Qualche appunto su Renato Guttuso

A vent’anni dalla morte, ricordiamo l’artista siciliano proponendo una lettura de La spiaggia. Di Maria Pia Petrini

Trascurando volutamente la polemica che divampava in quegli anni tra figurazione e non figurazione, 
riteniamo comunque, con Pasolini, che, ‘‘il mantenersi fedele [di Guttuso] alla figura sia quasi una 
forma di nevrosi”, e che “il [suo] realismo particolaristico – psicologico, regionale o nazionale – si irrigidisca, 
fuori dalla storia, in una raggricciata emblematicità”. 

Nel 1956 Renato Guttuso dipinge La spiaggia, un’enorme tela in cui ci è mostrata un’umanità al suo limite, 
tesa e sofferente, in cui i corpi urlano senza farsi sentire. Un’apparente quiete pervade la tela, un silenzio che blocca i movimenti, una sofferenza che non riesce a esplodere.

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Autoritratto, 1936, olio su tela, cm 48×60 

‘In questa continua presenza di tutto se stesso, il pittore vivrà la sua vera vita e attuerà la sua libertà, scoperto sul mondo, solidale con gli altri uomini e con essi in colloquio.’
‘… il pittore rischia tutto se stesso, mette in ballo tutto di se stesso, anche la parte più segreta e inconfessabile, e la tela viene coraggiosamente affrontata.’

(Renato Guttuso, Mestiere di pittore: scritti sull’arte e la società, De Donato Editore, Bari, 1972)
La spiaggia, 1955-56, olio su tela, cm 301X452 

Corpi distesi, sdraiati, accovacciati e in piedi riempono l’enorme spazio della tela, una sorta di groviglio 
di figure in cui il tempo pare essersi fermato, costringendo all’immobilità e al silenzio il moto e il 
divenire di quei corpi. Strappati al gesto ‘particolare’, essi divengono espressione di una condizione di 
vita, ‘discorso’ sulla vita.


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