“Ricordo di Memo Benassi”

A cinquant’anni dalla morte di Memo Benassi, Leonardo Bragaglia pubblica il libro Memo BenassiUn grande attore diverso ricordando, attraverso cronache e testimonianze, l’eccezionale statura artistica dell’attore. Di Silvia Iracà
Il riconoscimento dell’effettivo valore dell’arte recitativa di Benassi e la sua memoria hanno subìto lo
stesso processo di rimozione che il pensiero dominante riserva a quei fenomeni storici, culturali e artistici 
la cui complessità rischia di mettere in discussione l’immagine ‘pacificata’ della realtà.

Questo non impedisce, tuttavia, di perseguire la verità e di cercarla tra le pieghe, nei dettagli, per le strade secondarie. Oltre uno ‘spiraglio’ del genere si colloca il libro, pubblicato quest’anno, di Leonardo Bragaglia 
Memo BenassiUn grande attore diverso (Paolo Emilio Persiani Editore, Bologna, pp. 110), il quale dedica 
a Benassi pagine di cronache e testimonianze che ne attestano l’arte eccezionale, tanto grande perché seppe nella ‘diversità’, e cioè nella sua radicale modernità, incidere profondamente sulla storia del nostro teatro.

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“Benassi era bello. Un giovanotto di ventuno anni già aitante e sicuro, di una eleganza un po’ scomposta e accesa, apertamente spavaldo, disinvoltamente e piacevolmente arrogante e con l’ugola sempre aperta e in continuo gorgheggio. Aveva occhi splendidi e capelli neri foltissimi: sembrava nato primo attore giovane. 

Cantava deliziosamente e conosceva bene la musica; veniva nientemeno dal Conservatorio di Parma, dove aveva 
studiato violoncello [ma,] troppo insofferente alla disciplina di un’orchestra, assetato di ogni possibile libertà, trovava assurdo il dover restare tutta la vita nella fossa dei suonatori, all’ombra del palcoscenico. Il riverbero della ribalta lo attraeva” (Lucio Ridenti, Domenico diventa Memo, in Ritratti perduti, Milano, Omnia Editrice, 1960)
Fotogramma dal film perduto Il caso Haller di Blasetti del 1933. Protagonisti: Memo Benassi e Marta Abba. 

“Benassi bacia la Abba […]: si tratta di un bacio intenso, ma finto. Il gusto [dei curatori della rivista on line da cui è tratta l’immagine e che recita Bacio intenso (ma senza lingua)], 
che si possono immaginare giovani o comunque arresi all’esistente (di qui la volgarità), è in qualche modo offeso dal fatto che quel bacio ‘intenso’ non sia più realistico, secondo 
i canoni della cinematografia dei nostri tempi. Ma appunto 
si tratta di un bacio finto tra due grandi attori che sanno bene cosa vuol dire recitare e cioè giocare […] e il gioco, si sa, è sempre comunque finzione. 
Ma la borghesia trionfante, con tutto il suo portato di volgarità, non ama il gioco: la finzione del gioco svela e lei vuole 
velare: è la classica ideologia e cioè la falsa coscienza di quella classe sociale che domina i nostri destini, e fino a un certo punto anche quelli dell’arte, da più di due secoli” 
(Gigi Livio, Il bacio cinematografico, L’Asino di B., anno VII, 
n. 8, Torino, Trauben, 2003)

Qualche appunto su Renato Guttuso

A vent’anni dalla morte, ricordiamo l’artista siciliano proponendo una lettura de La spiaggia. Di Maria Pia Petrini

Trascurando volutamente la polemica che divampava in quegli anni tra figurazione e non figurazione, 
riteniamo comunque, con Pasolini, che, ‘‘il mantenersi fedele [di Guttuso] alla figura sia quasi una 
forma di nevrosi”, e che “il [suo] realismo particolaristico – psicologico, regionale o nazionale – si irrigidisca, 
fuori dalla storia, in una raggricciata emblematicità”. 

Nel 1956 Renato Guttuso dipinge La spiaggia, un’enorme tela in cui ci è mostrata un’umanità al suo limite, 
tesa e sofferente, in cui i corpi urlano senza farsi sentire. Un’apparente quiete pervade la tela, un silenzio che blocca i movimenti, una sofferenza che non riesce a esplodere.

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Autoritratto, 1936, olio su tela, cm 48×60 

‘In questa continua presenza di tutto se stesso, il pittore vivrà la sua vera vita e attuerà la sua libertà, scoperto sul mondo, solidale con gli altri uomini e con essi in colloquio.’
‘… il pittore rischia tutto se stesso, mette in ballo tutto di se stesso, anche la parte più segreta e inconfessabile, e la tela viene coraggiosamente affrontata.’

