cinquant’anni fa, il naturalismo non è solamente una forma dell’arte, o della tecnica, dell’attore, ma anche un ben preciso modo di intendere il mondo dal punto di vista politico. Di Gigi Livio
Nel riprendere pagine fondanti il nostro retroterra, ci imbattiamo ineludibilmente in Brecht. La scrittore tedesco presenta infatti una visione del mondo e delle cose dell’arte tipicamente moderne e che della modernità hanno tutta la complessità e la ricchezza. I due brani qui riproposti affrontano il problema del naturalismo, così nella recitazione degli attori come nelle esibizioni di Hitler, letto, come non può non essere, in chiave politica.

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Nei tempi oscuri

Non si dirà: quando il noce si scuoteva nel vento
ma: quando l’imbianchino calpestava i lavoratori.
Non si dirà: quando il bambino faceva saltare il ciottolo piatto sulla rapida del fiume
ma: quando si preparavano le grandi guerre.
Non si dirà: quando la donna entrò nella stanza
ma: quando le grandi potenze si allearono contro i lavoratori.
Tuttavia non si dirà: i tempi erano oscuri
ma: perché i loro poeti hanno taciuto?

(Bertolt Brecht, Poesie 1933 – 1938, in Poesie, Torino, Einaudi, 1992, p.137)



Nel cinquantenario della morte di Brecht. Alcune riflessioni sullo “straniamento”

Lo stranimento è un procedimento attraverso cui l’arte riflette su se stessa e sul mondo. Utilizzato fin dai tempi antichi, è stato teorizzato da Bertolt Brecht per ciò che riguarda la recitazione a partire dal 1936. Di Gigi Livio
Brecht è uno degli scrittori cardine del novecento. La sua opera poetica, la drammatica e la saggistica sono cadute oggi in una specie di oblio cui contribuiscono certamente le sue posizioni politiche.
Come sempre di questi tempi, ci troviamo di fronte a un fatto che coniuga rifiuto ideologico con superficialità. Riprendere l’insegnamento di Brecht oggi vuole anche dire -oltre a portare avanti una lotta più precisa contro l’estetica, imperante nella recitazione, in teatro nel cinema e alla televisione, dell’immedesimazione naturalistica- ritornare, in un momento di crisi del postmoderno, a abbeverarsi alle fonti più fertili della modernità.

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Il comico è di per sé un genere recitativo che favorisce lo straniamento. C’è però attore comico e attore comico: chi limita la sua comicità alla superficie e fa ridere il pubblico ricorrendo a “mezzucci” è assai poco straniato. L’attore comico che, invece, stravolge la realtà attraverso il grottesco non può non frequentare una qualche forma di straniamento. Ettore Petrolini (1884-1936), grandissimo e straordinario teatrante, propone sempre un determinato personaggio come da lui visto con occhio critico, crudele e distaccato. Questo è Gastone, protagonista della “macchietta” omonima, che risulta una feroce satira dell’attore superficiale e estetizzante così di quell’epoca come dei nostri giorni.

La maschera del Nerone petroliniano ci dice immediatamente quale carica parodia l’attore romano sapesse sviluppare nei confronti dei miti della romanità rivissuta in quegli anni in Italia prima nella letteratura, nel teatro e nel cinema e poi, con l’avvento del fascismo, nelle strade e nelle piazze.

Totò nella parte di Pinocchio (a sinistra Anna Magnani). Anche il comico napoletano utilizza lo straniamento in vari modi: la voce, innanzi tutto, ma anche la gestualità così particolare e disarticolata che gli permette di rimanere sempre al di fuori del personaggio che sta portando sulla scena e di proporlo in modo critico.

“La roba” di Sergio Rubini

Un viaggio dell’attore e regista pugliese alle origini dei conflitti che nascono dalla proprietà privata. Di Chiara DelmastroÈ uscito nelle sale italiane, il 24 di febbraio, l’ultimo lavoro di Sergio Rubini, da lui scritto, diretto e interpretato con un acume, una finezza e uno sguardo sottilmente critico decisamente inconsueti nel panorama attuale; il risultato è una pellicola che, utilizzando il genere giallo, lo deforma attraverso un’ottica grottesca, al fine di dipingere un quadro sottilmente critico delle contraddizioni che nascono dalla proprietà privata.

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«Le cose che si posseggono dividono»: da questo assunto di base, Rubini parte con la sua personale analisi circa gli effetti devastanti della proprietà privata che, nel suo ultimo lavoro, è presentata come la causa scatenante di un duro conflitto familiare.

