Sabotare la narrazione. Il documentario di Kamran Shirdel.

Tra l’11 e il 14 dicembre si è tenuta a Cagliari la ventottesima assemblea generale della FICC (Federazione Italiana Circoli del Cinema). In questa occasione è stato consegnato un premio alla carriera al regista iraniano Kamran Shirdel e sono stati proiettati molti dei suoi lavori. Di Enrico A. Pili

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Una foto che ritrae Kamran Shirdel assieme a Michelangelo Antonioni al terzo Festival Internazionale del Cinema di Teheran del 1974. Per l’occasione fu permesso a Shirdel di completare la realizzazione di Oun Shab Keh Baroun Oumad. Il film vinse il grand prix, ma la gloria durò appena il tempo del festival perché, una volta rincasati gli ospiti internazionali, l’opera tornò all’indice fino al 1979.

In questa sequenza di Oun Shab Keh Baroun Oumad sentiamo il regista istruire gli abitanti del villaggio di Lamelang sulla posa da assumere per le riprese. È certamente uno dei momenti in cui con maggior forza viene ridicolizzata la pretesa del reportage giornalistico di restituire allo spettatore la cosiddetta “realtà oggettiva”.

In questa sequenza di Oun Shab Keh Baroun Oumad sentiamo il regista istruire gli abitanti del villaggio di Lamelang sulla posa da assumere per le riprese. È certamente uno dei momenti in cui con maggior forza viene ridicolizzata la pretesa del reportage giornalistico di restituire allo spettatore la cosiddetta “realtà oggettiva”.

Il giovane favoloso: meno male che non ci sono i pidocchi

L’articolo riprende la questione del Giovane favoloso, già affrontata da Gigi Livio nel numero precedente, mettendo in rilievo, dal punto di vista della storia letteraria, come il film sia lontano dal rendere la straordinaria ricchezza dell’avventura intellettuale leopardiana e al contrario si riduca a una bassa aneddotica biografica. Siccome il film, che ha ottenuto un largo successo di pubblico ed è accompagnato da una martellante campagna di recensioni e interviste, si presenta come un’operazione di mercato di vasta portata (e una brutta operazione), insistere su una analisi critica risulta un dovere non solo culturale ma civile. Di Guido Baldi

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Pasolini e Leopardi “filmati”

L’autore dell’articolo si propone, di fronte a un coro di lodi elevate nei confronti del Giovane favoloso dai mezzi di comunicazione di massa e da molti “intellettuali”, di imitare per quanto sa e può il bambino (cattivo e anche un po’ perfido) che fa notare che il re è nudo. La comparazione poi con Pasolini permette, anche in questo caso, di vedere come i laudatores di opere corrive cadano spesso in errore quando si tratta di raffinare i propri strumenti critici per affrontare un’opera con scopi un po’ più alti di quelli del botteghino e che ha il coraggio di mettere piede nel tempio che, come si dovrebbe sapere, sorge a fianco del mercato. Di Gigi Livio

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Le due locandine servono a intuire, se non proprio a capire (ci vorrebbe la visione integrale dei due film), la differenza di impostazione recitativa tra i due protagonisti. Lasciamo stare l’espediente, tutto da ufficio marketing, del volto rovesciato dell’attore che recita il ruolo di Leopardi: l’allusione al fatto che il film dovrebbe “rovesciare” la solita, per gli autori del film non certo per la storia, interpretazione di Leopardi, è confutata nell’articolo. Qui è forse utile proporre una sorta di comparazione degli sguardi, per ciò che si può dire su immagini non del tutto pregnanti, tra i due attori, Elio Germano e Willem Dafoe. Lo sguardo che Germano usa per recitare la parte di Leopardi è uno sguardo un po’, ma in altre inquadrature anche molto, “perso”, tipico della tradizione basso romantica che legge il poeta come un individuo avulso dal mondo; ovviamente non è il caso di Leopardi, ma nemmeno di qualsiasi poeta della, restringiamo pure il campo, modernità: basterebbe pensare a un altro grandissimo e cioè a Baudelaire. Lo sguardo di Dafoe è offuscato dagli occhiali scuri e soltanto s’intravvede; ma tutto il primo piano è proprio in funzione di quello sguardo che traluce appena -in altre parti del film risulta molto evidente- e la mano, la posizione della testa, la mimica facciale mostrano ciò che esprime lo sguardo e cioè una malinconia senza fine ma virilmente accettata -è anche questa una caratteristica leopardiana, che il giovane favoloso non mette in luce- che non solo non esclude il poeta dal mondo ma che, al contrario, in questo mondo lo radica fortemente visto che lì è l’origine di quella malinconia. Il film non prende in considerazione direttamente Pasolini come poeta, ma sempre sottende alla ‘messa in scena’ del polemista e critico dei costumi il suo essere un poeta. Non anche un poeta, ma proprio un poeta che per il profondo legame che lo stringe al mondo, appunto, non può non farsi critico della società in cui vive (non stessimo parlando di due film bisognerebbe notare che, ancora una volta, ciò vale anche per Leopardi, ciascuno a suo modo ovviamente; e aggiungiamo pure Baudelaire).



