Il nulla al quadrato chiamato a rappresentare il cinema italiano

È giunto anche per noi il momento di dire la nostra su La grande bellezza, ultima fatica del regista Paolo Sorrentino, del produttore Nicola Giuliano e dell’attore Toni Servillo, vincitore il dodici gennaio di un Golden Globe. Di Enrico A. Pili

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Le inquadrature, vuoi per l’eccessiva artificiosità dei colori, vuoi per le artificiose piroette della macchina da presa, che donano un’aura di falsità digitale ai monumenti che riprendono, non hanno un grande valore dal punto di vista della qualità estetica da cartolina. A compensare c’è il formato panoramico, che si impone sullo spettatore in sala schiacciandolo. Tanto i bassi esagerati muovono le budella quanto, al cinema, le immagini panoramiche costringono lo spettatore a muovere gli occhi da una parte all’altra dello schermo e alla sorpresa e allo stupore di fronte al giganteggiare degli oggetti ripresi. È in fondo uno di quei trucchi cinematografici diventati pilastri dell’arte postmodernista (che ha prodotto e ancora produce un’infinità di riproduzioni in scala gigante di oggetti, animali e esseri umani in funzione ludica o spettacolare) e riprecipitati nel cinema sotto forma di inquadrature che possono permettersi di non aver più un valore narrativo ma possono tornare, come nel cinema delle origini, a essere puro spettacolo. Per farla breve, ne La grande bellezza persino il processo di estetizzazione e rimozione dell’importanza del contenuto dell’immagine è di livello basso; a quel punto il film cerca di nascondersi dietro la potenza dell’immagine gigantesca, nella speranza che lo spettatore non si accorga della fregatura.

Le inquadrature, vuoi per l’eccessiva artificiosità dei colori, vuoi per le artificiose piroette della macchina da presa, che donano un’aura di falsità digitale ai monumenti che riprendono, non hanno un grande valore dal punto di vista della qualità estetica da cartolina. A compensare c’è il formato panoramico, che si impone sullo spettatore in sala schiacciandolo. Tanto i bassi esagerati muovono le budella quanto, al cinema, le immagini panoramiche costringono lo spettatore a muovere gli occhi da una parte all’altra dello schermo e alla sorpresa e allo stupore di fronte al giganteggiare degli oggetti ripresi. È in fondo uno di quei trucchi cinematografici diventati pilastri dell’arte postmodernista (che ha prodotto e ancora produce un’infinità di riproduzioni in scala gigante di oggetti, animali e esseri umani in funzione ludica o spettacolare) e riprecipitati nel cinema sotto forma di inquadrature che possono permettersi di non aver più un valore narrativo ma possono tornare, come nel cinema delle origini, a essere puro spettacolo. Per farla breve, ne La grande bellezza persino il processo di estetizzazione e rimozione dell’importanza del contenuto dell’immagine è di livello basso; a quel punto il film cerca di nascondersi dietro la potenza dell’immagine gigantesca, nella speranza che lo spettatore non si accorga della fregatura.

Dopo essere stata umiliata davanti ai suoi amici da Jep, la pseudointellettuale “di sinistra” interpretata da Galatea Ranzi ci viene mostrata mentre nuota nuda nella sua piscina privata e mentre attraversa alcune sale della sua lussuosa dimora. Ad accompagnare la scena una musica malinconica. L’attenzione riservata dalla macchina da presa al lusso della casa, unita all’accompagnamento musicale, sembrano ripetere ciò che ha già detto il personaggio interpretato da Servillo nella scena precedente: anche lei vive nel lusso e mente a se stessa per dimenticare la sua vita triste e malinconica di donna sola (non ha l’amore dei figli, dei quali non si prende cura, né del marito, che ha un amante). Questa ripetizione, che può sembrare didascalica, in realtà rivela un elemento del film fino ad allora non scontato: lo sguardo del regista combacia con quello del protagonista e ne condivide il cinismo. Di destra o di sinistra, sempre che queste categorie abbiano senso, sembra dirci il regista, questi ricchi in fondo son dei poveretti, tutti con una grande malinconia nel cuore e il sacrosanto bisogno di estraniarsi dal mondo e dalla storia (due cose di cui il regista, così come Jep, sembra promuovere la rimozione).

