È uscito per i tipi di Bulzoni un importante e stimolante libro di Anna Barsotti dedicato a Eduardo, Fo e l’attore-autore del Novecento. Di Armando Petrini Anna Barsotti affronta in questo volume almeno tre nodi fondamentali della storia della scena del Novecento. Innanzi tutto la crucialissima linea dell’attore-autore, qui esemplificata in Eduardo De Filippo e Dario Fo. In secondo luogo la crisi della forma dialogica e della conseguente centralità del monologo. Infine l’intreccio fra registro tragico e registro comico presente nelle punte più alte dell’arte teatrale – e non solo teatrale – novecentesca.
L’Asino vola ospita volentieri le riflessioni critiche di uno studente della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Torino su Into the Wild, il recente film di Sean Penn. Di Enrico Pili
Il film Into The Wild di Sean Penn, recentemente uscito nelle nostre sale, è un’operazione patriottarda condotta attraverso uno stile che oscilla abilmente tra naturalismo e simbolismo. La reazione registrata dalle cronache e dai commenti sulle pagine della stampa italiana, commossa e favorevole quasi all’unanimità, porta a riflettere sul problema costituito da una critica incapace di analizzare e determinare il valore del prodotto culturale di fronte a cui si pone, giudicato secondo i criteri di un gusto che è il riflesso del pensiero dominante veicolato dall’industria culturale.
Uno dei primi piani in cui il protagonista (Emilie Hirsch) invita lo spettatore a commuoversi con lui. Il trucco naturalistico mostra come il personaggio suoni immediatamente falso, costruito com’è secondo i bisogni dello spettatore, che va rassicurato: la barba deve dare l’idea di una situazione di vita “selvaggia”, ma è troppo curata, il viso è troppo pulito, e i denti sono bianchissimi.
Una scena di comunione con la Natura, in cui il protagonista “abbraccia” con gioiosa gratitudine il creato.
Il recente licenziamento di Daniele Luttazzi dalla 7 è stato commentato da Giuliano Ferrara con una lettera a “la Repubblica”. Questo breve scritto intende confutare gli argomenti contenuti in quella lettera. Di Gigi Livio
Giuliano Ferrara commenta, con una lettera pubblicata su “la Repubblica”, il licenziamento di Daniele Luttazzi dalla 7 e la sospensione del suo programma Decameron. In due colonne di giornale svolge un ragionamento assai semplice: nella democrazia capitalistica la libertà di parola non esiste o esiste solo fino a un certo punto. Dire che tutto ciò è discutibile è dire poco: si tratta di un autentico attacco alla libertà di satira così come è praticata da un attore comico che sa usare un tipo particolare di comicità ‘fredda’ in modo estremamente interessante.
Sarebbe troppo facile e superficiale leggere questa immagine soltanto come un’irrisione alla religione cristiana. Certo questo elemento è presente dal momento che Luttazzi non nasconde il fatto di non amare le religioni. Ma, più in profondo, c’è anche, e forse soprattutto, la rabbia per un mondo che ha smarrito il significato del sacro e che rende tutto merce anche attraverso la religione.
Il tema del lavoro è da qualche tempo tornato all’attenzione del mondo della cultura, della letteratura prima e del cinema e del documentario sociale oggi: ne sono un esempio i recenti Signorina Effe di Wilma Labate e Parole sante di Ascanio Celestini. Oltre che storica la differenza di prospettiva tra i due lavori è anche formale: in tale differenza si apre uno spazio per una possibile riflessione. Di Silvia Iracà e Armando Petrini La Fiat scossa dall’ultima grande lotta operaia e dalla reazione dei “colletti bianchi” agli inizi degli anni ottanta; gli scioperi e le contestazioni del triennio 2004-2006 del Collettivo dei lavoratori precari di Atesia, il più grande call center d’Italia: due episodi significativi della passata e recente lotta di classe sono i temi che una cineasta e un teatrante scelgono di affrontare nei rispettivi lavori Signorina Effe e Parole sante. A dispetto del pensiero dominante che da qualche decennio vorrebbe le classi sociali finite insieme con la “storia”, e il lavoro un parametro di convivenza sociale ormai vecchio e desueto, la realtà che si ricompone davanti alla macchina da presa in queste due opere è quella del diritto alla dignità del lavoro come primo e imprescindibile presupposto di affermazione individuale e di consapevole partecipazione sociale.