(Renato Guttuso, Mestiere di pittore: scritti sull’arte e la società, De Donato Editore, Bari, 1972)
La spiaggia, 1955-56, olio su tela, cm 301X452 

Corpi distesi, sdraiati, accovacciati e in piedi riempono l’enorme spazio della tela, una sorta di groviglio 
di figure in cui il tempo pare essersi fermato, costringendo all’immobilità e al silenzio il moto e il 
divenire di quei corpi. Strappati al gesto ‘particolare’, essi divengono espressione di una condizione di 
vita, ‘discorso’ sulla vita.


SalomèémolaS

Da una conversazione con Unoetrino, un’occasione per parlare di un nuovo esempio di teatro di contraddizione, a testimoniare il fatto che l’arte non è intrattenimento e appagamento dei sensi.
Di Maria Vittoria Muzzupapa

In queste poche righe, si cerca di affrontare parte della poetica di Unoetrino analizzando la loro ultima rappresentazione, SalomèémolaS (avvenuta l’8 marzo alla Sala Espace di Torino, in occasione della rassegna “Rigenerazione”). 
In modo particolare abbiamo osservato il linguaggio della scena, il lavoro compiuto sull’attore e su quello che possiamo 
definire testo drammaturgico.

Su queste due componenti, infatti, Unoetrino opera un complesso lavoro di analisi e di interpretazione, discostandosi dal 
teatro spettacolare oggi prevalente. Obiettivo principale non è accattivarsi lo spettatore, ma provocarlo, non solo mostrandogli 
un attore castrato nella sua principale funzione, che è quella di comunicare, ma anche sventrando e reinterpretando un 
celebre testo teatrale (operazione ormai ritenuta impensabile e profana da molti) come la Salomè di Wilde.

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Lettera aperta a un critico teatrale.

La sera dell’8 marzo, all’Espace di Torino, Unoetrino presenta il suo nuovo lavoro dal titolo SaloméèmolaS. Il critico teatrale delle pagine torinesi della “Repubblica” Alfonso Cipolla stende una breve recensione che ci offre lo spunto per una “lettera aperta” in cui si affrontano alcuni temi che a noi paiono fondamentali della critica di un certo tipo di teatro. Di Gigi Livio

Prendendo spunto dalla critica, pubblicata sulle pagine torinesi di “Repubblica”, a proposito dell’ultimo lavoro di Unoetrino, SaloméèmolaS, pubblichiamo qui una “lettera aperta” al critico Alfonso Cipolla. 

In questa lettera vengono affrontati alcuni temi che a noi paiono fondamentali per leggere l’arte nella nostra epoca: un’epoca in cui l’intrattenimento, soprattutto nel mondo dello spettacolo, è divenuto dominante e in cui la stessa parola “arte” non ha più un significato preciso. 

In questa lettera aperta si cerca, al contrario, di restituire a tale termine il suo giusto spessore e il suo significato di contrapposizione non solo all’intrattenimento ma a tutto un mondo che di quello vive e quello pretende.

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SaloméèmolaS (2007)

SaloméèmolaS (2007)

Sogno (2005)

Carlo Cecchi nel Tartufo: la forza antispettacolare di un attore ‘grottesco’.

A partire dal 6 febbraio 2007 è in scena il Tartufo di Molière. Carlo Cecchi, regista e capocomico, qui nei panni di Orgone, dà una grande prova d’attore lontana da ogni compiaciuto cedimento alla logica spettacolare e rigorosamente fedele a una poetica grottesca. Di Francesca Dori
A partire dal 6 febbraio 2007 è in scena il Tartufo di Molière, per la regia di Carlo Cecchi, una produzione Teatro Stabile delle Marche e del Mercadante di Napoli. Sul palcoscenico, accanto a Cecchi-Orgone, Valerio Binasco nella parte di Tartufo, Licia Maglietta, Iaia Forte, Angelica Ippolito. 
L’Asino vola ospita volentieri un intervento di una giovanissima studentessa della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Roma Tor Vergata: al suo primo incontro con la recitazione di Carlo Cecchi, Francesca Dori ci offre una testimonianza molto interessante di quanto un attore, che ha segnato profondamente la storia del teatro italiano degli ultimi trent’anni, riesca ancora, contro il dilagante successo della spettacolarità, ad affermare la forza critica del teatro.

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Orgone, ancora ammaliato dalle false lusinghe di Tartufo, si fa suo complice in quella che, salvo l’esito felice, sarà la sua stessa rovina. In questi momenti di innegabile partecipazione emotiva da parte dei due attori, Cecchi non rinuncia ugualmente a quel certo straniamento, tipico della sua comicità, per il quale la naturalità recitativa viene continuamente alterata. Nei gesti, così come nella voce, una fortissima tensione rende impossibile ogni immediatezza di rapporto con il reale.

