Rem & Cap: Orchestra in sciopero Il silenzio dell’ascolto, il silenzio di parole negate

Orchestra in sciopero di Claudio Remondi e Riccardo Caporossi al Piccolo Jovinelli di Roma: per tre settimane, nel mese di novembre 2008, la storica coppia è stata in scena con uno spettacolo che recupera il repertorio delle canzonette e filastrocche di un’intera vita teatrale.
L’Asino vola accoglie con piacere la riflessione di due studentesse dell’Università di Roma Tor Vergata. Di Francesca Dori e Sara Scaramella
Claudio Remondi e Riccardo Caporossi al Piccolo Jovinelli di Roma in Orchestra in sciopero. La storica coppia propone in quest’ultimo lavoro il repertorio delle canzonette che, composte in trent’anni di vita teatrale e presenti negli spettacoli del passato, si fanno qui memoria di un lungo percorso artistico. Un singolare modo di esprimere una sapienza teatrale che sa guardare la propria storia e la contemporaneità, l’una con leggero e parodico distacco, l’altra con la tensione di chi continua a prendere posizione e chiede al pubblico un’assunzione di responsabilità.
Un’operetta composta di stornelli spezzati per assoli: un concertato di voci e di silenzi, di suoni e gesti muti, di memorie antiche e di denunce attuali; un “combattimento” autentico fra chi lì sul palcoscenico (ma anche per la strada) “muore tutti i giorni” e chi è lì per ascoltare.

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Riccardo Caporossi in Orchestra in Sciopero mentre duetta con la voce registrata del compagno d’arte Remondi, assente in scena ma le cui parole, al ritmo serrato di una filastrocca, scorrono proiettate su una fila di spartiti bianchi allineati. I loro linguaggi sono diversi, ma la tensione con cui le loro voci si cercano lascia pensare che un incontro sia ancora possibile. Ma è necessario ascoltarsi.

Ettore Petrolini in un’immagine che lo ritrae nei panni di Gastone, l’indimenticabile «satira efferata al bell’attore fotogenico, affranto, compunto, pallido di cipria e di vizi, vuoto, senza orrore di se stesso»; una parodia, in senso lato, della tragica imbecillità del potere e della sua vanità. L’imbecillità del “fine dicitore”, del “cantante aristocratico”, di colui che, al di là dell’inutile cicalare, non si accorge che è finita. «È irrimediabilmente finita».


Cecchi: Peyman e Sik-Sik

Il 16 novembre 2008, al teatro Gobetti di Torino, Carlo Cecchi recita, con la sua compagnia, 
Claus Peymann compra un paio di pantaloni e viene a mangiare con me di Thomas Bernhard e Sik-Sik, l’artefice magico di Eduardo De Filippo. Mettendo in relazione ciò che Cecchi disse sul “primo periodo” dell’attività di Carmelo Bene in un convegno del 1994 e ciò che realizza sul palcoscenico, si traggono delle ipotesi di lavoro critico sul suo Teatro. Di Gigi Livio
Cecchi recita e realizza opere sceniche, da sempre, in un modo del tutto particolare che è solamente suo,
a iniziare da un tipo di espressione vocale che, unendo il toscano al napoletano, mostra sulla scena, 
mentre recita, l’impossibilità di recitare oggi. E’ un concetto che egli esprime fin dal 1994 a proposito del 
teatro di Carmelo Bene degli anni sessanta. Ma egli, parlando di CB, parla di sé e del suo operare artistico. 
Partendo da questa osservazione risulta possibile avanzare ipotesi critiche che permettano di leggere ciò
che accade sotto i nostri occhi di spettatori attoniti e presi dal “piacere” del teatro attribuendo così, in 
quest’epoca dove l’arte si è assegnata il compito di contraddire l’intrattenimento non a caso gabellato per 
“arte”, Carlo Cecchi alla schiera ormai ridotta al minimo di quegli artisti che ancora possono essere definiti
quali “artisti critici”.