Lo Studio per Woyzeck di Claudio Morganti. Di Mariapaola Pierini
Non sono molte le occasioni per vedere il teatro di Claudio Morganti. Il suo è un percorso appartato. Morganti ha scelto da tempo di stare a lato, portando avanti con ostinazione e rigore una pratica teatrale che sfugge a compartimentazioni e a logiche mercantili e spettacolari.
Quando il suo lavoro arriva sul palcoscenico, come è accaduto di recente in occasione delle cinque rappresentazioni dello studio per Woyzeck al Teatro della Tosse di Genova, le ragioni del difficile rapporto tra Morganti e il sistema teatrale sembrano diventare immediatamente più chiare. Il lavoro condotto con i giovani attori della nuova compagnia della Tosse non approda infatti a uno spettacolo, perché così non potrebbe essere.
Non si esce da teatro appagati, sazi, bensì affamati. Privo di pienezza pacificante, di forme chiuse, fissate e ripetibili, il teatro di Morganti fugge dalla logica della replica, poiché è un teatro che accade – come lui stesso ha più volte sottolineato -, dove salire sul palcoscenico non significa mostrare l’esito, la produzione, quanto portare alla luce un pezzo di un percorso che si presuppone infinito, imprevisto e imprevedibile.
In occasione della retrospettiva dedicata al cinema di Werner Herzog, attualmente in programmazione al Museo nazionale del cinema di Torino, l’Asino vola ospita volentieri l’intervento di uno studente della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Torino, che riflette sull’arte dell’attore-icona del cineasta tedesco. Di Luca Giglio
“Io non sono il Gesù della chiesa ufficiale, tollerato da polizia, banchieri, giudici, boia, militari, capi della chiesa, politici e altri uomini di potere, io non sono la vostra superstar”. Con queste parole Klaus Günther Nakszynsky, in arte Klaus Kinski, terminava in anticipo nel 1971, tra insulti e fischi del pubblico, la tournée teatrale di un Gesù Cristo atipico intitolata Jesus Christus Erloser dove, con un’originalissima fusione tra Nuovo Testamento e improvvisazione nervosa, spedì all’inferno chiesa e preti. Oggi un attore di questo calibro è difficile da scovare anche nei più sperimentali teatri o set cinematografici; sì perché di Kinski ce n’è stato uno solo, forse l’ultimo grande caratterista del secolo passato.
La chiesa è in Italia fuori di discussione: chi la attacca lo fa a proprio rischio e pericolo; e Luttazzi è stato licenziato per evitare che andasse in onda una puntata del suo Decameron sulla Spe salvi, l’ultima enciclica papale. L’Asino vola
Esce in una nuova traduzione italiana uno scritto di Louis Jouvet, figura centrale nel teatro del primo Novecento europeo: poche ma dense pagine sull’arte e sul mestiere dell’attore che richiamano gli artisti alla “coscienza professionale” del proprio fare, alla responsabilità delle proprie scelte concrete, alla necessità etica di una ricerca continua, pur nell’inquietudine e nella precarietà delle certezze che caratterizza i suoi e i nostri tempi. Di Donatella Orecchia
Primo piano di Louis Jouvet in Knock del 1951. La truccatura minima, ma evidente, sugli occhi e sulle labbra intende accentuare l’espressività di un volto dai tratti già marcati e fortemente caratterizzati per natura, facendone, in teatro più che in cinema, una maschera in cui austerità e humor nero si coniugano con la nettezza dei dettagli e una lieve ma persistente caricatura (fotografia di Robert Cohen).
Locandina di Knock, ovvero il trionfo della medicina di Jules Romains, al teatro Champs-Élysées. Louis Jouvet era in questo caso non solo l’attore protagonista, ma anche il regista.
Il telefilm statunitense C.S.I., con i suoi due spin-off, costituisce un spia molto evidente del riemergere di una tematica che, a partire dal Barocco, si è ciclicamente ripresentata – nel Seicento a livello artistico, e nell’ambito dell’intrattenimento televisivo oggi-: l’“orroroso”. Un tema che, abilmente adoperato dal potere, diviene ora uno strumento politico estremamente sottile e insidioso. Di Chiara Delmastro
Negli ultimi anni si è potuto assistere a un ampio riemergere della tematica dell’“orroroso” – in televisione, con fiction e programmi sul genere, al cinema e in letteratura – sostenuto da un cospicuo successo di pubblico; si tratta di un motivo che, pur se con sostanziali differenze, riaffiora periodicamente a partire dal Barocco sino a giungere a oggi, con telefilm sul modello dello statunitense C.S.I.
