Un altro sguardo su Welles in Italia

Il libro di Alberto Anile, pubblicato da Il Castoro, ricostruisce il rapporto intenso e travagliato tra l’Italia e Orson Welles. Attraverso documenti, testimonianze e recensioni dell’epoca, il libro offre uno spaccato denso e pungente di un periodo poco noto della carriera dell’artista americano. Di Mariapaola Pierini
Tra il 1947 e il 1953 Welles visse, ma soprattutto lavorò, in Italia e il libro di Alberto Anile ricostruisce, passo a passo, il tormentato rapporto tra Welles e il nostro paese. Si tratta di una fase cruciale, di svolta, in cui Welles abbandona gli Stati Uniti, elegge l’Italia a sua patria adottiva senza però riuscire a sintonizzarsi fino in fondo con il clima culturale e il panorama cinematografico. Sono anni di lavoro intenso e travagliato, in cui si intrecciano cinema, politica, mondanità, amori, affannose ricerche di denaro, battaglie con produttori, feroci polemiche e incomprensioni con i critici. Welles in Italia contribuisce a illuminare, a rendere più nitido e intelligibile un passaggio importante di una carriera artistica nomade e piena di traversie.

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Rileggendo Baudelaire.

Con queste pagine di Baudelaire proseguiamo la pratica di proporre periodicamente le opere di quegli artisti e quei pensatori che formano il nostro retroterra culturale, allo scopo di richiamare alla memoria, con gli esempi più alti dell’arte e del pensiero della tradizione, le radici di quella intricata “pianta” che è la coscienza della modernità.
Di Silvia Iracà

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Foto del 1856-1858 di Gaspard-Félix Tournachon, “Nadar” (1820-1910): «[…] aveva la belllezza grave di un cardinale delle Lettere officiante al cospetto dell’Ideale. Il suo volto [era] glabro e pallido; gli occhi [si muovevano] come soli neri, la bocca aveva una vita distinta nella vita e nell’espressione del volto, era sottile e fremente, di una fine vibrazione sotto l’archetto delle parole. E tutta la testa dominava dall’altezza di una torre l’attenzione attonita degli astanti» (Seché citato da W. Benjamin nei «Passages» di Parigi)

«Si passi in rassegna, si esamini tutto ciò che è naturale, tutte le azioni e i desideri del semplice uomo naturale e non si troverà altro che orrore. Tutto quanto è bello e nobile è il risultato della ragione e del calcolo. Il delitto, di cui la bestia umana ha appreso il gusto nel ventre della madre, è originariamente naturale. La virtù, al contrario, è artificiale e sovrannaturale, giacché sono stati necessari, in tutti i tempi e in tutti i popoli, divinità e profeti per insegnarla all’umanità imbestiata, e l’uomo da solo sarebbe stato impotente a scoprirla. Il male si fa senza sforzo, naturalmente, per fatalità; ma il bene è sempre il prodotto di un’arte» (C. Baudelaire, Scritti sull’arte, Elogio del trucco).

“Il caso” del Caso Scafroglia.

A distanza di quattro anni dall’ultimo, surreale quanto interessante esperimento televisivo del più brillante fra i fratelli Guzzanti, BUR ripropone il meglio della trasmissione Il caso Scafroglia, andata in onda per due mesi soltanto nell’autunno del 2002, pubblicando, unitamente a un libro che raccoglie gran parte dei testi del programma, due dvd che sintetizzano in 240 minuti i momenti salienti di un programma senza paragoni nel panorama televisivo attuale.
Di Chiara Delmastro

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Un primo piano di Corrado Guzzanti, ideatore e interprete del programma Il caso Scafroglia, che fa il verso all’impostato quanto becero conduttore anonimo della trasmissione, una graffiante parodia del bel conduttore superficiale di un programma d’attualità.

Un’immagine che rende molto bene il lucido “delirio a due” tra Corrado Guzzanti e Marco Marzocca, che nel programma è Padre Federico, ovvero un pretino moralista e retrivo che propina il suo “buon senso comune”, condito da abbondante buonismo, rivolgendosi ai giovani che hanno imboccato la via della perdizione… andando in discoteca.

Corrado Guzzanti nei panni del massone, uno dei personaggi creati per il programma; esilarante, ironico, e capace di raggiungere a tratti vertici di impietosa crudeltà, è sicuramente una delle figure di contorno meglio riuscite della trasmissione.

