La poesia in teatro

Questo scritto intende articolare meglio ciò che in un articolo del luglio 2009, Né più né meno, proprio così, era appena accennato: il problema della poesia in teatro appannaggio tipico e estremamente significativo del teatro di contraddizione. Di Gigi Livio
La poesia nel senso maiuscolo si oppone al poetico e alla prosa contemporaneamente. Ragionare su questi punti – qui,
data la brevità dello scritto, proposti solo come spunti – è fondamentale per capire la ricca significatività del teatro
di contraddizione. Partendo, questa volta, da una cosa più che bella di Riccardo Caporossi.

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Quartucci/Tatò, les neiges d’antan e una breve riflessione su Benjamin

Alcune considerazioni sul lavoro che Carlo Quartucci e Carla Tatò porteranno avanti, tra Roma e Torino, nei prossimi due anni invitano a una riflessione sul teatro di contraddizione e sugli strumenti critici atti a indagarlo. Di Gigi Livio
Nel rimpianto di Villon per le nevi d’una volta non c’è solo l’angoscia per il tempo che passa, ma anche
la nostalgia di una genuinità ormai perduta. Il teatro di contraddizione conosceva proprio questo sentimento
della genuinità; oggi spetta a pochi continuare su quella strada. Ma per comprendere ciò che succede 
è necessario affinare gli strumenti critici, anche sulla scorta di una meditazione su certe posizioni di Benjamin
oggi non più frequentabili senza dubbi e conseguenti messe a punto.

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Senza alcuna intenzione di affrontare qui un problema estremamente complesso: basterà notare che l’affermazione di Mc Luhan “il mezzo è il messaggio” si è rivelata piuttosto precisa e pregnante nella nostra epoca assai più di quanto sembrasse essere al momento della sua formulazione, quarant’anni e più fa . Il guaio è semmai che altre espressioni spettacolari, come il teatro, un tempo sottratte alla tirannia dello strettamente ripetitivo e della resa incondizionata al mercato, oggi sembrano altrettanti “mezzi” tesi soltanto a dare al pubblico ciò che il pubblico sa già di volere ricevere. “Non più messaggi ma massaggi” non è un motto di Mc Luhan -anche se il titolo originale di un suo libro è proprio The medium is the massage– ma di Bartolucci, profeta dell’applicazione del pensiero postmoderno in teatro. L’impostazione che da qualche tempo, anche se l’ispirazione è antica e risale a Camion, Quartucci/Tatò hanno impresso alla loro operazione artistica e cioè il perseguire “l’edificio scenico” e dunque “uno spazio di progetto aperto, uno spazio di ricerca continuo. […] uno spazio drammatizzato, da drammatizzare, uno spazio per l’estensione di un comportamento drammaturgico: un continuum drammaturgico” intende proprio far esplodere lo spazio tradizionale del teatro come medium, come spazio deputato e certe cose che sono ormai solo quelle e non altre. Pur non escludendo momenti dell’azione scenica in teatri veri e propri, la drammatizzazione di qualsiasi spazio in cui si dipana il loro operare (qui un corridoio del piano sotterraneo di Palazzo nuovo a Torino e un’aula dello stesso edificio) è studiata per stimolare gli studenti a partecipare alla loro “immagine sognata, sognante e drammatizzata”.

Senza alcuna intenzione di affrontare qui un problema estremamente complesso: basterà notare che l’affermazione di Mc Luhan “il mezzo è il messaggio” si è rivelata piuttosto precisa e pregnante nella nostra epoca assai più di quanto sembrasse essere al momento della sua formulazione, quarant’anni e più fa . Il guaio è semmai che altre espressioni spettacolari, come il teatro, un tempo sottratte alla tirannia dello strettamente ripetitivo e della resa incondizionata al mercato, oggi sembrano altrettanti “mezzi” tesi soltanto a dare al pubblico ciò che il pubblico sa già di volere ricevere. “Non più messaggi ma massaggi” non è un motto di Mc Luhan -anche se il titolo originale di un suo libro è proprio The medium is the massage– ma di Bartolucci, profeta dell’applicazione del pensiero postmoderno in teatro. L’impostazione che da qualche tempo, anche se l’ispirazione è antica e risale a Camion, Quartucci/Tatò hanno impresso alla loro operazione artistica e cioè il perseguire “l’edificio scenico” e dunque “uno spazio di progetto aperto, uno spazio di ricerca continuo. […] uno spazio drammatizzato, da drammatizzare, uno spazio per l’estensione di un comportamento drammaturgico: un continuum drammaturgico” intende proprio far esplodere lo spazio tradizionale del teatro come medium, come spazio deputato e certe cose che sono ormai solo quelle e non altre. Pur non escludendo momenti dell’azione scenica in teatri veri e propri, la drammatizzazione di qualsiasi spazio in cui si dipana il loro operare (qui un corridoio del piano sotterraneo di Palazzo nuovo a Torino e un’aula dello stesso edificio) è studiata per stimolare gli studenti a partecipare alla loro “immagine sognata, sognante e drammatizzata”.