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Leo De Beradinis e Perla Peragallo: teatro come jam session

In occasione della recente scomparsa di Leo De Berardinis, ripubblichiamo una parte del saggio di Donatella Orecchia, Gli anni sessanta e settanta e la regia della crisi. Gli esempi di Quartucci e Tatò, Bene, De Berardinis e Peragallo. Di Donatella Orecchia

I percorsi artistici di Carmelo Bene, di Carlo Quartucci e Carla Tatò, di Leo De Berardinis e Perla Peragallo
sono tre esempi di una ricerca che, lontana dall’assecondare un linguaggio della scena e della regia
allora egemoni, mise al proprio centro l’antagonismo, la proposta paradossale di un’alternativa radicale
rispetto alla società e al linguaggio artistico contemporaneo.

La storia di Leo De Berardinis è anche la storia di questo confronto con l’idea e la pratica della regia,
intesa sia come inevitabile terreno di confronto e riflessione con la scena contemporanea, sia come luogo
di ‘sperimentazione’ artistica d’attore nel suo rapporto con l’intero complesso spettacolare.

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Leo De Berardinis e Perla Peragallo, Sudd (1974)

Leo De Berardinis, ’O Zappatore (1972)

Leo De Berardinis: The connection

In ricordo di Leo ripropongo un mio articolo del 1983, ripubblicato in volume l’anno dopo. Leo compare qui come uno di quei teatranti, e furono assai pochi, che affrontarono, nel momento della polemica sul (e all’interno del) teatro di contraddizione alla svolta degli anni ottanta, il problema dell’avanguardia nel modo più rigoroso unito a un’espressione artistica eccezionale.
Di Gigi Livio

Lo scritto che qui si ristampa è di venticinque anni fa e Leo compare come protagonista d’eccezione del
teatro di contraddizione e cioè del teatro dei nostri tempi. In The connection troviamo proprio tutto: il grottesco
del sublime, l’utopica tensione verso un “fare” che non sia immediatamente compromesso col mercato
(in questo periodo Carmelo Bene perseguiva ormai da tempo l’erezione di un monumento a se stesso sotto
forma neoclassica), il riappropriarsi della morte come unica possibilità di vivere una vita che, attraverso
la coscienza della propria inautenticità, recuperi dalla palude in cui siamo immersi l’unica forma di (residua e miserabilmente residuale) autenticità. Il tutto reso in un linguaggio di scena mirabile tanto per eccezionalità
attorica quanto per formidabile elaborazione registica; là dove vibra ancora il riflesso profondo del lungo
sodalizio con Perla.

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Leo De Berardinis, The Connection (1983)



Leo De Berardinis, The Connection (1983)

L’attore-autore nel Novecento secondo Anna Barsotti

È uscito per i tipi di Bulzoni un importante e stimolante libro di Anna Barsotti dedicato a Eduardo, Fo e l’attore-autore del Novecento. Di Armando Petrini
Anna Barsotti affronta in questo volume almeno tre nodi fondamentali della storia della scena 
del Novecento. Innanzi tutto la crucialissima linea dell’attore-autore, qui esemplificata in Eduardo 
De Filippo e Dario Fo. In secondo luogo la crisi della forma dialogica e della conseguente 
centralità del monologo. Infine l’intreccio fra registro tragico e registro comico presente nelle punte 
più alte dell’arte teatrale – e non solo teatrale – novecentesca.

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Il teatro accade e non c’è replica

Lo Studio per Woyzeck di Claudio Morganti. Di Mariapaola Pierini

Non sono molte le occasioni per vedere il teatro di Claudio Morganti. Il suo è un percorso appartato.
Morganti ha scelto da tempo di stare a lato, portando avanti con ostinazione e rigore una pratica teatrale 
che sfugge a compartimentazioni e a logiche mercantili e spettacolari. 

Quando il suo lavoro arriva sul palcoscenico, come è accaduto di recente in occasione delle cinque rappresentazioni dello studio per Woyzeck al Teatro della Tosse di Genova, le ragioni del difficile rapporto 
tra Morganti e il sistema teatrale sembrano diventare immediatamente più chiare. Il lavoro condotto con 
i giovani attori della nuova compagnia della Tosse non approda infatti a uno spettacolo, perché così non
potrebbe essere. 

