SalomèémolaS

Da una conversazione con Unoetrino, un’occasione per parlare di un nuovo esempio di teatro di contraddizione, a testimoniare il fatto che l’arte non è intrattenimento e appagamento dei sensi.
Di Maria Vittoria Muzzupapa

In queste poche righe, si cerca di affrontare parte della poetica di Unoetrino analizzando la loro ultima rappresentazione, SalomèémolaS (avvenuta l’8 marzo alla Sala Espace di Torino, in occasione della rassegna “Rigenerazione”). 
In modo particolare abbiamo osservato il linguaggio della scena, il lavoro compiuto sull’attore e su quello che possiamo 
definire testo drammaturgico.

Su queste due componenti, infatti, Unoetrino opera un complesso lavoro di analisi e di interpretazione, discostandosi dal 
teatro spettacolare oggi prevalente. Obiettivo principale non è accattivarsi lo spettatore, ma provocarlo, non solo mostrandogli 
un attore castrato nella sua principale funzione, che è quella di comunicare, ma anche sventrando e reinterpretando un 
celebre testo teatrale (operazione ormai ritenuta impensabile e profana da molti) come la Salomè di Wilde.

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Carlo Cecchi nel Tartufo: la forza antispettacolare di un attore ‘grottesco’.

A partire dal 6 febbraio 2007 è in scena il Tartufo di Molière. Carlo Cecchi, regista e capocomico, qui nei panni di Orgone, dà una grande prova d’attore lontana da ogni compiaciuto cedimento alla logica spettacolare e rigorosamente fedele a una poetica grottesca. Di Francesca Dori
A partire dal 6 febbraio 2007 è in scena il Tartufo di Molière, per la regia di Carlo Cecchi, una produzione Teatro Stabile delle Marche e del Mercadante di Napoli. Sul palcoscenico, accanto a Cecchi-Orgone, Valerio Binasco nella parte di Tartufo, Licia Maglietta, Iaia Forte, Angelica Ippolito. 
L’Asino vola ospita volentieri un intervento di una giovanissima studentessa della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Roma Tor Vergata: al suo primo incontro con la recitazione di Carlo Cecchi, Francesca Dori ci offre una testimonianza molto interessante di quanto un attore, che ha segnato profondamente la storia del teatro italiano degli ultimi trent’anni, riesca ancora, contro il dilagante successo della spettacolarità, ad affermare la forza critica del teatro.

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Orgone, ancora ammaliato dalle false lusinghe di Tartufo, si fa suo complice in quella che, salvo l’esito felice, sarà la sua stessa rovina. In questi momenti di innegabile partecipazione emotiva da parte dei due attori, Cecchi non rinuncia ugualmente a quel certo straniamento, tipico della sua comicità, per il quale la naturalità recitativa viene continuamente alterata. Nei gesti, così come nella voce, una fortissima tensione rende impossibile ogni immediatezza di rapporto con il reale.

Orgone finalmente, grazie alla prova di tentazione della moglie Elmira, ha scoperto le trame del suo vil traditore. Eppure sua madre, l’austera Madama Pernella, ancora non crede all’imbroglio di “quest’angelo di Tartufo che ha sempre il cielo in bocca”. Anche in questo passo amaro della commedia in cui l’ipocrisia dell’impostore è sull’orlo di rovinare una famiglia intera, la tragicità di Cecchi non è mai compiuta. Piuttosto si crea una distanza grottesca dal personaggio che, nel suo straniarsi dalla realtà, può essere più dolorosamente sconcertante di qualsiasi drammatica immedesimazione.