Orgone finalmente, grazie alla prova di tentazione della moglie Elmira, ha scoperto le trame del suo vil traditore. Eppure sua madre, l’austera Madama Pernella, ancora non crede all’imbroglio di “quest’angelo di Tartufo che ha sempre il cielo in bocca”. Anche in questo passo amaro della commedia in cui l’ipocrisia dell’impostore è sull’orlo di rovinare una famiglia intera, la tragicità di Cecchi non è mai compiuta. Piuttosto si crea una distanza grottesca dal personaggio che, nel suo straniarsi dalla realtà, può essere più dolorosamente sconcertante di qualsiasi drammatica immedesimazione.

Mélange: a proposito di “tolleranza”. Una pagina di Adorno

Una pagina di Adorno tratta da uno dei suoi libri più importanti, Minima moralia. Un discorso critico sulla falsa tolleranza. Di Armando Petrini
Sempre più spesso il senso comune si fa portatore di una idea astratta di tolleranza, che finisce per rovesciarsi nel suo opposto, in una forma di omologazione.
Adorno mette bene in evidenza questo rischio già alla fine degli anni Quaranta del Novecento, osservando come la falsa tolleranza tipica del capitalismo maturo nasca dal rifiuto dell’autentica tolleranza che potrebbe realizzarsi in una società liberata.

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Lo stato della critica oggi: l’avanguardia. Con un cenno a Cochi e Renato e a Lars von Trier.

La critica attuale, basata per lo più su criteri di gusto non filtrati da solide basi metodologiche, non è più in grado di capire l’avanguardia. Ecco dunque che a questa critica sfuggono fenomeni come quello rappresentato dall’ultima trasmissione televisiva di Cochi e Renato o dall’ultimo film, Il grande capo, di Lars von Trier. Di Gigi Livio È in atto una solo apparente grande confusione della critica; in effetti, i vari recensori, seguendo solo criteri “impressionistici”, e cioè frutto delle loro impressioni, portato tutti avanti, fatte salve le solite eccezioni, un’ideologia conformistica che è l’ideologia delle classi dominanti. Per questo motivo fraintendono tutti quei fenomeni artistici che possono essere ricondotti all’avanguardia che non amano perché permeata da quello spirito “di contraddizione” che la cultura postmoderna ha dichiarato finito. E non possono né comprendere né tantomeno amare quella ribalderia che è sottesa a ogni gesto della vera avanguardia.
L’incomprensione di fenomeni interessanti come quello costituito dalla trasmissione televisiva di Cochi e Renato e decisamente grandi sul piano artistico come l’ultimo film di Lars von Trier, Il grande capo, tutti e due riconducibili, ciascuno a suo modo, al mondo dell’avanguardia, affonda le radici nell’ideologia postmoderna, e dunque antimoderna, di tanta critica.

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Anche il modo di atteggiarsi di Lars von Trier rivela il suo essere “contro” e “diverso”. Quello sguardo è certamente “intrigante”, ma anche “ribaldo”; è decisamente e volutamente “ambiguo” ma anche “perverso”: tutte connotazioni forti di un artista che non intende conformarsi con il modo d’essere della maggioranza degli uomini e che, come tutti gli artisti della modernità, vive a disagio e con sofferenza in un mondo che non comprende e ne vuole più sapere dell’arte. Infatti, nella nostra società, il fato stesso di essere artisti costituisce di per sé una contraddizione proprio per la vocazione dell’arte, quando sia vera arte, a sfuggire alla onnicomprensiva mercificazione.

In questo fotogramma di Dogville si vede bene l’impianto scenico: le case del piccolo paese esistono solamente in pianta e gli attori si muovono “fingendo” i gesti che servono a fruire dello spazio di una casa. Abbiamo così una finzione nella finzione che ottiene un effetto di straniamento per cui lo spettatore non può mai lasciarsi andare al racconto ma è continuamente costretto a ragionare su ciò che succede. E’ questo l’aspetto formale di un film che è tutto volutamente “sfasato”, impostato cioè su una vicenda assai poco credibile ma molto utile per mettere in luce una realtà che, così come è vista dal regista, risulta assai più reale di quanto possa esserla quella di un film a impianto naturalistico.

Il grande capo: il manifesto così come si presenta in Italia.

Cinque difficoltà per chi scrive la verità secondo Bertolt Brecht

Riproponiamo alcuni brani di un prezioso scritto di Brecht del 1935, Cinque difficoltà per chi scrive la verità. Di Armando Petrini
Bertolt Brecht è uno dei pensatori più importanti del Novecento e uno dei più significativi della modernità. Si capisce perciò l’attenzione che questa rivista ha dedicato e continua a dedicare alla sua opera. Riproponiamo qui alcune pagine di un suo scritto di straordinaria attualità, in cui l’esercizio dialettico si presenta come il cuore pulsante di un modo ricco e complesso di guardare alla realtà.