Le divergenze di Maresco e Ciprì

L’ultimo film di Daniele Ciprì, La Buca, esce a poche settimane di distanza da Belluscone – una storia siciliana di Franco Maresco. I due registi, un tempo coppia artistica, non potrebbero oggi, alla luce dei loro nuovi lavori, apparire più incompatibili. Di Enrico A. Pili

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Il film di Maresco, girato in digitale con Luca Bigazzi, già direttore della fotografia de Lo zio di Brooklyn e Totò che visse due volte, alterna il bianco e nero al colore. È questa una delle tante articolazioni del disegno stilistico dell’opera: Ciccio Mira, virato in bianco e nero, evoca una presenza umana che non c’è più, che già in lui sopravvive per via negativa. Il colore invece diventa fondamentale per la definizione dei cantanti neomelodici (delle loro abbronzature e dei loro virtuosistici tagli di capelli), così come di tutti quei corpi che, per il regista, fanno parte di una nuova “post-umanità” antropologicamente mutata.

Il film di Maresco, girato in digitale con Luca Bigazzi, già direttore della fotografia de Lo zio di Brooklyn e Totò che visse due volte, alterna il bianco e nero al colore. È questa una delle tante articolazioni del disegno stilistico dell’opera: Ciccio Mira, virato in bianco e nero, evoca una presenza umana che non c’è più, che già in lui sopravvive per via negativa. Il colore invece diventa fondamentale per la definizione dei cantanti neomelodici (delle loro abbronzature e dei loro virtuosistici tagli di capelli), così come di tutti quei corpi che, per il regista, fanno parte di una nuova “post-umanità” antropologicamente mutata.

Il fotogramma, tratto dal film La buca, ci pare mostrare bene che il lavorio del regista sulla pellicola, mirato a dare a questa i colori «di un film antico», si risolve in un effetto pastello che, invece di straniare, o «evocare» come piace dire al regista, avvicina il film ai colori delle miniserie televisive italiane e alle scene oniriche di Un posto al sole. Nonostante infatti Ciprì sia soprattutto fotografo, e il lavoro su Vincere di Marco Bellocchio aveva fatto da questo punto di vista sperare in qualcosa di meglio, ci pare che la fotografia sia un altro elemento de La bucadecisamente da dimenticare.

Le meraviglie

Le meraviglie di Alice Rohrwacher, vincitore del premio speciale della giuria all’ultimo festival di Cannes, conferma il grande talento e la sensibilità straordinaria che già emergevano in Corpo celeste, uno dei film italiani più interessanti perlomeno degli ultimi dieci anni. Di Enrico A. Pili

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Le meraviglie di Alice Rohrwacher, vincitore del premio speciale della giuria all’ultimo festival di Cannes, conferma il grande talento e la sensibilità straordinaria che già emergevano in Corpo celeste, uno dei film italiani più interessanti perlomeno degli ultimi dieci anni. Di Enrico A. Pili

A proposito di Vite vendute di Henri-Georges Clouzot e Il salario della paura di William Friedkin

Il mese scorso, al cinema Massimo di Torino, è stato riproposto, in occasione del suo restauro, il film Il salario della paura (The Sorcerer, 1977) di William Friedkin. Il film è tratto dal libro Le Salaire de la peurdi Georges Arnaud, che aveva già ispirato, nel 1953, l’omonimo film di Henri-Georges Clouzot, arrivato in Italia con il titolo di Vite vendute. Di Enrico A. Pili