Concerti di massa e critica “debole”

Una breve riflessione sul debolismo della critica a partire da una considerazione sul carattere falsamente artistico dei prodotti musicali attuali. Di Letizia Gatti
I concerti-evento svoltisi in occasione di grandi manifestazioni di massa come il No B day e il concerto del Primo Maggio a Roma, solo per citare i casi italiani più recenti, sono esempi paradigmatici di come critica e pubblico attribuiscano alle opere di alcuni autori un presunto e inesistente valore artistico, segnale allarmante di una critica assente a se stessa, incapace di distinguere un’opera d’arte da un’opera in cui contraddizione e trasformazione sono invece solo apparenti.

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I concerti-live raccolgono la partecipazione di un numero imponente di persone, specialmente per eventi e manifestazioni d’eccezione. Qui sopra un’immagine scattata a Roma durante il concerto del Primo Maggio, in occasione della festa nazionale dei lavoratori. Tra le varie performances susseguitesi sul palco, quella di Vasco Rossi ha suscitato grande coinvolgimento emotivo e immedesimazione di pubblico: la sua canzone Il mondo che vorrei è un esempio significativo di quei prodotti falsamente artistici a cui vengono attribuiti invece importanti meriti di critica dall’ideologia dominante. Il testo è il lamento di superficie del tipico autore popolare che raccoglie il consenso e l’ovazione del pubblico di massa. Parole e musica di estrema banalità, perfettamente plasmate sul gusto medio, che nell’esprimere un rifiuto nei confronti dell’esistente – e quindi implicitamente del potere politico attuale – dicono di una sostanziale adesione ai valori della classe dominante. È il tipico atteggiamento conformista dell’anticonformista, moralistico e moraleggiante, ipocrita e inautentico; l’atteggiamento di chi ha bisogno di chiamarsi fuori da ciò che critica per sentirsi nella parte del giusto. E quel giudice che riempe l’aria col suo chiacchiericcio disprezzante e compiaciuto, per dirla con Welles-Pasolini, è l’uomo medio, un mostro.

Riflessioni sul pubblico del teatro a partire da alcuni spettacoli di Prospettiva09.

La visione di qualche spettacolo di Prospettive09 ci porta a riflettere sullo stato del pubblico del teatro di ricerca.Di Enrico Pili
Si può ancora dare colpa agli attori e ai registi se il pubblico, in evidente stato catatonico, non reagisce agli stimoli? Ogni sforzo sembra vano, e attori e registi si trovano di fronte al compito sempre più arduo di risvegliare l’autocoscienza dello spettatore.

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Comunicato letto al pubblico durante la programmazione di Sotto l’ombrello accanto al bastone

Al teatro Sala 1 di Roma, Riccardo Caporossi, alla fine di ogni replica del suo spettacolo Sotto l’ombrello accanto al bastone, ha letto il breve comunicato che proponiamo ai nostri lettori. Di Riccardo Caporossi
Il disagio che vivono oggi tutti gli uomini di teatro -ma in modo particolare coloro che continuano malgrado tutto a proporre spettacoli di contraddizione al teatro e alla cultura corrente- ha ormai raggiunto limiti difficilmente superabili a causa della degradazione della cultura e dell’opportunismo dilagante.