Dopo essere stata umiliata davanti ai suoi amici da Jep, la pseudointellettuale “di sinistra” interpretata da Galatea Ranzi ci viene mostrata mentre nuota nuda nella sua piscina privata e mentre attraversa alcune sale della sua lussuosa dimora. Ad accompagnare la scena una musica malinconica. L’attenzione riservata dalla macchina da presa al lusso della casa, unita all’accompagnamento musicale, sembrano ripetere ciò che ha già detto il personaggio interpretato da Servillo nella scena precedente: anche lei vive nel lusso e mente a se stessa per dimenticare la sua vita triste e malinconica di donna sola (non ha l’amore dei figli, dei quali non si prende cura, né del marito, che ha un amante). Questa ripetizione, che può sembrare didascalica, in realtà rivela un elemento del film fino ad allora non scontato: lo sguardo del regista combacia con quello del protagonista e ne condivide il cinismo. Di destra o di sinistra, sempre che queste categorie abbiano senso, sembra dirci il regista, questi ricchi in fondo son dei poveretti, tutti con una grande malinconia nel cuore e il sacrosanto bisogno di estraniarsi dal mondo e dalla storia (due cose di cui il regista, così come Jep, sembra promuovere la rimozione).

L’arbitro, Kaspar Hauser e il fantasma di Ciprì e Maresco

Presentiamo qui qualche riflessione sull’uso del bianco e nero nel film L’arbitro di Paolo Zucca, con riferimenti a La leggenda di Kaspar Hauser di Davide Manuli e un accenno al cinema di Ciprì e Maresco.Di Enrico A. Pili

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Una scena dell’Arbitro di Zucca: la croce è una delle tante che segnano la strada che porta la Pabarilese al campo nel quale questa subirà la sconfitta che le precluderà la possibilità del primo posto in classifica, nonché richiamo esplicito alla religione cristiana. Le implicazioni simboliche sono chiare, come anche quelle cinematografiche (l’immagine, come denunciato dal formato panoramico, vuole richiamare il cinema di Sergio Leone e le croci possono richiamare i cimiteri improvvisati di tanti spaghetti western, con tutto il cascame simbolico che ne deriva), ma rimangono suggestioni superficiali, incapaci di costituirsi in elementi di interesse.

Due immagini del film La leggenda di Kaspar Hauser di Manuli: i luoghi sono resi spogli e desolati al fine di farne risaltare il vuoto, e di riflesso la presenza ingombrante e acriticamente straniante di frammenti erosi di civiltà occidentale (come l’apparecchiatura da dj o il duello da film western).

Due immagini del film La leggenda di Kaspar Hauser di Manuli: i luoghi sono resi spogli e desolati al fine di farne risaltare il vuoto, e di riflesso la presenza ingombrante e acriticamente straniante di frammenti erosi di civiltà occidentale (come l’apparecchiatura da dj o il duello da film western).

Clouzot, Il corvo e il naturalismo critico

L’analisi del film di Clouzot Il corvo può essere l’occasione per riflettere sull’opera di un grande regista-sceneggiatore e per parlare di un problema di cui la nostra rivista si occupa spesso, ovvero il problema del naturalismo critico. Di Enrico A. Pili

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Nel 1947 Clouzot gira Quai des Orfèvres, film che doveva segnare il suo ritorno in punta di piedi nel mondo del cinema e che invece vince il leone d’oro al festival di Venezia. Il film è effettivamente molto più convenzionale del precedente Le Corbeau. Illuminante, da questo punto di vista, è confrontare due scene in cui un personaggio si guarda allo specchio: in Le Corbeau Marie Corbin, inseguita da una folla di forcaioli, raggiunge la sua casa e la trova devastata. Si guarda allora in uno specchio rotto, realizzando forse la sua frattura interiore, dovuta al suo trovarsi improvvisamente espulsa dalla comunità. La scena non ha musica di accompagnamento. In Quai des Orfèvres invece abbiamo un’impostazione più tradizionale: Maurice (Bernard Blier) si guarda allo specchio dopo aver deciso di uccidere quello che crede l’amante della compagna. La musica suggerisce didascalicamente che l’atmosfera è molto tesa. Ancor più didascalicamente sentiamo, mentre Maurice si guarda allo specchio, i pensieri di Maurice. Mentre Marie Corbin viene costruita in un modo che preservi l’estrema ambiguità del personaggio, l’interiorità di Maurice viene esteriorizzata in una maniera che appiattisce il personaggio.