La Medusa di Caravaggio: un esempio eccellente della rappresentazione delle inquietudini dell’uomo del Barocco, immerso in una realtà che non lo vedeva più come il centro del mondo; questa immagine dimostra come il “brutto” in arte possa essere al contempo molto “bello” e magneticamente inquietante.
Un particolare che mostra in modo molto evidente con quanta meticolosa cura gli ideatori delle serie di C.S.I. presentino anche i dettagli più “orrorosi”, senza nulla celare agli occhi dello spettatore, che può così appagare e placare ogni possibile istinto perverso: lo scopo del potere è quello di appiattire e normalizzare l’individuo, privandolo di ogni potenziale impulso eversivo.
Rivedere i film di Petri a distanza di vent’anni e leggere le sue riflessioni sul senso dell’operare artistico nella società contemporanea può aiutarci a comprendere meglio il nostro tempo: comprendere, cioè, che oggi come allora l’azione di un artista che rifugge le facili consolazioni tanto care all’industria culturale è una strada che conduce al travisamento e all’isolamento. Di Silvia Iracà
Quest’anno ricorre il venticinquesimo anniversario dalla morte di Elio Petri (morì il 10 novembre 1982 a 53 anni). Lo scorso settembre il Museo Nazionale del Cinema di Torino ha proiettato la retrospettiva completa dei suoi film. Contemporaneamente è uscita nelle librerie una raccolta di scritti del regista curata dal critico e studioso Jean Gili (Elio Petri, Scritti di cinema e di vita, a cura di Jean A. Gili, Bulzoni, Roma, 2007, pp. 252, euro 20), scritti che mostrano la consapevolezza artistica e l’impegno politico di Petri nel corso dei decenni, dagli esordi come critico cinematrografico e sceneggiatore alla contrastata affermazione come regista: gli stessi decenni che furono segnati dalla ricostruzione post-bellica, dal boom economico, dalla guerra fredda, dal sessantotto e le grandi lotte di classe e dalla successiva deriva reazionaria degli anni di piombo, ma anche dalla progressiva involuzione culturale posta in essere dalla logica omologante dell’industria culturale (e cinematografica in particolare), all’indomani di una delle stagioni artisticamente più fertili del cinema italiano, quella del neorealismo.
«Quando Volonté si lasciava coinvolgere dal personaggio, specialmente con Petri, era l’eccesso nevrotico o sussiegoso a ristabilire la distanza, a tradire la condizione alienante in cui questo agiva marcando la somiglianza con il personaggio fino all’esasperazione e sortendo per eccesso di naturalismo effetti opposti, voluti, di astrazione, disagio, paradosso. Di programmatico straniamento» (A. G. Mancino, La maschera sociale, in Gian Maria Volonté. Lo sguardo ribelle, Fandango, Roma, 2004). «Nell’ultimo periodo della mia vita, io ho fatto film sgradevoli. Sì, film sgradevoli in una società che ormai chiede la gradevolezza a tutto, persino all’impegno… I miei film, al contrario, oltrepassano addiritura il segno della sgradevolezza. A cosa è imputabile tutto questo? Perché faccio film così? Evidentemente è per via di una netta sensazione di essere arrivato al punto in cui mi pare che tutte le premesse che c’erano quando io ero ragazzo, si siano proprio vanificate» (Elio Petri, testo tratto dal DVD Elio Petri, appunti su un autore, Feltrinelli, Milano, 2005).
Elio Petri e, sullo sfondo, Pier Paolo Pasolini durante l’occupazione del Centro Sperimentale di Cinematografia (Roma, 1968). «Come la struttura sociale si basa sul sistema dell’esclusione dal possesso dei mezzi di produzione e del potere degli strati immensi degli operai e dei contadini, così il sistema […] della cultura si d[à] nella cosciente esclusione della comunicazione della stragrande maggioranza dei contemporanei» (Elio Petri su “Bianco e Nero”, 1972).