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Il metodo di lavoro di Pina Bausch

Pina Bausch, la coreografa e danzatrice cui si deve uno stile recitativo non solo nuovo ma profondamente radicato nel presente, è morta qualche mese fa. Come suo ricordo vengono qui proposti alcuni brani di un incontro-conferenza che tenne a Torino nei prima anni novanta.
A cura di Gigi Livio
Il metodo di lavoro di Pina Bausch, probabilmente la più grande coreografa e danzatrice del secondo
novecento, morta di recente, è qui ricordata riportando brani di un incontro-conferenza che tenne a Torino
nei primi anni novanta. Sono stati scelti i passi più significativi in cui la Bausch parla del proprio metodo
di lavoro. A questi ne è stato aggiunto uno, ironico e severo al tempo stesso, in cui dice dei suoi esordi a
Wuppertal.

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Le due fotografie di Café Müller (prima rappresentazione 20 maggio 1978) permettono di apprezzare, oltre alla presenza scenica di Pina Bausch, almeno la scenografia e l’uso delle luci. L’uso scenografico delle sedie risulta particolarmente suggestivo nella linea di un teatro-danza che pretende il suo radicamento nel moderno senza per questo rinunciare al risultato estetico degli strumenti quotidiani usati dalla regista-coreografa-danzatrice. La figura così graziosamente, ma anche disperatamente, allungata della Bausch viene replicata dall’ombra sul fondale, mentre si nota anche quella proiettata dalle sedie: al di là di tutti i significati che si possono attribuire all’“ombra”, questa fotografia ci permette di notare la valenza esteticamente raffinata dell’effetto di luce. Nella seconda fotografia notiamo invece il distacco recitativo e formale, non dovuto alla diversa capacità artistica ma a una scelta coreografico-registica ben precisa, tra Pina Bausch e gli altri danzatori; come a sottolineare una certa estraneità del nostro mondo ai valori estetico-formali di una tradizione se pure rivisitata e assunta in modo critico e tormentato.

Le due fotografie di Café Müller (prima rappresentazione 20 maggio 1978) permettono di apprezzare, oltre alla presenza scenica di Pina Bausch, almeno la scenografia e l’uso delle luci. L’uso scenografico delle sedie risulta particolarmente suggestivo nella linea di un teatro-danza che pretende il suo radicamento nel moderno senza per questo rinunciare al risultato estetico degli strumenti quotidiani usati dalla regista-coreografa-danzatrice. La figura così graziosamente, ma anche disperatamente, allungata della Bausch viene replicata dall’ombra sul fondale, mentre si nota anche quella proiettata dalle sedie: al di là di tutti i significati che si possono attribuire all’“ombra”, questa fotografia ci permette di notare la valenza esteticamente raffinata dell’effetto di luce. Nella seconda fotografia notiamo invece il distacco recitativo e formale, non dovuto alla diversa capacità artistica ma a una scelta coreografico-registica ben precisa, tra Pina Bausch e gli altri danzatori; come a sottolineare una certa estraneità del nostro mondo ai valori estetico-formali di una tradizione se pure rivisitata e assunta in modo critico e tormentato.

L’immedesimazione e lo straniamento. Conseguenze nello “spettacolo” politico

Certi politici (e cioè quasi tutti), come certi attori naturalistici (e cioè quasi tutti) perseguono
in ogni modo il tentativo di far immedesimare gli elettori e gli spettatori in se stessi in modo da evitare che questi possano sviluppare il loro senso critico.
 Di Valérie Bubbio

Mai come oggi, in piena dittatura democratico-mediatica, è importante ristudiare le posizioni di Bertolt
Brecht sull’immedesimazione e lo straniamento. È proprio la prima che ci dà ragione di un consenso politico altrimenti difficile da spiegare. Rimeditare quanto scrisse al proposito il drammaturgo e teorico tedesco 
può servire a indicare una via possibile, anche se difficilmente perseguibile, per uscire dall’impasse.