Nel 1947 Clouzot gira Quai des Orfèvres, film che doveva segnare il suo ritorno in punta di piedi nel mondo del cinema e che invece vince il leone d’oro al festival di Venezia. Il film è effettivamente molto più convenzionale del precedente Le Corbeau. Illuminante, da questo punto di vista, è confrontare due scene in cui un personaggio si guarda allo specchio: in Le Corbeau Marie Corbin, inseguita da una folla di forcaioli, raggiunge la sua casa e la trova devastata. Si guarda allora in uno specchio rotto, realizzando forse la sua frattura interiore, dovuta al suo trovarsi improvvisamente espulsa dalla comunità. La scena non ha musica di accompagnamento. In Quai des Orfèvres invece abbiamo un’impostazione più tradizionale: Maurice (Bernard Blier) si guarda allo specchio dopo aver deciso di uccidere quello che crede l’amante della compagna. La musica suggerisce didascalicamente che l’atmosfera è molto tesa. Ancor più didascalicamente sentiamo, mentre Maurice si guarda allo specchio, i pensieri di Maurice. Mentre Marie Corbin viene costruita in un modo che preservi l’estrema ambiguità del personaggio, l’interiorità di Maurice viene esteriorizzata in una maniera che appiattisce il personaggio.

L’Enfer, iniziato nel 1964 e mai terminato, doveva essere un esperimento formale radicale, in risposta alle nuove tendenze del cinema mondiale e a quella critica francese (Truffaut in testa) che lo aveva marchiato come passé. Del film restano tredici ore di girato, sulle quali Serge Bromberg ha realizzato il bellissimo documentario L’Enfer d’Henri-Georges Clouzot nel 2009, e diverse testimonianze che ci svelano l’interesse di Clouzot nel realizzare un’opera in cui fosse cancellato il confine tra l’interiorità del personaggio di Serge Reggiani, un marito geloso ossessionato dalla paura di essere tradito dalla giovane moglie, e il mondo da questo abitato.

L’Enfer, iniziato nel 1964 e mai terminato, doveva essere un esperimento formale radicale, in risposta alle nuove tendenze del cinema mondiale e a quella critica francese (Truffaut in testa) che lo aveva marchiato come passé. Del film restano tredici ore di girato, sulle quali Serge Bromberg ha realizzato il bellissimo documentario L’Enfer d’Henri-Georges Clouzot nel 2009, e diverse testimonianze che ci svelano l’interesse di Clouzot nel realizzare un’opera in cui fosse cancellato il confine tra l’interiorità del personaggio di Serge Reggiani, un marito geloso ossessionato dalla paura di essere tradito dalla giovane moglie, e il mondo da questo abitato.

Alcune riflessioni sul cinema e sugli attori, da un dialogo con i registi Massimiliano e Gianluca De Serio

Gianluca e Massimiliano De Serio sono due fratelli gemelli che condividono la passione per il cinema, da più di dieci anni scrivono sceneggiature e realizzano film, l’interesse per il cinema e per il teatro arriva quando sono ancora bambini. Di Daniela De Luca

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I fratelli De Serio.

Gangster Squad

Gangster Squad dimostra come la sola presenza di un cast di attori ritenuti di alto livello – e la partecipazione di un attore in particolare – non possa essere sufficiente a garantire la buona riuscita di un film. È essenziale che il regista sia in grado di cogliere la genialità di quell’attore e di mostrarcela generosamente. Di Daniela De Luca

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La locandina del film. Al centro in alto Sean Penn insieme a due personaggi della Gangster Squad, gli attori Ryan Gosling e Josh Brolin.

Il primo piano di Mickey Cohen – Sean Penn in un momento di tensione all’inizio del film: uno degli sgherri del boss ha commesso un errore e implora il perdono, lo sguardo ottenuto in risposta anticipa l’epilogo.

Amour

Amour è un film di Michael Haneke, vincitore quest’anno della Palma d’Oro a Cannes, interpretato da Jean-Louis Trintignant e Emanuelle Riva. A un’analisi critica il film risulta decisamente diverso da ciò che si può pensare. Di Daniela De Luca

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Il fotogramma rappresenta il momento in cui Georges chiede alla moglie se si ricorda di essere stata “assente” per qualche istante, lei risponde che non sa di cosa stia parlando. E’ l’inizio di un precipitarsi di eventi che li porterà ad affrontare momenti difficili.