Non si esce da teatro appagati, sazi, bensì affamati. Privo di pienezza pacificante, di forme chiuse, fissate e ripetibili, il teatro di Morganti fugge dalla logica della replica, poiché è un teatro che accade – come lui 
stesso ha più volte sottolineato -, dove salire sul palcoscenico non significa mostrare l’esito, la produzione
quanto portare alla luce un pezzo di un percorso che si presuppone infinito, imprevisto e imprevedibile.

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Sara Nomellini e Lupo Misrachi in Studio per Woyzeck di Claudio Morganti.

Claudio Morganti e la compagnia del Teatro della Tosse.



Ascolta, amico di Louis Jouvet: una riflessione sull’arte dell’attore

Esce in una nuova traduzione italiana uno scritto di Louis Jouvet, figura centrale nel teatro del primo Novecento europeo: poche ma dense pagine sull’arte e sul mestiere dell’attore che richiamano gli artisti alla “coscienza professionale” del proprio fare, alla responsabilità delle proprie scelte concrete, alla necessità etica di una ricerca continua, pur nell’inquietudine e nella precarietà delle certezze che caratterizza i suoi e i nostri tempi. Di Donatella Orecchia

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Primo piano di Louis Jouvet in Knock del 1951. La truccatura minima, ma evidente, sugli occhi e sulle labbra intende accentuare l’espressività di un volto dai tratti già marcati e fortemente caratterizzati per natura, facendone, in teatro più che in cinema, una maschera in cui austerità e humor nero si coniugano con la nettezza dei dettagli e una lieve ma persistente caricatura (fotografia di Robert Cohen).

Locandina di Knock, ovvero il trionfo della medicina di Jules Romains, al teatro Champs-Élysées. Louis Jouvet era in questo caso non solo l’attore protagonista, ma anche il regista.

I silenzi di Riccardo Caporossi.

Note a margine del laboratorio svoltosi a Biella nel 
giugno scorso.
 Di Maria Vittoria Muzzupapa
Alle volte sintesi, silenzio, immobilità si dimostrano molto più efficaci e (tanto più) comunicativi 
di qualunque gesto o parola. In un momento in cui dominano chiasso, colori e rumori e ci si ritiene 
soddisfatti solo se abbacinati e avvolti da un’iperstimolazione sensoriale, spicca la figura di un 
teatrante silenzioso.
Claudio Remondi e Riccardo Caporossi lavorano insieme ed entrambi si distinguono per la grande 
sobrietà, sia personale che artistica. Infatti in tutte le forme d’arte in cui Caporossi si esprime, disegni,
recitazione, creazione di scenografie, il filo conduttore è l’essenzialità.

Questa caratteristica non è segno di banalità. Dimostra, al contrario, come l’attenzione possa essere
suscitata senza ricorrere a gesti clamorosi; come il silenzio possa indurre alla riflessione; soprattutto 
come il caos e il disordine in cui viviamo possano portare a un tipo di azione 
(nel senso etimologico del termine) di segno totalmente opposto.

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Riccardo Caporossi. Aleppe

Riccardo Caporossi. Aleppe

Riccardo Caporossi. Aleppe

È morta Perla

Perla Peragallo è morta a Roma il 20 agosto. Attrice eccezionale del teatro di contraddizione si era ritirata dalle scene nel 1981. Di Gigi Livio

La morte di Perla Peragallo, avvenuta a Roma il 20 agosto, non toglie ormai più nulla al teatro che 
ormai la meravigliosa attrice aveva abbandonato nel 1981 a solo 38 anni. E lo aveva abbandonato 
perché riteneva di non avere più nulla da dire e di essere entrata in una fase di ripetitività e “finzione”. 
Infatti Perla in scena non fingeva avendo saputo portare l’arte dell’attore al suo apice che coincide 
con la sua fine nella totale identificazione arte-vita.