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Le immagini ci mostrano due atteggiamenti oratori del Führer tedesco e del presidente del consiglio italiano. Tra queste due fotografie passano circa settant’anni: le analogie vanno pertanto ricercate in modo attento a non cadere in banalità e in accostamenti superficiali. Tra Hitler, che dichiara a chiare lettere di essere un dittatore, usando in modo positivo il termine, e il dittatore mass-mediatico italiano che, al contrario, si dichiara democratico e nemico dei dittatori, usando quindi in modo negativo la parola, possiamo però osservare un’affinità nel modo di proporsi. Tenuto conto che Hiter non ha nessun motivo per risultare simpatico al suo popolo ma, invece, intende mostrarsi autoritario e feroce –sottolineiamo nuovamente che quasi un secolo divide i due personaggi- mentre Berlusconi vuole, e grazie al suo potere mass-mediatico riesce, risultare simpatico a quella maggioranza di italiani che sta dalla sua parte e che lo deve votare, l’atteggiamento però di ‘capo’ e cioè di persona in grado di assumersi la responsabilità di decisioni che possono cambiare l’assetto politico del proprio paese, è molto simile. Tutti e due, e qui sta la coincidenza, pretendono (e l’uno c’è riuscito e l’altro ci riesce da molto tempo ormai) l’immedesimazione in sé dello spettatore-elettore; che vorrebbe essere come loro, un vero capo e, grazie all’illusione immedesimativa, riscattare così la propria miserabile esistenza.

OperaarepO di Uno e Trino: un affondo, attraverso la finzione, nel cuore della realtà.

Uno spettacolo violento, un grido che può risvegliare le coscienze: la compagnia torinese, solo per collocazione abitativa, continua il suo inesorabile lavoro di contraddizione. Di Giuliana Pititu

OperaarepO, l’ultimo spettacolo di Uno e Trino, mette in luce, con notevole senso dell’arte, la tragedia che
ogni giorno si sviluppa e cresce nel nostro paese, e non solo. Si tratta di un disperante tentativo di
recupero del tragico in uno mondo in cui il tragico non esiste più perché sostituito completamente dal farsesco
e dalla falsità, una litania funebre ammaliante e tagliente che non lascia scampo.

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Non esistono immagini relative a questo spettacolo. Ma uno spazio nero come questo può servire a rendere l’idea della poetica di Uno e Trino e sostituire proficuamente le immagini mancanti. In una società che rende tutto spettacolo, che vuole immortalare qualsiasi evento della vita attraverso fotografie e riprese video, rendendo così morte ciò che un attimo fa era vita, l’inesistenza delle immagini ci sembra importante da sottolineare perché è una ulteriore dimostrazione della forte poetica di negazione delle due attrici. Il loro impegno, la loro concentrazione si è risolta solo nell’atto artistico-politico che hanno realizzato sulla scena. Concentrazione e impegno che confermano il legame profondo tra questo gruppo e il teatro di contraddizione. Su questa rivista in occasione di uno spettacolo di Claudio Morganti, esponente di questo teatro, Donatella Orecchia ha pubblicato una foto che ritrae l’attore nell’atto di grattugiare del pecorino sulla pasta. Un’immagine che non lascia spazio al facile compiacimento, come sottolinea la didascalia: “ […] un attore che sale sul palco per esprimere il suo furore artistico e civile con una forza che non può lasciare indifferenti e che poi per raccontarsi sceglie una grattugia, un pezzo di pecorino, un piatto di pasta, senza cedere però alla tentazione del facile ammicco […] ecco è scomodo. Difficile da catalogare. Difficile da archiviare” . Proprio per questo abbiamo scelto uno spazio nero per alludere al lavoro di Anna Tamborrino e Maria Vittoria Muzzupapa perché anche questo non può essere archiviato, catalogato, fermato in immagini. Le due attrici sono arte in presenza in tutto e per tutto, e null’altro.


Né più né meno, proprio così

L’ultimo lavoro di Riccardo Caporossi, frutto di un laboratorio tenuto a Torino, stimola a una riflessione sul concetto di realismo nel nostro tempo. Di Gigi Livio

Con Né più né meno, titolo che incarna perfettamente una poetica, Riccardo Caporossi imposta un
discorso sulla poesia nel teatro e sul realismo quali possono essere concepiti nel nostro tempo. Lo stretto
legame che si realizza fra il primo termine e il secondo costituisce certo il fattore principale della riuscita
artistica dello spettacolo.

