Arte, passione civile e disincanto in Elio Petri

Rivedere i film di Petri a distanza di vent’anni e leggere le sue riflessioni sul senso dell’operare artistico nella società contemporanea può aiutarci a comprendere meglio il nostro tempo: comprendere, cioè, che oggi come allora l’azione di un artista che rifugge le facili consolazioni tanto care all’industria culturale è una strada che conduce al travisamento e all’isolamento. Di Silvia Iracà

Quest’anno ricorre il venticinquesimo anniversario dalla morte di Elio Petri (morì il 10 novembre 1982 
a 53 anni). Lo scorso settembre il Museo Nazionale del Cinema di Torino ha proiettato la retrospettiva completa dei suoi film. Contemporaneamente è uscita nelle librerie una raccolta di scritti del regista curata dal critico e studioso Jean Gili (Elio Petri, Scritti di cinema e di vita, a cura di Jean A. Gili, Bulzoni, Roma, 2007, pp. 252, euro 20), scritti che mostrano la consapevolezza artistica e l’impegno politico di Petri nel corso dei decenni, dagli esordi come critico cinematrografico e sceneggiatore alla contrastata affermazione come regista: gli stessi decenni che furono segnati dalla ricostruzione post-bellica, dal boom economico, dalla guerra fredda, dal sessantotto e le grandi lotte di classe e dalla successiva deriva reazionaria degli anni di piombo, ma anche dalla progressiva involuzione culturale posta in essere dalla logica omologante dell’industria culturale (e cinematografica in particolare), all’indomani di una delle stagioni artisticamente più fertili del cinema italiano, quella del neorealismo.

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«Quando Volonté si lasciava coinvolgere dal personaggio, specialmente con Petri, era l’eccesso nevrotico o sussiegoso a ristabilire la distanza, a tradire la condizione alienante in cui questo agiva marcando la somiglianza con il personaggio fino all’esasperazione e sortendo per eccesso di naturalismo effetti opposti, voluti, di astrazione, disagio, paradosso. Di programmatico straniamento» (A. G. Mancino, 
La maschera sociale, in Gian Maria VolontéLo sguardo ribelle, Fandango, 
Roma, 2004).
«Nell’ultimo periodo della mia vita, io ho fatto film sgradevoli. Sì, film sgradevoli in una società che ormai chiede la gradevolezza a tutto, persino all’impegno… I miei film, al contrario, oltrepassano addiritura il segno della sgradevolezza. A cosa è imputabile tutto questo? Perché faccio film così? Evidentemente è per via di una netta sensazione di essere arrivato al punto in cui mi pare che tutte le premesse che c’erano quando io ero ragazzo, si siano proprio vanificate» (Elio Petri, testo tratto dal DVD Elio Petri, appunti su un autore, Feltrinelli, Milano, 2005).

Elio Petri e, sullo sfondo, Pier Paolo Pasolini durante l’occupazione del Centro Sperimentale di Cinematografia (Roma, 1968). «Come la struttura sociale si basa sul sistema dell’esclusione dal possesso dei mezzi di produzione e del potere degli strati immensi degli operai e dei contadini, così il sistema […] della cultura si d[à] nella cosciente esclusione della comunicazione della stragrande maggioranza dei contemporanei» (Elio Petri su “Bianco e Nero”, 1972).


La Finlandia di Aki Kaurismäki.

Il libro di Peter von Bagh è un appassionante viaggio nel mondo 
del regista.
 Di Mariapaola Pierini

Nell’epoca del trionfo degli extra e del culto un po’ voyeuristico del back stage, il colloquio continua 
a serbare il fascino di un evento a cui non ci è dato di assistere, ma al quale paradossalmente ci 
sembra di partecipare in modo più diretto e appassionato. 

Il libro di Peter von Bagh (Aki Kaurismäki. Dialogo sul cinema, la vita, la vodka, uscito recentemente 
da ISBN in collaborazione con la Cineteca di Bologna), che contiene il colloquio tra il critico e 
Aki Kaurismäki, offre al lettore proprio questo senso di vicinanza, il privilegio di avvicinarsi a un regista
tra i più grandi e sfuggenti del cinema contemporaneo.

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Aki Kaurismäki


Lo stato della critica oggi: l’avanguardia. Con un cenno a Cochi e Renato e a Lars von Trier.

