De mortuis nihil nisi Bene.

L’articolo presenta una scheggia di un lavoro futuro dove, tra le altre cose, ci si occuperà in modo critico approfondito della distinzione dei due periodi dell’attività artistica di Carmelo Bene, la prima all’insegna prevalentemente dell’allegorismo e la seconda a quella, sempre prevalentemente, del simbolismo. Di Gigi Livio

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Nella prima fotografia vediamo Carmelo Bene in un momento di Pinocchio del 1966: la posizione del corpo e il volto esprimono rabbia e sprezzo, rabbia per dover vivere in un mondo e in un teatro che non gli appartiene e sprezzo per quel mondo e quel teatro. Più tardi, a partire dalla fine degli anni sessanta, Bene abbandona quella visione del mondo antagonistica per ritagliarsi piuttosto uno spazio di grand’attore che basa tutto il suo talento sulla raffinatezza estetica. Nella seconda fotografia abbiamo un momento di Homlette for Hamlet dove risulta evidente questo cambiamento. Gli altri attori sono ridotti a statue, tra barocche e neoclassiche, mentre il suo volto esprime non più rabbia e sprezzo ma sublime superiorità sulle cose del mondo, un mondo che continua a non piacergli ma le cui regole mercantili ora accetta pur fingendo di opporvisi.

Nella prima fotografia vediamo Carmelo Bene in un momento di Pinocchio del 1966: la posizione del corpo e il volto esprimono rabbia e sprezzo, rabbia per dover vivere in un mondo e in un teatro che non gli appartiene e sprezzo per quel mondo e quel teatro. Più tardi, a partire dalla fine degli anni sessanta, Bene abbandona quella visione del mondo antagonistica per ritagliarsi piuttosto uno spazio di grand’attore che basa tutto il suo talento sulla raffinatezza estetica. Nella seconda fotografia abbiamo un momento di Homlette for Hamlet dove risulta evidente questo cambiamento. Gli altri attori sono ridotti a statue, tra barocche e neoclassiche, mentre il suo volto esprime non più rabbia e sprezzo ma sublime superiorità sulle cose del mondo, un mondo che continua a non piacergli ma le cui regole mercantili ora accetta pur fingendo di opporvisi.

Elisabetta II. Non è una commedia. È anche una tragedia. La spietata “arte del perturbamento” in una delle opere più caustiche dell’ultimo Bernhard.

Appunti brevi su uno dei testi più tipicamente “bernhardiani” dell’autore austriaco e sulla prima rappresentazione italiana di Elisabetta II per la magistrale interpretazione di Roberto Herlitzka e la regia senza sbavature di Teresa Pedroni. Di Letizia Gatti

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Qui sopra Roberto Herlitzka (il vecchio industriale Herrestein) e Gianluigi Pizzetti (il servitore Richard) in una foto di scena. Come accade di consueto nelle opere teatrali di Bernhard, il rapporto fra i due personaggi principali si svilippa a partire dal binomio servo-padrone / vittima-carnefice: dove l’uno, il padrone, è ridotto alle dipendenze di un servitore a causa di una mutilazione alle gambe che dice di una frattura col mondo circostante riguardante più la sfera dello spirito che uno stato fisico, l’altro, il servo, vive in una dimensione di schiavitù psichica da cui non riesce del tutto a liberarsi, pena la morte stessa. In Elisabetta II, che ricalca per certi versi la struttura di Una festa per Boris (opera prima di Bernhard drammaturgo, 1970), si assiste tuttavia a un leggero rovesciamento dei rapporti di forza fra i due protagonisti, a favore del più debole dei due, il servo, che sembra aver maturato, secondo le parole di Herrestein, l’esigenza di liberazione dalla propria condizione. Così in Elisabetta II: “La catastrofe verrà / quando non ci vedrò più niente/ e non sentirò più niente / quando sarò in tutto e per tutto / Richard / alla sua mercé”; e ancora, più avanti, alla fine della scena seconda: “Se lei mi lascia lei mi uccide / Senza di lei sarei peduto lo sa / Non sarei più soltanto uno storpio / sarei uno storpo morto”; “Sul Semmering cambierò testamento / nel senso che vorrà lei Richard / nel senso che vorrà lei/ Potrà avere tutto da me / se rimarrà con me / ma proprio tutto“.

Sans. Assenza.

Lo spettacolo presentato a Helsinki da La Compagnie du Solitarie e dalla coreografa Martine Pisani restituisce una ventata d’aria fresca alla condizione stagnante della danza e del teatro contemporaneo riportando valore etico ed estetico all’essenzialità dell’opera d’arte spogliata finalmente da inutili vezzi e merletti. Di Valérie Bubbio

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L’equilibrio instabile che genera il movimento e al contempo lo distrugge è percepibile in Sanscome una costante. Una assidua contrapposizione tra elementi che si annullano reciprocamente anima il corpo dei danzatori-attori continuamente sospesi tra poli opposti. La forza può legarsi nei loro gesti a una fragilità disarmante, la permanenza a una perentoria precarietà lasciando lo spettacolo nella dimensione dell’incompiuto e della transitorietà.

La contessina Julie secondo il servo (di scena) Malosti.