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Perla Peragallo in Assoli (1977). 
In questo splendido “primo piano” vediamo Perla, bellissima, con il volto deformato dalla rabbia e dalla sofferenza urlare l’impossibilità del teatro in un mondo che non vuole più saperne dell’arte.



Leo De Berardinis e Perla Peragallo in Avita murì (1978). 
Qui Leo è uno scalcagnato Pulcinella e Perla una Colombina da strapazzo che si aiuta a camminare con stampelle inutili perché poi cammina benissimo. 
I loro battibecchi e le loro contrapposizioni risultano del tutto inutili in un’atmosfera sfatta e evanescente che evoca in modo comico-tragico e infine straziato la fine del teatro mentre la locandina recitava: “Spettacolo comico in due tempi molto tragico”.

“Ricordo di Memo Benassi”

A cinquant’anni dalla morte di Memo Benassi, Leonardo Bragaglia pubblica il libro Memo BenassiUn grande attore diverso ricordando, attraverso cronache e testimonianze, l’eccezionale statura artistica dell’attore. Di Silvia Iracà
Il riconoscimento dell’effettivo valore dell’arte recitativa di Benassi e la sua memoria hanno subìto lo
stesso processo di rimozione che il pensiero dominante riserva a quei fenomeni storici, culturali e artistici 
la cui complessità rischia di mettere in discussione l’immagine ‘pacificata’ della realtà.

Questo non impedisce, tuttavia, di perseguire la verità e di cercarla tra le pieghe, nei dettagli, per le strade secondarie. Oltre uno ‘spiraglio’ del genere si colloca il libro, pubblicato quest’anno, di Leonardo Bragaglia 
Memo BenassiUn grande attore diverso (Paolo Emilio Persiani Editore, Bologna, pp. 110), il quale dedica 
a Benassi pagine di cronache e testimonianze che ne attestano l’arte eccezionale, tanto grande perché seppe nella ‘diversità’, e cioè nella sua radicale modernità, incidere profondamente sulla storia del nostro teatro.

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“Benassi era bello. Un giovanotto di ventuno anni già aitante e sicuro, di una eleganza un po’ scomposta e accesa, apertamente spavaldo, disinvoltamente e piacevolmente arrogante e con l’ugola sempre aperta e in continuo gorgheggio. Aveva occhi splendidi e capelli neri foltissimi: sembrava nato primo attore giovane. 

Cantava deliziosamente e conosceva bene la musica; veniva nientemeno dal Conservatorio di Parma, dove aveva 
studiato violoncello [ma,] troppo insofferente alla disciplina di un’orchestra, assetato di ogni possibile libertà, trovava assurdo il dover restare tutta la vita nella fossa dei suonatori, all’ombra del palcoscenico. Il riverbero della ribalta lo attraeva” (Lucio Ridenti, Domenico diventa Memo, in Ritratti perduti, Milano, Omnia Editrice, 1960)
Fotogramma dal film perduto Il caso Haller di Blasetti del 1933. Protagonisti: Memo Benassi e Marta Abba. 

“Benassi bacia la Abba […]: si tratta di un bacio intenso, ma finto. Il gusto [dei curatori della rivista on line da cui è tratta l’immagine e che recita Bacio intenso (ma senza lingua)], 
che si possono immaginare giovani o comunque arresi all’esistente (di qui la volgarità), è in qualche modo offeso dal fatto che quel bacio ‘intenso’ non sia più realistico, secondo 
i canoni della cinematografia dei nostri tempi. Ma appunto 
si tratta di un bacio finto tra due grandi attori che sanno bene cosa vuol dire recitare e cioè giocare […] e il gioco, si sa, è sempre comunque finzione. 
Ma la borghesia trionfante, con tutto il suo portato di volgarità, non ama il gioco: la finzione del gioco svela e lei vuole 
velare: è la classica ideologia e cioè la falsa coscienza di quella classe sociale che domina i nostri destini, e fino a un certo punto anche quelli dell’arte, da più di due secoli” 
(Gigi Livio, Il bacio cinematografico, L’Asino di B., anno VII, 
n. 8, Torino, Trauben, 2003)