Il secolo del reale: una rivalutazione filosofica del radicalismo novecentesco

Un’ottima occasione per riflettere sulla persistente inadeguatezza del dibattito filosofico italiano ci viene da una raccolta di lezioni tenute dal novembre 1998 al marzo 2000 da Alain Badiou (con una Postfazione dell’autore del 2004), pubblicata da Seuil nel 2005 con il titolo Le siécle e tempestivamente proposta in traduzione italiana da Feltrinelli. Di Oliviero Calcagno
Una riflessione filosofica sul Novecento, non una ricostruzione della filosofia nel Novecento, verso l’enunciazione dei caratteri costitutivi del secolo. Vi è nel XX secolo qualcosa che è stato, ma che ancora va pensato. È da questa prospettiva che si può rovesciare il luogo comune di un secolo “maledetto” e rivalutarne quella passione che, erroneamente individuata e stigmatizzata come ideologica, è stata invece rivolta alla trasformazione della realtà.

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Alain Badiou, Il secolo, Milano, Feltrinelli, 2006. Traduzione italiana di Vera Verdiani, 204 pp.


Furor di popolo

«Ho fatto un lavoro e non uno spettacolo / Poiché il teatro non intrattiene casomai pertiene e trattiene, / non è strumento d’evasione, casomai imprigiona» (dal programma di sala di Furor di Popolo). Di Donatella Orecchia
Ospite quest’estate al festival di Castiglioncello, Claudio Morganti ha proposto il suo ultimo spettacolo Furor di popolo, un breve e folgorante esempio di teatro ‘politico’ dove, a una farsa grottesca (da Strindberg) segue un’intensa, asciutta e sentita lettura di brani di scritti politici di Pinter, di Gustavo Modena e di Büchner. Si tratta di un lavoro di grande interesse soprattutto nel suo porre l’accento su una questione nodale oggi, dopo gli anni del disimpegno postmoderno: l’urgenza di recuperare la dimensione dell’impegno politico e dell’intervento attivo sulla contemporaneità da parte dell’artista. Senza con ciò negare la specificità del lavoro sulla forma e sul linguaggio.

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Il busto di Gustavo Modena, attore fra i più grandi dell’Ottocento italiano, il cui impegno fu sempre contemporaneamente artistico e politico. In Furor di popolo Morganti legge una lettera da lui indirizzata ad Achille Majeroni nel 1857. «Avete letto le lettere di Modena? Sono di una cattiveria disillusa, impressionanti, ma non si discute la posizione, non c’è dubbio su dove mettersi, ecco, una cosa importante per noi credo sia riuscire a non avere dubbio di dove si sta. Non ho dubbio, su questo, posso morire di dolore perché il resto del mondo va nella direzione opposta, ma io in quella direzione vado, basta, non è discutibile quella questione» (Claudio Morganti).

Harold Pinter nella veste ‘insolita’ di attore nell’Ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett, spettacolo che è andato in scena al Royal Court’s Jerwood Theatre, nel mese di ottobre di quest’anno per la regia Ian Rickson. Tanto in Pinter quanto in Morganti l’impegno all’intervento diretto e alla presa di posizione netta sulla contemporaneità non si possono disgiungere da un impegno di ricerca sulla forma. E qui, e non è un caso, entrambi in un dialogo a distanza arrivano a confrontarsi con Beckett. L’amara sorte del servo Gigi di Morganti è una riscrittura di Krapp. La conclusione di Furor di popolo è la lettura del discorso di Pinter per il conferimento del Nobel.

«Claudio Morganti mentre grattugia un pezzo di pecorino» (didascalia di Claudio Morganti e di Rita Frongia). Alla richiesta di un’immagine da inserire come commento al presente articolo in assenza di fotografie relative allo spettacolo, Morganti ha segnalato questa. In una società che spettacolarizza ogni cosa per decurtarla del potenziale di contraddizione, un attore che sale sul palco per esprimere il suo furore artistico e civile con una forza che non può lasciare indifferenti e che poi per raccontarsi sceglie una grattugia, un pezzo di pecorino, un piatto di pasta, senza cedere però alla tentazione del facile ammicco (il suo volto non ammicca, l’immagine stessa, così poco patinata, non ammicca): ecco è scomodo. Difficile da collocare. Difficile da archiviare.

Walter Benjamin pensatore della e nella modernità.

Proponiamo alcune pagine di Walter Benjamin, uno dei più acuti critici della cultura e dell’arte moderne, tratte dalle Tesi di filosofia della storia e dai “Passages” di Parigi. Per indagare il volto contraddittorio della modernità.Di Donatella Orecchia
In questo spazio che l’“Asinovola” riserva alle riflessioni dei classici della modernità, Benjamin non poteva certo mancare, a patto però di sottrarlo a quella lettura postmoderna che fa di lui un geniale quanto criptico pensatore, prosatore dal seducente e frammentato periodare, i cui scritti possono essere citati senza confrontarsi con la matrice ideologica che li informa. E con la rabbia politica che li sostiene.