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Cochi e Renato

Uno spettacolo interessante e in controtendenza rispetto al solito clima televisivo. Cochi e Renato tornano con la loro comicità leggera e graffiante al tempo stesso. Di Gigi Livio
Cochi e Renato, riunitisi dopo una lunga separazione, tornano in televisione proponendo uno spettacolo di varietà tutto loro. Stiamo lavorando per noi si basa su una comicità solo apparentemente leggera ma che, al contrario, tocca temi profondi e, soprattutto, si contrappone a tanta comicità televisiva estremamente greve e piena di banalità. E’ anche questo un sintomo del ritorno del moderno, nella sue varie forme, che questa rivista cerca di indagare e mettere in luce con la chiara coscienza di star conducendo una battaglia che è certamente estetica ma che conosce anche ben precisi risvolti etici.

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La fotografia mostra un gesto tipico della coppia di attori. E’ un movimento della gamba stilizzato ed essenziale che intende parodiare i vari movimenti smodati dei comici e degli attori di varietà in genere, che usano il corpo in modo scomposto ed eccessivo. Questo modo di atteggiarsi, giustamente famoso, mostra in modo chiaro la poetica recitativa di Cochi e Renato che, attraverso la leggerezza, giungono a contrapporsi in modo netto e a contraddire tutto un mondo dello spettacolo.

Anche questa seconda fotografia mette in luce con una certa chiarezza un altro elemento della comicità particolare dei due attori. Renato, in piedi, detta qualcosa allo scolaro Cochi, con fare molto convinto, prendendosi decisamene sul serio. Altrettanto concentrato è Cochi, anche lui seriosissimo. Anche questa risulta una parodia di chi non sa esercitare il pensiero critico che, ovviamente, comprende l’autocritica come momento primario e fondante.

Francis Bacon – tra azzardo e senso critico

Qualche appunto sul grande artista, intrecciando l’opera pittorica alle riflessioni sull’arte – e sulla vita – tratte dalle interviste che Francis Bacon concede a David Sylvester.
Di Maria Pia Petrini

Muovendosi tra «azzardo» e «senso critico», Francis Bacon ci restituisce immagini di una realtà violenta e ambigua, senza ricorrere né all’illustrazione né alla narrazione.

Per quanto egli stesso affermi che l’artista oggi sia fuori da ogni tradizione, di quest’ultima le sue opere mantengono lo spirito più profondo, pur stravolgendone il linguaggio. È infatti ora necessario abbreviare, ridurre e deformare per «reinventare il realismo, perché una cosa come il realismo naturale in pittura non esiste più».

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Head VI, 1949
olio su tela, 93,2X76,5 cm
“Si può dire che un grido sia un’immagine d’orrore, ma io ero interessato in realtà a dipingere il grido più che l’orrore. Penso che, se avessi davvero riflettuto su ciò che induce una persona a gridare, il grido che tentavo di dipingere ne sarebbe risultato molto più efficace. In un senso, avrei dovuto essere più consapevole dell’orrore da cui nasce il grido. Le mie immagini erano in realtà troppo astratte.”
Più avanti sempre Bacon afferma: “ho sempre voluto dipingere il sorriso, senza mai riuscirci”.



Triptych – Studies of human body, 1970
olio su tela, trittico, ciascun pannello 198X147,5 cm
“[le interruzioni verticali tra le tele di un trittico] le isolano l’una dall’altra. E interrompono la storia fra l’una e l’altra. Il fatto che le figure siano dipinte su tre tele diverse aiuta a evitare la narrazzione. Certo, molti dei più grandi dipinti mai realizzati includono una serie di figure su una stessa tela. […] Ma, data la fase terribilmente complessa che attraversiamo oggi, la storia che viene narrata già tra una figura e l’altra annulla la possibilità di ciò che si può fare con la pittura in sé. E questa è una grandissima difficoltà. Ma prima o poi arriverà qualcuno capace di mettere più figure su una tela”.
Figure with meat, 1954
olio su tela, 129,9X117 cm
“Quando si entra in una macelleria e si nota quanto la carne possa essere bella e poi ci si riflette sopra, si può arrivare a pensare a tutto l’orrore della vita: di come una cosa viva a spese di un’altra. Pensi, per esempio a tutte quelle stupidaggini che si dicono sulle corride. La gente mangia la carne e poi però condanna le corride; vanno a lamentarsi delle corride coperti di pellicce e con uccellini nei capelli”.