Carlo Cecchi nel Tartufo: la forza antispettacolare di un attore ‘grottesco’.

A partire dal 6 febbraio 2007 è in scena il Tartufo di Molière. Carlo Cecchi, regista e capocomico, qui nei panni di Orgone, dà una grande prova d’attore lontana da ogni compiaciuto cedimento alla logica spettacolare e rigorosamente fedele a una poetica grottesca. Di Francesca Dori
A partire dal 6 febbraio 2007 è in scena il Tartufo di Molière, per la regia di Carlo Cecchi, una produzione Teatro Stabile delle Marche e del Mercadante di Napoli. Sul palcoscenico, accanto a Cecchi-Orgone, Valerio Binasco nella parte di Tartufo, Licia Maglietta, Iaia Forte, Angelica Ippolito. 
L’Asino vola ospita volentieri un intervento di una giovanissima studentessa della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Roma Tor Vergata: al suo primo incontro con la recitazione di Carlo Cecchi, Francesca Dori ci offre una testimonianza molto interessante di quanto un attore, che ha segnato profondamente la storia del teatro italiano degli ultimi trent’anni, riesca ancora, contro il dilagante successo della spettacolarità, ad affermare la forza critica del teatro.

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Orgone, ancora ammaliato dalle false lusinghe di Tartufo, si fa suo complice in quella che, salvo l’esito felice, sarà la sua stessa rovina. In questi momenti di innegabile partecipazione emotiva da parte dei due attori, Cecchi non rinuncia ugualmente a quel certo straniamento, tipico della sua comicità, per il quale la naturalità recitativa viene continuamente alterata. Nei gesti, così come nella voce, una fortissima tensione rende impossibile ogni immediatezza di rapporto con il reale.

Orgone finalmente, grazie alla prova di tentazione della moglie Elmira, ha scoperto le trame del suo vil traditore. Eppure sua madre, l’austera Madama Pernella, ancora non crede all’imbroglio di “quest’angelo di Tartufo che ha sempre il cielo in bocca”. Anche in questo passo amaro della commedia in cui l’ipocrisia dell’impostore è sull’orlo di rovinare una famiglia intera, la tragicità di Cecchi non è mai compiuta. Piuttosto si crea una distanza grottesca dal personaggio che, nel suo straniarsi dalla realtà, può essere più dolorosamente sconcertante di qualsiasi drammatica immedesimazione.

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