Un primo piano dell’attore e regista Sergio Rubini che, nell’ultimo film da lui diretto e interpretato La terra, non ha esisato a sconciare in modo ripugnante il suo aspetto attarverso il trucco, al fine di rendere esplicita la poetica grottesca alla base della sua opera.

Intorno alla memoria degli attori e a una nuova biografia di Eleonora Duse

La recente traduzione di un’ampia biografia su Eleonora Duse, edita negli Stati Uniti nel 2003, è l’occasione per avviare alcune riflessioni dedicate alla questione relativa alla memoria dell’arte degli attori. Di Donatella Orecchia
In particolare, si tratta di comprendere quanto la scelta del racconto della vita dell’artista (fra carriera e vita privata) sia il riflesso di una visione del teatro e dell’arte propria della società contemporanea che, spostando l’interesse sul privato dell’artista, rimuove o minimizza il significato del suo lavoro stilistico.

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Eleonora Duse in Fedora di Sardou. Di lei scrisse nel 1897 Adelaide Ristori: “si è imposta una fisionomia stramba, bizzarra, eccentrica, soffusa una fisionomia facile a decomporsi e a ricomporsi di un grande pallore […] Ha un certo modo di gestire bizzarro delle braccia lungo la persona stanca e abbattuta, un certo sollevare angoloso del braccio, tenendolo in una quale rigidezza meccanica, un certo sollevare delle mani aperte, con tutte le cinque dita divaricate […] non è affatto un’artista della verità, come gridano certi suoi troppo caldi ammiratori. La Duse si è creata da sé la sua propia maniera, si è creata da sé una specie di convenzionalismo tutto suo per cui è essenzialmente la donna moderna.

Eleonora Duse in La moglie di Claudio di Alexandre Dumas figlio, uno dei suoi più grandi successi del periodo giovanile, esempio emblematico della sua scelta di portare sulla scena personaggi dai tratti negativi, privi di quell’eroismo sublime che aveva caratterizzato il repertorio di tante prime attrici del periodo precedente. Cesarina, la protagonista, è infatti una di quelle sue eroine ‘moderne’, malate di nevrosi, come si diceva allora, o piuttosto di un disagio a vivere nell’incertezza di quei tempi che ella seppe rendere con il suo stile particolare.

Una pagina di Gramsci

La riproposta di una pagina dai Quaderni del carcere di Antonio Gramsci costituisce l’occasione per tornare a parlare della necessità, oggi più forte che mai, di frequentare il pensiero critico della moderntà, e del novecento in particolare, nell’ottica di un rinnovamento della cultura e della società. Di Gigi Livio
Con questo nuovo numero dell’Asino vola iniziamo una pratica che ci appare quanto mai necessaria: la riproposta di alcune pagine dei maestri del pensiero che hanno costruito il nostro retroterra culturale. Antonio Gramsci è certamente tra i più importanti intellettuali della modernità: rileggere le sue pagine oggi significa ritrovare e riaffermare la forza del pensiero critico in una temperie culturale, la nostra, in cui l’ubriacatura relativistica postmoderna vorrebbe azzerare ogni tensione autenticamente oppositiva all’ideologia dominante
Se è vero che il postmoderno inizia forse a mostrare i primi segni di cedimento, è altrettanto vero che il “canto del cigno” del vecchio uomo dipende anche dalla nostra capacità di fare ciascuno la propria parte perché ciò possa avvenire davvero.

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Il problema della verità: dialogo a distanza fra Brecht e Beckett.

100 anni fa, il 13 aprile 1906, nasceva Samuel Beckett
50 anni fa, il 14 agosto 1956, moriva Bertolt Brecht
Di Donatella Orecchia

«Ni-en diceva: Sempre nella vita c’è qualcosa che è in procinto di perire. Ciò che perisce non vuole però semplicemente morire, ma lotta per la propria sopravvivenza, difende la sua causa persa. Nella vita nasce altresì sempre qualche cosa di nuovo. Ma ciò che si desta alla vita non viene semplicemente al mondo: perisce e grida e afferma il proprio diritto a vivere». (B. Brecht, Me-ti. Libro delle svolte)

Guardare a Beckett attraverso le indicazioni di Brecht è un utile esercizio: un dialogo a distanza e un modo per ricollocare entrambi entro la temperie culturale della modernità.

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Bertolt Brecht (1898 – 1956)



Samuel Beckett (1906 – 1989)

Pasolini, Calvino e il ruolo degli intellettuali. Ancora sull’industria culturale.