Furor di popolo

«Ho fatto un lavoro e non uno spettacolo / Poiché il teatro non intrattiene casomai pertiene e trattiene, / non è strumento d’evasione, casomai imprigiona» (dal programma di sala di Furor di Popolo). Di Donatella Orecchia
Ospite quest’estate al festival di Castiglioncello, Claudio Morganti ha proposto il suo ultimo spettacolo Furor di popolo, un breve e folgorante esempio di teatro ‘politico’ dove, a una farsa grottesca (da Strindberg) segue un’intensa, asciutta e sentita lettura di brani di scritti politici di Pinter, di Gustavo Modena e di Büchner. Si tratta di un lavoro di grande interesse soprattutto nel suo porre l’accento su una questione nodale oggi, dopo gli anni del disimpegno postmoderno: l’urgenza di recuperare la dimensione dell’impegno politico e dell’intervento attivo sulla contemporaneità da parte dell’artista. Senza con ciò negare la specificità del lavoro sulla forma e sul linguaggio.

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Il busto di Gustavo Modena, attore fra i più grandi dell’Ottocento italiano, il cui impegno fu sempre contemporaneamente artistico e politico. In Furor di popolo Morganti legge una lettera da lui indirizzata ad Achille Majeroni nel 1857. «Avete letto le lettere di Modena? Sono di una cattiveria disillusa, impressionanti, ma non si discute la posizione, non c’è dubbio su dove mettersi, ecco, una cosa importante per noi credo sia riuscire a non avere dubbio di dove si sta. Non ho dubbio, su questo, posso morire di dolore perché il resto del mondo va nella direzione opposta, ma io in quella direzione vado, basta, non è discutibile quella questione» (Claudio Morganti).

Harold Pinter nella veste ‘insolita’ di attore nell’Ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett, spettacolo che è andato in scena al Royal Court’s Jerwood Theatre, nel mese di ottobre di quest’anno per la regia Ian Rickson. Tanto in Pinter quanto in Morganti l’impegno all’intervento diretto e alla presa di posizione netta sulla contemporaneità non si possono disgiungere da un impegno di ricerca sulla forma. E qui, e non è un caso, entrambi in un dialogo a distanza arrivano a confrontarsi con Beckett. L’amara sorte del servo Gigi di Morganti è una riscrittura di Krapp. La conclusione di Furor di popolo è la lettura del discorso di Pinter per il conferimento del Nobel.

«Claudio Morganti mentre grattugia un pezzo di pecorino» (didascalia di Claudio Morganti e di Rita Frongia). Alla richiesta di un’immagine da inserire come commento al presente articolo in assenza di fotografie relative allo spettacolo, Morganti ha segnalato questa. In una società che spettacolarizza ogni cosa per decurtarla del potenziale di contraddizione, un attore che sale sul palco per esprimere il suo furore artistico e civile con una forza che non può lasciare indifferenti e che poi per raccontarsi sceglie una grattugia, un pezzo di pecorino, un piatto di pasta, senza cedere però alla tentazione del facile ammicco (il suo volto non ammicca, l’immagine stessa, così poco patinata, non ammicca): ecco è scomodo. Difficile da collocare. Difficile da archiviare.

SALOMè di Unoetrino. Un appunto.

Il nuovo spettacolo di Unoetrino si inserisce in quella corrente, non ancora certamente maggioritaria, che tende a riscoprire i fondamento del moderno in funzione anti-postmoderno. Di Gigi Livio
SALOMè è una spettacolo di Unoetrino che si presenta con caratteristiche decisamente interessanti per chi, come noi, è alla ricerca di tutto ciò che nel campo della cultura e dell’arte intende opporsi alla stagione definita del post-moderno. Non si propone una recensione allo spettacolo ma soltanto un “appunto” a proposito proprio di questa tendenza che risulta solamente un aspetto del lavoro di Unoetrino e non esaurisce certo il discorso su questo lavoro.

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Intorno alla memoria degli attori e a una nuova biografia di Eleonora Duse

La recente traduzione di un’ampia biografia su Eleonora Duse, edita negli Stati Uniti nel 2003, è l’occasione per avviare alcune riflessioni dedicate alla questione relativa alla memoria dell’arte degli attori. Di Donatella Orecchia
In particolare, si tratta di comprendere quanto la scelta del racconto della vita dell’artista (fra carriera e vita privata) sia il riflesso di una visione del teatro e dell’arte propria della società contemporanea che, spostando l’interesse sul privato dell’artista, rimuove o minimizza il significato del suo lavoro stilistico.