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I due fotogrammi sono relativi ai momenti che precedono la morte dei protagonisti dei due film. Nel primo Montand mostra un ghigno felice e soddisfatto: i soldi ottenuti dalla compagnia petrolifera gli han fatto dimenticare gli amici morti (incluso Vanel, della cui morte si è reso responsabile) e gli fan sognare lussi da tempo dimenticati. Euforico, inscenerà alla guida del proprio camion una danza che lo porterà a precipitare da un dirupo. Clouzot ci mostra un mondo atroce nel quale i miserabili si fanno la guerra tra di loro per le briciole di pane che cadono dalla tavola imbandita degli sfruttatori. Yves Montand, sopravvissuto ai suoi simili che, come gli scarafaggi della prima sequenza del film, erano legati a lui da un filo che qualcun altro aveva legato, è finalmente libero di muoversi in libertà, ma è la libertà illusoria ed effimera di chi è rimasto uno sfruttato, uno “scarafaggio sociale”. Il secondo fotogramma ci mostra invece Roy Scheider, appena tornato a Las Piedras dopo la missione. Mentre i suoi compagni di tavolo gli parlano, il suo sguardo è assente e la macchina da presa va a stringere sul suo volto, isolandolo nella sua solitudine. Siamo di fronte al momento epifanico nel quale il nostro eroe comprende finalmente la vanità del tutto e decide di andare incontro a quella che, di lì a pochi secondi, sarà la sua morte per mano dei killer che un boss mafioso gli ha messo alle calcagna. Il messaggio è che il mondo e tutto ciò che vi accade non è un nostro problema: la violenza quotidiana che abbiamo sotto gli occhi e dentro di noi è un destino inalienabile. Non esistono rapporti di forza, non esiste la società o la cultura, non esistono nemmeno i nostri vicini, ma solo noi, chiusi in noi stessi di fronte a un destino avverso. Inutile dire che questa cinica visione del mondo è spesso uno degli alibi di chi cerca giustificazioni per la violenza che è lui stesso a praticare.

I due fotogrammi sono relativi ai momenti che precedono la morte dei protagonisti dei due film. Nel primo Montand mostra un ghigno felice e soddisfatto: i soldi ottenuti dalla compagnia petrolifera gli han fatto dimenticare gli amici morti (incluso Vanel, della cui morte si è reso responsabile) e gli fan sognare lussi da tempo dimenticati. Euforico, inscenerà alla guida del proprio camion una danza che lo porterà a precipitare da un dirupo. Clouzot ci mostra un mondo atroce nel quale i miserabili si fanno la guerra tra di loro per le briciole di pane che cadono dalla tavola imbandita degli sfruttatori. Yves Montand, sopravvissuto ai suoi simili che, come gli scarafaggi della prima sequenza del film, erano legati a lui da un filo che qualcun altro aveva legato, è finalmente libero di muoversi in libertà, ma è la libertà illusoria ed effimera di chi è rimasto uno sfruttato, uno “scarafaggio sociale”. Il secondo fotogramma ci mostra invece Roy Scheider, appena tornato a Las Piedras dopo la missione. Mentre i suoi compagni di tavolo gli parlano, il suo sguardo è assente e la macchina da presa va a stringere sul suo volto, isolandolo nella sua solitudine. Siamo di fronte al momento epifanico nel quale il nostro eroe comprende finalmente la vanità del tutto e decide di andare incontro a quella che, di lì a pochi secondi, sarà la sua morte per mano dei killer che un boss mafioso gli ha messo alle calcagna. Il messaggio è che il mondo e tutto ciò che vi accade non è un nostro problema: la violenza quotidiana che abbiamo sotto gli occhi e dentro di noi è un destino inalienabile. Non esistono rapporti di forza, non esiste la società o la cultura, non esistono nemmeno i nostri vicini, ma solo noi, chiusi in noi stessi di fronte a un destino avverso. Inutile dire che questa cinica visione del mondo è spesso uno degli alibi di chi cerca giustificazioni per la violenza che è lui stesso a praticare.