Si è accesa a fine agosto una polemica su alcuni quotidiani e qualche rivista on-line a proposito dello stato di salute del dibattito culturale italiano. Una discussione interessante, a patto però di abbandonare la contrapposizione sbagliata fra un passato da rimpiangere e un presente da difendere a tutti i costi. Di Armando Petrini
Il dibattito di fine agosto ha finito per riproporre un’alternativa riduttiva. Quella fra chi sostiene che ci sia un passato da rimpiangere, senza però addentrarsi nelle articolazioni e nelle contraddizioni di quel passato. E chi sostiene che il nostro presente non abbia in fondo molto da invidiare a quel passato, senza così cogliere il nodo dello “sfacelo della cultura” che ha caratterizzato in particolare gli anni Ottanta e Novanta. Proviamo qui a impostare su altre basi quella discussione.

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L’eredità del postmoderno secondo Luperini

La fine del postmoderno di Romano Luperini raccoglie alcuni suoi saggi legati tra loro dalla riflessione sulla crisi culturale e sociale in atto, sulla latitanza degli intellettuali e sulla necessità di riaffermare un pensiero critico “forte” Di Silvia Iracà
Nei contributi raccolti nella Fine del postmoderno Luperini esprime con lucidità, in uno stile sobrio e lineare, la sua visione della contemporaneità fornendo non solo elementi di interpretazione della crisi culturale sociale politica e economica in atto, ma suggerimenti per un ripensamento dell’etica nella direzione di una sua effettiva rifondazione.

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Romano Luperini, La fine del postmoderno, Napoli, Guida, 2005, pp. 129

Romano Luperini (1940) è ordinario di Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea dal 1980 e insegna attualmente Letteratura italiana presso l’Università degli studi di Siena. È anche professore aggiunto all’University of Toronto, Canada. Dirige le riviste di teoria e di critica della letteratura “Allegoria” e “Moderna”. Tra le sue pubblicazioni recenti: Breviario di critica (2002); PirandelloStoria di MontaleVerga modernoL’autocoscienza del moderno (2005).

Morganti-Beckett; e un doveroso accenno a Rem & Cap

L’amara sorte del servo Gigi di Claudio Morganti verrà presentato al teatro Milanollo di Savigliano la sera del 28 marzo 2006. Di Gigi Livio
Claudio Morganti, costretto a reinventarsi un testo dopo il diniego da parte degli eredi alla rappresentazione dell’Ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett, scrive e recita L’amara sorte del servo Gigi che è un geniale ricalco del testo beckettiano. Straordinaria la recitazione di Morganti che riesce a coniugare tragico e comico in modo assolutamente originale sfruttando con maestria una voce, un volto e un corpo che sanno tendere al patetico-drammatico e rovesciarlo nello sberleffo irridente, ma senza gioia e con cupa disperazione. È l’arte teatrale dei nostri giorni ben al di là dell’orpellata società dello spettacolo quale si vede anche, in questi giorni, nella Torino olimpica.

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Dopo aver recitato con Carlo Cecchi, Alfonso Santagata (a sinistra) e Claudio Morganti formano una compagnia che immediatamente si distingue, all’interno del teatro cosiddetto di sperimentazione, per una sua cifra particolare che sa coniugare il grottesco al drammatico portando avanti un discorso che intende contraddire il teatro così com’è e così come ci è stato tramandato da una tradizione antica. Ma, nel fare questo, Santagata-Morganti non rinunciano alla storia del grande attore che vive soprattutto in Morganti e nelle sua eccezionale capacità di divenire teatro.



Morganti inizia poi un percorso autonomo: è questa una fotografia di scena di Serata di gala. Omaggio a Pinter, 2003. Vediamo qui la grande capacità dell’attore nell’usare il corpo e il volto in funzione del risultato artistico che intende ottenere. Irridente e irrisore, ma soprattutto di se stesso, nel proporsi in una posa, in un gesto e in un’espressione mimica che forza i limiti del naturalismo in senso grottesco.

È questa una fotografia di scena dell’Amara sorte del servo Gigi: Morganti, truccato da vecchio, ascolta i nastri registrati di un se stesso di molti anni prima. Il volto contratto nell’attenzione, ma anche nella rabbia per ciò che quel sé ora estraneo a sé sta dicendo, esprime in modo profondo e ricco il dramma della vecchiaia in un mondo che quella stagione della vita non sa più considerare in modo stoico, ma, appunto, solo con rabbia e desolazione.