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Eleonora Duse in Fedora di Sardou. Di lei scrisse nel 1897 Adelaide Ristori: “si è imposta una fisionomia stramba, bizzarra, eccentrica, soffusa una fisionomia facile a decomporsi e a ricomporsi di un grande pallore […] Ha un certo modo di gestire bizzarro delle braccia lungo la persona stanca e abbattuta, un certo sollevare angoloso del braccio, tenendolo in una quale rigidezza meccanica, un certo sollevare delle mani aperte, con tutte le cinque dita divaricate […] non è affatto un’artista della verità, come gridano certi suoi troppo caldi ammiratori. La Duse si è creata da sé la sua propia maniera, si è creata da sé una specie di convenzionalismo tutto suo per cui è essenzialmente la donna moderna.

Eleonora Duse in La moglie di Claudio di Alexandre Dumas figlio, uno dei suoi più grandi successi del periodo giovanile, esempio emblematico della sua scelta di portare sulla scena personaggi dai tratti negativi, privi di quell’eroismo sublime che aveva caratterizzato il repertorio di tante prime attrici del periodo precedente. Cesarina, la protagonista, è infatti una di quelle sue eroine ‘moderne’, malate di nevrosi, come si diceva allora, o piuttosto di un disagio a vivere nell’incertezza di quei tempi che ella seppe rendere con il suo stile particolare.

Morganti-Beckett; e un doveroso accenno a Rem & Cap

L’amara sorte del servo Gigi di Claudio Morganti verrà presentato al teatro Milanollo di Savigliano la sera del 28 marzo 2006. Di Gigi Livio
Claudio Morganti, costretto a reinventarsi un testo dopo il diniego da parte degli eredi alla rappresentazione dell’Ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett, scrive e recita L’amara sorte del servo Gigi che è un geniale ricalco del testo beckettiano. Straordinaria la recitazione di Morganti che riesce a coniugare tragico e comico in modo assolutamente originale sfruttando con maestria una voce, un volto e un corpo che sanno tendere al patetico-drammatico e rovesciarlo nello sberleffo irridente, ma senza gioia e con cupa disperazione. È l’arte teatrale dei nostri giorni ben al di là dell’orpellata società dello spettacolo quale si vede anche, in questi giorni, nella Torino olimpica.

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Dopo aver recitato con Carlo Cecchi, Alfonso Santagata (a sinistra) e Claudio Morganti formano una compagnia che immediatamente si distingue, all’interno del teatro cosiddetto di sperimentazione, per una sua cifra particolare che sa coniugare il grottesco al drammatico portando avanti un discorso che intende contraddire il teatro così com’è e così come ci è stato tramandato da una tradizione antica. Ma, nel fare questo, Santagata-Morganti non rinunciano alla storia del grande attore che vive soprattutto in Morganti e nelle sua eccezionale capacità di divenire teatro.



Morganti inizia poi un percorso autonomo: è questa una fotografia di scena di Serata di gala. Omaggio a Pinter, 2003. Vediamo qui la grande capacità dell’attore nell’usare il corpo e il volto in funzione del risultato artistico che intende ottenere. Irridente e irrisore, ma soprattutto di se stesso, nel proporsi in una posa, in un gesto e in un’espressione mimica che forza i limiti del naturalismo in senso grottesco.

È questa una fotografia di scena dell’Amara sorte del servo Gigi: Morganti, truccato da vecchio, ascolta i nastri registrati di un se stesso di molti anni prima. Il volto contratto nell’attenzione, ma anche nella rabbia per ciò che quel sé ora estraneo a sé sta dicendo, esprime in modo profondo e ricco il dramma della vecchiaia in un mondo che quella stagione della vita non sa più considerare in modo stoico, ma, appunto, solo con rabbia e desolazione.