Gli attori Emanuelle Riva e Jean-Luis Trintignant insieme al regista Michael Haneke sul set del film in un momento della sua realizzazione.

Sette opere di misericordia

Sette opere di misericordia è un film di Gianluca e Massimiliano De Serio, proiettato nelle sale all’inizio del 2012. Il film è stato l’unico lungometraggio italiano in concorso al Festival del Cinema di Locarno del 2011, dove si è aggiudicato il Premio Don Quijote e il Secondo Premio Giuria dei Giovani, e ha partecipato ad altri numerosi Festival in giro per il mondo ottenendo diversi riconoscimenti. Di Daniela De Luca

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Un lungo sguardo intenso tra i due protagonisti: è l’ultimo capitolo, “seppellire i morti”.

Antonio, dimesso dall’ospedale, si incammina finalmente verso casa. Qui lo vediamo mentre, arrivato al piano del suo appartamento, esce dall’ascensore. Si apre il capitolo “alloggiare i pellegrini”. Alle sue spalle c’è Luminita che, un secondo dopo, lo aggredisce e lo spinge dentro casa sua. Chiusa la porta ha inizio il pestaggio e il sequestro.

Un momento di confronto tra Gianluca e Massimiliano durante le riprese del film.

Bellas Mariposas

Bellas Mariposas di Salvatore Mereu è un film che racchiude in sé una grande prova d’attore e di direzione degli attori. Di Enrico A. Pili

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Il regista Salvatore Mereu con Sara Podda e Maya Mulas. L’attore è, in un film come questo, l’elemento centrale. Un risultato straordinario come quello raggiunto da Bellas Mariposas è sempre frutto di un lungo periodo in cui attori e regista imparano a prendere confidenza l’uno dell’altro. Si tratta anche per il regista di avere un preciso disegno stilistico in testa (cosa non da pochi) e per quel regista di riuscire a mettere i propri attori sulla sua strada (cosa ancor più rara). Così si crea quella perfetta alchimia fatta di fiducia reciproca che permette all’attore, non necessariamente interessato ai problemi stilistici del regista, e alla regia, non totalitaria ma aperta a ciò che l’attore potrebbe fare di fronte alla macchina da presa, di fondersi stupendamente.

La lunga sequenza (circa due minuti) del molestatore è emblematica della regia del film come pensata da Mereu, che non solo ha impostato la lavorazione del film sull’ordine cronologico delle scene, ma anche sui long take (sequenze lunghe), momenti che permettono alle attrici, a cui viene quindi dato un grande margine di libertà, di gestire le battute a proprio piacimento.

Buone visioni da Locarno

Il Festival del film di Locarno (1-11 agosto 2012) anche quest’anno dedica grande spazio al cinema d’autore, e non delude. Il nostro Pardo va a un cortometraggio corrosivo, The Mass of Men di Gabriel Gauchet. Di Letizia Gatti

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Locarno. Una veduta di Piazza Grande durante una serata del festival. A volte il pubblico pagante è costretto a prendere posto per terra o in piedi, fatto spiacevole che naturalmente pregiudica in parte se non del tutto la visione dei film.


http://www.youtube.com/watch?v=tiJUqGDN7eE&feature=related
In questa breve scena, tratta dal film No (2012) di Pablo Larraín, René Saavedra (Gabriel García Bernal) mostra ai leader dell’opposizione politica cilena il video realizzato per la campagna referendaria per il “no”. Contro ogni speranza e aspettativa, lo spot, così simile a «una pubblicitá della Coca Cola», si rivelerà l’arma più forte in grado di fermare la «fabbrica del consenso» costruita dal regime.
The Mass of Men, cortometraggio di 16′ di Gabriel Gauchet (2012), UK. «Ispirato agli eventi che ruotano attorno alle rivolte di Londra del 2011 e al successivo discorso infamante tenuto dal Primo Ministro David Cameron, The Mass of Men offre uno sguardo duro sui pericoli della repressione, della disillusione e dell’apatia». Così si legge nel comunicato stampa del film, interpretato da un cast d’eccezione. Nella foto, uno dei momenti iniziali del cortometraggio, quando Peter Falkner (Richard) siede nella sala d’attesa dell’ufficio di collocamento aspettando di parlare con la consulente del lavoro.