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Le due fotografie dello spettacolo di Caporossi mostrano il momento in cui i non attori camminano sulle strisce pedonali e quello in cui il bambino, vestito di rosso, raccoglie in un grande gomitolo i piccoli gomitoli che i vecchi dipanano raccontando le loro esperienze di vita. Benché le fotografie di uno spettacolo come questo con altissima elaborazione formale rendano solo approssimativamente l’idea di questa elaborazione, possiamo qui vedere, nella prima immagine, come le persone che hanno preso parte al laboratorio si dispongano sulle strisce nel loro andare e venire. La seconda immagine documenta, invece, meglio il lavoro registico di Caporossi in quella mirabile scansione di linee rosse su sfondo nero che si compongono in uno scenario essenziale e fortemente allegorico.


Le due fotografie dello spettacolo di Caporossi mostrano il momento in cui i non attori camminano sulle strisce pedonali e quello in cui il bambino, vestito di rosso, raccoglie in un grande gomitolo i piccoli gomitoli che i vecchi dipanano raccontando le loro esperienze di vita. Benché le fotografie di uno spettacolo come questo con altissima elaborazione formale rendano solo approssimativamente l’idea di questa elaborazione, possiamo qui vedere, nella prima immagine, come le persone che hanno preso parte al laboratorio si dispongano sulle strisce nel loro andare e venire. La seconda immagine documenta, invece, meglio il lavoro registico di Caporossi in quella mirabile scansione di linee rosse su sfondo nero che si compongono in uno scenario essenziale e fortemente allegorico.


Dolore perfetto di Claudio Remondi, regia di Claudio Remondi e Riccardo Caporossi

L’ultimo spettacolo di Remondi e Caporossi sembrerebbe, secondo la nostra visione critica, proporsi come un atto di resistenza di fronte alla resa di tanta parte dell’ex-avanguardia al mercato. Di Gigi Livio

L’ultimo spettacolo di Remondi e Caporossi, Dolore perfetto, offre il destro a una serie di considerazioni.
Infatti uno spettacolo non è mai soltanto uno spettacolo. La questione, oggi assai meno sentita di
quanto avveniva negli anni sessanta e settanta, del teatro e in genere dell’arte di contraddizione sembra
qui trovare una sua soluzione alla luce di constatazioni che riguardano la straordinaria forma in cui si 
struttura il testo spettacolare.

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Nel testo si dice che la ruota, elemento sostanziale e strutturale della scenografia di Dolore perfetto, è simbolo della vita e della morte. È chiaro che questa è una nostra lettura. Infatti molte altre valenze simboliche – l’opera d’arte contiene sempre più significati metaforici nei suoi segni e massime in quelli forti – possono essere attribuite a questo elemento scenografico: per esempio, ma proprio solo come esempio di questa polisemicità, si può pensare al gioco, alla ruota come richiamo al gioco dei bambini che ripetono spesso lo stesso gesto, mantengono il medesimo atteggiamento, eccetera. E allora si potrebbe parlare del gioco del teatro come gioco che si rivela profondamente tragico in questo nostro tempo. è un esempio e spetta allo spettatore cercare nel proprio modo di rapportarsi alle cose dell’arte teatrale trovare i propri significati. Le fotografie sono di Tomaso Le Pera.

Nel testo si dice che la ruota, elemento sostanziale e strutturale della scenografia di Dolore perfetto, è simbolo della vita e della morte. È chiaro che questa è una nostra lettura. Infatti molte altre valenze simboliche – l’opera d’arte contiene sempre più significati metaforici nei suoi segni e massime in quelli forti – possono essere attribuite a questo elemento scenografico: per esempio, ma proprio solo come esempio di questa polisemicità, si può pensare al gioco, alla ruota come richiamo al gioco dei bambini che ripetono spesso lo stesso gesto, mantengono il medesimo atteggiamento, eccetera. E allora si potrebbe parlare del gioco del teatro come gioco che si rivela profondamente tragico in questo nostro tempo. è un esempio e spetta allo spettatore cercare nel proprio modo di rapportarsi alle cose dell’arte teatrale trovare i propri significati. Le fotografie sono di Tomaso Le Pera.