Su alcuni film usciti al cinema lo scorso mese

Alcune opinioni su Dallas Buyers ClubGrand Budapest Hotel e Nymphomaniac vol.1. Di Enrico A. Pili

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Matthew McConaughey in Magic Mike (diretto da Steven Soderbergh nel 2012) e in Dallas Buyers Club (Jean-Marc Vallée, 2013). Nel film di Vallée l’attore Matthew McConaughey appare visibilmente denutrito, in netto contrasto con l’immagine di muscoloso sex symbol sostenuta nei suoi film precedenti. L’oscar da lui vinto dimostra come sia ancora egemone l’idea secondo la quale la dote principale di un attore è la sua capacitè di essere “naturale” nelle vesti del personaggio da lui interpretato. Emerge il peso opprimente di una cultura cinematografica che fa dell’imitazione della natura il metro di valutazione dell’abilità di un attore, cultura nella quale resiste l’idea per la quale il sex symbol che voglia dimostrare di essere un “vero attore” dovrà per forza ripudiare la propria immagine divistica e rendersi “brutto” all’occhio dello spettatore medio, attraverso un lungo training fisico e pesanti sedute di trucco, indispensabili per supportare il suo “grande ruolo drammatico” (vedi anche Charlize Theron in Monster del 2003).

Matthew McConaughey in Magic Mike (diretto da Steven Soderbergh nel 2012) e in Dallas Buyers Club (Jean-Marc Vallée, 2013). Nel film di Vallée l’attore Matthew McConaughey appare visibilmente denutrito, in netto contrasto con l’immagine di muscoloso sex symbol sostenuta nei suoi film precedenti. L’oscar da lui vinto dimostra come sia ancora egemone l’idea secondo la quale la dote principale di un attore è la sua capacitè di essere “naturale” nelle vesti del personaggio da lui interpretato. Emerge il peso opprimente di una cultura cinematografica che fa dell’imitazione della natura il metro di valutazione dell’abilità di un attore, cultura nella quale resiste l’idea per la quale il sex symbol che voglia dimostrare di essere un “vero attore” dovrà per forza ripudiare la propria immagine divistica e rendersi “brutto” all’occhio dello spettatore medio, attraverso un lungo training fisico e pesanti sedute di trucco, indispensabili per supportare il suo “grande ruolo drammatico” (vedi anche Charlize Theron in Monster del 2003).

Un breve ricordo di Alain Resnais

«L’Asino Vola» ha deciso, a un mese dalla sua morte, di ricordare il regista Alain Resnais, meritatamente considerato uno dei registi più importanti nella storia del cinema occidentale. Di Enrico A. Pili

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«La mia parola d’ordine, in un certo senso, è: approfittiamo del cinema per fare tutto quello che ci passa per la testa, visto che ne abbiamo la possibilità»

La politica culturale degli uomini dei monumenti

Monuments Men, prodotto, diretto e interpretato da George Clooney, spinge a riflettere sul sempre attuale problema della cultura museale. Di Enrico A. Pili

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Nel film si ipotizza che il Ritratto di giovane uomo di Raffaello sia stato distrutto dai nazisti verso la fine della guerra. Nella scena che mostra alcuni soldati intenti a bruciarlo assieme ad altri quadri la macchina da presa si avvicina all’opera, così che il giovane uomo ritratto sembra “guardare in macchina” mentre il quadro brucia. La scena riprende l’esordio del film: la primissima sequenza mostra infatti un dettaglio degli occhi di uno dei personaggi del polittico di Gand di van Dick, occhi che sembrano guardare in macchina e appellarsi alla platea del cinema, come a chiedere il suo aiuto.
Lo stratagemma utilizzato da Clooney per dire allo spettatore che i quadri sono testimonianza viva della nostra storia è quindi quello dell’antropomorfizzazione del prodotto artistico, che invoca il nostro aiuto mentre i barbari lo distruggono. La controindicazione di un simile trattamento della storia potrebbe consistere nel fatto che invocare la pietà e la commozione dello spettatore verso il suo simile, in questo caso allo scopo di spingerlo all’azione contro la rimozione della memoria, significa fare leva sui suoi istinti e non sulla sua capacità critica, in una maniera che inibisce ogni possibilità di una riflessione dialettica, e quindi seria, sulla storia.