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La rivoluzione del secolo diciannovesimo e la tradizione

L’inizio del 18 brumaio di Luigi Napoleone di Marx costituisce uno dei testi fondamentali per comprendere il pensiero del fondatore del comunismo sulla storia. Di Gigi Livio

Riproponiamo una pagina di Marx tratta dal suo studio storico sulla presa del potere da parte di Napoleone III
attraverso il colpo di stato del 2 dicembre 1851. Si tratta dell’inizio del 18 brumaio in cui Marx svolge l’argomentazione
a proposito dell’uso della tradizione che fa ogni rivoluzione comparando ciò che avvenne durante la rivoluzione francese,
dopo il colpo di stato di Napoleone I (9 novembre 1799) con ciò che sta succedendo al tempo con l’avvento di Napoleone III.
È il per altro famosissimo brano in cui il fondatore del comunismo dimostra quanto sia vera la sua affermazione per cui
“tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia” si mostrano nel mondo “la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”.

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Il controllo della parola. Il ritorno di un discorso critico sull’industria culturale?

È uscito un nuovo libro di André Schiffrin dedicato al tema delle concentrazioni editoriali. Un volume interessante e utile. Con qualche limite. Di Armando Petrini
Il francese André Schiffrin torna a occuparsi di concentrazioni editoriali. In questo volume, Il controllo della parola, l’attenzione maggiore è dedicata al caso francese e a quello inglese.
Schiffrin mette bene a fuoco la pericolosità dei meccanismi di concentrazione editoriale ed evidenzia con efficacia il “controllo della parola” che essi consentono. Il discorso è in questo senso molto interessante, basandosi oltretutto su analisi puntuali e precise dei dati disponibili.
Dove il discorso di Schiffrin si fa meno convincente è invece nello sguardo complessivo sull’industria culturale, la cui efficacia dipende certo dal controllo economico ma, allo stesso tempo, anche e forse soprattutto, dal capillare e apparentemente invisibile controllo ideologico di cui il “sistema” dell’industria culturale si mostra capace.

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Due pagine di Picasso

L’artista spagnolo nei suoi scritti dice di sé: “Io sono un comunista e la mia pittura è comunista. […] Se però fossi stato calzolaio, monarchico o comunista, non avrei necessariamente dovuto martellare i chiodi in modo speciale per dimostrare le mie tendenze politiche” Di Maria Pia Petrini
L’artista che ha rivoluzionato l’arte del suo tempo, stravolgendone radicalmente il linguaggio con l’arma della pittura è stato anche un rivoluzionario in lotta contro l’esistente. Ma in anni di ‘oppressione terribile’ l’arte non è stata più sufficiente, e come ‘conseguenza logica’ di tutto il suo lavoro e la sua vita ha aderito al Partito Comunista francese.

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Autoritratto
, 1907
Olio su tela, 50X46 cm

‘L’arte ci offre la possibilità di esprimere la nostra concezione e la nostra intelligenza di ciò che la natura non ci dà mai in forma assoluta. Dai primitivi, la cui arte era estremamente lontana dalla natura fino agli artisti come David, Ingres e perfino Bourguereau, tutti i pittori che rappresentavano la natura capivano bene che l’arte era sempre arte e mai la natura’.
(Pablo Picasso, Scritti, Milano, Se, 1998, p20)

‘L’arte non è l’applicazione di un canone di bellezza, ma ciò che l’istinto e il cervello possono concepire insipendentemente da ogni canone’.
(Pablo Picasso, Scritti, Milano, Se, 1998, p31)
Guernica, 1937
Olio su tela, 349,3X776,6 cm

‘Il conflitto spagnolo è la lotta della reazione contro il popolo, contro la libertà. Tutta la mia vita d’artista non è stata altro che una lotta continua contro la reazione e contro la morte dell’arte.
[…] Nella tela a cui sto lavorando, Guernica, ed in tutte le mie opere d’arte recenti, io esprimo chiaratamente il mio odio per la casta militare che ha sprofondato la Spagna in un oceano di morte e di dolore’.
(Pablo Picasso, Scritti, Milano, Se, 1998, p34)



SALOMè di Unoetrino. Un appunto.

Il nuovo spettacolo di Unoetrino si inserisce in quella corrente, non ancora certamente maggioritaria, che tende a riscoprire i fondamento del moderno in funzione anti-postmoderno. Di Gigi Livio
SALOMè è una spettacolo di Unoetrino che si presenta con caratteristiche decisamente interessanti per chi, come noi, è alla ricerca di tutto ciò che nel campo della cultura e dell’arte intende opporsi alla stagione definita del post-moderno. Non si propone una recensione allo spettacolo ma soltanto un “appunto” a proposito proprio di questa tendenza che risulta solamente un aspetto del lavoro di Unoetrino e non esaurisce certo il discorso su questo lavoro.

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