La trasposizione teatrale della pièce strindberghiana La signorina Julie è uno spettacolo di intrattenimento intelligente che conferma Malosti come uno degli autori più interessanti del panorama teatrale italiano. Di Letizia Gatti

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Musica, suoni e rumori, come è tipico del teatro di Malosti, commentano accadimenti, voci, tempi dello spazio drammaturgico, fino alla completa saturazione. Nessun genere musicale è escluso purché sia funzionale alla narrazione. Il rischio più volte toccato dall’attore torinese è che l’insistito lavoro sulla forma sommerga il contenuto dell’opera o che, alla peggio, lo sostituisca del tutto, deragliandola sui binari di una retorica spettacolare tipicamente postmoderna.

Il personaggio della serva Cristina (Viola Pornaro), la moralista cuoca di casa del Conte nonché terzo vertice del triangolo amoroso serva-servo-padrona, ha la funzione di personaggio e narratore intradiegetico dei fatti che accadono nella cucina-tugurio della casa del conte – scenografia unica che riesce a soddisfare in modo originale e tipicamente malostiano tutte le esigenze di scena.

La voix humaine di Ivo van Hove. Alla drammaturgia manca il grande attore, all’attore manca una grande drammaturgia.

Qualche appunto sullo spettacolo del regista belga presentato in prima nazionale a Torino in occasione della rassegna teatrale Prospettiva, dedicata quest’anno alle dinamiche del doppio.
Di Letizia Gatti

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Cocteau concepì la sua “tragedye lyrique” come pensandola già musicata. Il suo amico e collaboratore Francois Poulenc ne musicò il testo affidando il ruolo femminile a Denise Duval. La prima ebbe luogo all’Opera Comique di Parigi il 6 febbraio 1959, sotto la direzione di Georges Prêtre. La Duval fu protagonista inoltre del film omonimo diretto da Dominique Delouche nel 1970. Una pellicola in bianco e nero in cui la Duval è ripresa da diverse angolature mentre squaderna lo strazio della perdita camminando su e giù in una camera da letto (Nella foto la locandina del film così come appare nell’edizione in DVD)

La voix humaine di Ivo van Hove non convince ma alcune scelte autoriali riguardanti la scenografia e l’uso della luce sono interessanti. (Lo stesso non si può dire della colonna sonora, pastiche postmoderno che spazia da Paul Simon a Beyonce – eccezion fatta per il sapiente uso del sottofondo metropolitano nei momenti in cui la donna si affaccia alla finestra). La vetrata, usata per appendere una scritta recante l’implorazione “come home” e aperta per pochi minuti sul finale della piéce, segna il confine di separazione tra palcoscenico e platea, tra attore e pubblico. Lo spettatore è il voyeur di una “scena del delitto”, come definì Cocteau questo viaggio nell’autopsia dei sentimenti umani. Nello spettacolo di Ivo van Hove la luce e la scena minimale accentuano l’atmosfera da obitorio. Diversamente dalla maggior parte dei precedenti teatrali, operistici e cinematografici la scena si presenta spoglia: il rettangolo di luce illumina una stanza completamente vuota, alimentandone la percezione di soffocamento. Il finale di van Hove è una licenza poetica: la protagonista attacca il telefono e apre la vetrata. La musica esplode in un climax ascendente. Le luci si spengono nell’istante in cui la Reijn si sporge dal parapetto, apre le braccia e si lancia nel vuoto – fotografia di un corpo di berniniana memoria, colto nell’attimo in cui si-sta-per.

Carlo Quartucci e Carla Tatò all’Università di Roma Tre. Immagini d’artista

Prosegue il “viaggio attraverso il teatro” intrapreso da Carla Tatò e Carlo Quartucci. Il laboratorio tenuto nell’aula Columbus dell’Università di Roma Tre ci spinge a considerare
da una prospettiva diversa le possibilità di contraddizione che l’arte d’avanguardia
può avere ancora oggi.
 Di Valérie Bubbio
Il margine di possibilità che si presenta ancora frequentabile dall’arte per contrapporsi con forza
al dio mercato regolatore di ogni cosa risulta oggi come oggi sempre più ristretto. Il coraggio di coloro
che continuano a lottare senza tregua cercando nuovi spazi e nuovi modi all’interno di questo
margine ormai limitatissimo restituisce una vena di speranza ai tempi bui che stiamo attraversando.
Oggi più che mai è necessario valorizzare lo sforzo di quei rarissimi artisti che si pongono
un passo avanti, tra avanguardia e tradizione, alle disposizioni culturali di una società votata allo spettacolo
e all’intrattenimento.

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Carlo Quartucci contempla sognante ed assorto le azioni che continuano a palesarsi sul palco con gli occhi di chi è ancora in grado di stupirsi e di stupire e di chi riesce a trasporre un’idea di teatro in atto scenico concreto. Quando tutti i ragazzi hanno abbandonato la platea superando la linea che separa il pubblico dal palco il Maestro li invita a formare un semicerchio intorno a lui. In questo modo anche lo spettatore si trasforma in attore in quanto individuo che agisce e partecipa prendendo voce in uno “zoo di pensieri” divenuto sogno in azione.