Carla Tatò e Carlo Quartucci: due teatranti ‘contro’

Di Gabriele Bartolini, Simona Innocenzi e Donatella Orecchia

A partire dal mese di giugno 2005, un gruppo di studenti dell’Università di Roma Tor Vergata ha iniziato un percorso mirato ad avvicinare e conoscere il lavoro di Carlo Quartucci e Carla Tatò, due dei protagonisti più interessanti del scena italiana di questi ultimi quarant’anni.

Attraverso racconti, dialoghi, letture, recite serali, frammenti di una memoria antica misti a improvvisazioni estemporanee, Quartucci e Tatò hanno reso gli studenti partecipi di una rara e preziosa sapienza del teatro, concreta e appassionata. Soprattutto, li hanno condotti a conoscere il loro particolarissimo linguaggio della scena che oggi, come quarant’anni fa, si batte contro quel teatro, e quell’arte, che non sanno più superare il confine dell’intrattenimento spettacolare ‘digestivo’ -avrebbe detto Brecht- e contrapporsi attraverso il linguaggio artistico alla cultura dominante del proprio tempo: contraddire cioè le convenzioni del teatro (dal rapporto con il testo drammatico, al modo di intendere e vivere lo spazio scenico, dall’idea di regia a quella d’attore, fino al quella di pubblico) per contraddire un mondo.

L’asinovola ospita volentieri una testimonianza a più voci di quell’esperienza: due pezzi su Carla Tatò di Gabriele Bartolini e Simona Innocenzi, preceduti dal resoconto di quanto avvenuto nel primo incontro estivo.
Un momento del laboratorio tenuto da Quartucci e Tatò al Teatro Belli di Roma nei mesi di ottobre e novembre 2005. Seduto sul palcoscenico Carlo Quartucci guarda il video di uno spettacolo del 1984 dove Carla Tatò in primo piano recita bendata: un’immagine emblematica di un modo di fare teatro che intende essere innanzitutto uno sguardo diverso sul teatro (una forma, come insiste Quartucci, di ‘stravedere’ oltre la normalità del guardare).

Carla Tatò nei panni di Lady Macbeth. L’attrice, sola sul palcoscenico, recita il lungo monologo della sua follia, mentre alle sue spalle scorrono le immagini di Orson Wells e della Tatò stessa, segni di una memoria dell’arte e del teatro che torna a farsi presenza viva ed entra in rapporto/scontro con quanto avviene nel presente.

Un primo piano di Carla Tatò in Lady Macbeth. Il suo volto come una maschera che ha assai poco di umano e di rassicurante: maschera dai tratti marcati e mobilissimi, con una bocca perfettamente disegnata che si apre spesso in grida strozzate a mostrare una dentatura eccessiva (per dimensioni e per bianchezza), con due occhi come buchi di fuoco, imperiosamente sgranati. Una maschera che riempe la scena come di rado accade di vedere sulle nostre scene.


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Toni Servillo, attore nella tradizione

Toni Servillo, oggi conosciuto dai più come protagonista del film Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino, da anni sui palcoscenici italiani, è l’esempio di un teatrante che si confronta con la tradizione in modo autentico e fuori dalle mode. Di Donatella Orecchia
Oggi la tradizione come concreto sapere collettivo che si tramanda di generazione in generazione è quasi scomparsa. Eppure spesso si riscontra che, in contesti anche molto diversi fra loro (dalla cucina, all’artigianato, all’arte), l’appello alla tradizione è quanto mai diffuso, funzionale a nutrire il mercato di prodotti con l’etichetta della ‘bontà di una volta’, dell’ ‘originalità’, della ‘credibilità’. 
Nell’arte e, in particolare, in teatro accade da anni qualcosa di molto simile. Ma qualcuno sa andare controcorrente e confrontarsi in modo autentico con ciò che resta della tradizione.
Toni Servillo è uno dei rari ma importanti esempi della scena italiana in cui il recupero e il confronto/scontro con la tradizione -del teatro napoletano da una parte e del grande attore italiano, dall’altra- è un autentico stimolo creativo e lo porta a prendere le distanze dal linguaggio teatrale egemone, piatto e normalizzato che, opportunisticamente, ha da tempo preso il titolo di teatro di tradizione.

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Un momento della recita di Sabato domenica e lunedì. L’affiatamento dei due attori, Toni Servillo (Peppino Priore) e Anna Bonaiuto (Rosa Priore), si riconosce nella sintonia con cui conducono il gioco scenico, nella precisione dei tempi teatrali, nell’incontro di temperamenti comici differenti ma che affondano entrambi nella cultura napoletana (per la friulana Bonaiuto cultura d’adozione): una lingua fatta tanto di parole, di cadenze, quanto di gesti, di smorfie, di accenti, di silenzi e, soprattutto, di ritmi. E il ritmo (di battute, di movimenti, di pause e accelerazioni) in teatro è cosa concreta e ‘antica’, che si tramanda concretamente dalle assi alle assi del palcoscenico, fra attori.

Toni Servillo nella parte del protagonista della commedia di Eduardo de Filippo, Sabato domenica e lunedì. Pensieroso e isolato dal resto della famiglia/compagnia, come sospeso ed estraneo a tutti, Servillo mostra, attraverso la stilizzazione del gesto sempre pulito ed essenziale, il personaggio; e rende così evidente la finzione del gioco teatrale.

Toni Servillo, protagonista del film di Paolo Sorrentino Le conseguenze dell’amore in una delle scene in cui, seduto al bar dell’albergo, guarda in silenzio la cameriera di cui si è innamorato: sguardo fisso, non un sorriso, quasi nessun movimento del volto, nessun compiaciuto cedimento al gigionismo e alla retorica sentimentale di tanto cinema italiano.

Il teatro di narrazione secondo Valeriano Gialli

In occasione del suo ultimo spettacolo, Moby Dick, Valeriano Gialli ha parlato di teatro di narrazione: in questo breve intervento filmato ci spiega che cosa è per lui e come lo pratica. (mvg)
Gialli distingue tra il teatro di narrazione così come viene normalmente inteso, che mette in scena le radici e il vissuto personale dell’attore, da un altro modo di concepire il teatro di narrazione, il suo, che egli stesso definisce “radicale” perchè opera un rovesciamento rispetto alla drammaturgia tradizionale, nel senso che l’attore non recita più un personaggio, ma è simile all’antico aedo che canta una storia.
Il teatro di cui Valeriano Gialli parla è quello epico, che abbandona la centralità della psicologia del personaggio grazie a una recitazione anti-naturalistica in cui, come diceva Brecht, l’attore pone una distanza fra sè e il personaggio e fra sè e le cose che rappresenta. Ciò di cui parla questo attore sono grandi eventi, grandi poemi, non i piccoli e noiosi psicologismi della vita quotidiana.
Un teatro tanto più moderno quanto più fa riferimento al più antico modo di recitare che conosciamo: quello omerico, che è pre-tragico.

Il falso e il finto. Sale di Eugenio Barba

Una lettura critica di Sale, spettacolo realizzato da Eugenio Barba nel 2002 ma ripreso in occasione del quarantennale dell’Odin Teatret. Di Armando Petrini

Il quarantennale della fondazione dell’Odin Teatret, la compagnia teatrale diretta da Eugenio Barba,
è l’occasione per una riflessione sul significato di alcune delle scelte espressive del cosiddetto terzo teatro.
Un teatro volutamente distante dal gioco consapevole della finzione e tutto orientato al contrario verso la ricerca di una naturalezza espressiva che, rinunciando al finto, finisce per consegnarsi appunto al falso.
 
Particolarmente significativo in questo senso lo spettacolo Sale, recentemente ripreso dall’Odin.

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L’attrice, Roberta Carreri, esprime in scena uno stile recitativo improntato a una chiarissima forma di naturalezza espressiva.

Uno spettacolo, Sale, che unisce una particolare forma di povertà a una sensibilità estetizzante, finendo per eludere la ricerca di un autentico rigore espressivo.