La critica attuale, basata per lo più su criteri di gusto non filtrati da solide basi metodologiche, non è più in grado di capire l’avanguardia. Ecco dunque che a questa critica sfuggono fenomeni come quello rappresentato dall’ultima trasmissione televisiva di Cochi e Renato o dall’ultimo film, Il grande capo, di Lars von Trier. Di Gigi Livio È in atto una solo apparente grande confusione della critica; in effetti, i vari recensori, seguendo solo criteri “impressionistici”, e cioè frutto delle loro impressioni, portato tutti avanti, fatte salve le solite eccezioni, un’ideologia conformistica che è l’ideologia delle classi dominanti. Per questo motivo fraintendono tutti quei fenomeni artistici che possono essere ricondotti all’avanguardia che non amano perché permeata da quello spirito “di contraddizione” che la cultura postmoderna ha dichiarato finito. E non possono né comprendere né tantomeno amare quella ribalderia che è sottesa a ogni gesto della vera avanguardia.
L’incomprensione di fenomeni interessanti come quello costituito dalla trasmissione televisiva di Cochi e Renato e decisamente grandi sul piano artistico come l’ultimo film di Lars von Trier, Il grande capo, tutti e due riconducibili, ciascuno a suo modo, al mondo dell’avanguardia, affonda le radici nell’ideologia postmoderna, e dunque antimoderna, di tanta critica.

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Anche il modo di atteggiarsi di Lars von Trier rivela il suo essere “contro” e “diverso”. Quello sguardo è certamente “intrigante”, ma anche “ribaldo”; è decisamente e volutamente “ambiguo” ma anche “perverso”: tutte connotazioni forti di un artista che non intende conformarsi con il modo d’essere della maggioranza degli uomini e che, come tutti gli artisti della modernità, vive a disagio e con sofferenza in un mondo che non comprende e ne vuole più sapere dell’arte. Infatti, nella nostra società, il fato stesso di essere artisti costituisce di per sé una contraddizione proprio per la vocazione dell’arte, quando sia vera arte, a sfuggire alla onnicomprensiva mercificazione.

In questo fotogramma di Dogville si vede bene l’impianto scenico: le case del piccolo paese esistono solamente in pianta e gli attori si muovono “fingendo” i gesti che servono a fruire dello spazio di una casa. Abbiamo così una finzione nella finzione che ottiene un effetto di straniamento per cui lo spettatore non può mai lasciarsi andare al racconto ma è continuamente costretto a ragionare su ciò che succede. E’ questo l’aspetto formale di un film che è tutto volutamente “sfasato”, impostato cioè su una vicenda assai poco credibile ma molto utile per mettere in luce una realtà che, così come è vista dal regista, risulta assai più reale di quanto possa esserla quella di un film a impianto naturalistico.

Il grande capo: il manifesto così come si presenta in Italia.

Un altro sguardo su Welles in Italia

Il libro di Alberto Anile, pubblicato da Il Castoro, ricostruisce il rapporto intenso e travagliato tra l’Italia e Orson Welles. Attraverso documenti, testimonianze e recensioni dell’epoca, il libro offre uno spaccato denso e pungente di un periodo poco noto della carriera dell’artista americano. Di Mariapaola Pierini
Tra il 1947 e il 1953 Welles visse, ma soprattutto lavorò, in Italia e il libro di Alberto Anile ricostruisce, passo a passo, il tormentato rapporto tra Welles e il nostro paese. Si tratta di una fase cruciale, di svolta, in cui Welles abbandona gli Stati Uniti, elegge l’Italia a sua patria adottiva senza però riuscire a sintonizzarsi fino in fondo con il clima culturale e il panorama cinematografico. Sono anni di lavoro intenso e travagliato, in cui si intrecciano cinema, politica, mondanità, amori, affannose ricerche di denaro, battaglie con produttori, feroci polemiche e incomprensioni con i critici. Welles in Italia contribuisce a illuminare, a rendere più nitido e intelligibile un passaggio importante di una carriera artistica nomade e piena di traversie.

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Volver: il ritorno di Almódovar

Il ritorno nelle sale, con meno coraggio ma con un velato e sofferto lirismo, del grande regista spagnolo Di Chiara DelmastroE’ nelle sale italiane dal 19 di maggio Volver, (Tornare) pellicola che segna, appunto, l’atteso ritorno di Pedro Almódovar: un ritorno a vecchie interpreti e vecchi luoghi, che non soddisferà pienamente gli amanti dei suoi film più coraggiosi, ma che, al contempo, svelerà un lato diverso dell’artista, più lirico e sofferto. Fra le attrici, spicca senz’altro una bravissima Penelope Cruz, in tutta la sua sfolgorante bellezza.

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Un giovane Pedro Almodóvar ai tempi dei suoi primi lavori, più marcatamente surreali e grotteschi dell’ultimo Volver.

Un intenso primo piano di Penelope Cruz, attrice che nell’ultimo lavoro del regista spagnolo incarna alla perfezione la poetica peculiare dell’opera.

“La roba” di Sergio Rubini

Un viaggio dell’attore e regista pugliese alle origini dei conflitti che nascono dalla proprietà privata. Di Chiara DelmastroÈ uscito nelle sale italiane, il 24 di febbraio, l’ultimo lavoro di Sergio Rubini, da lui scritto, diretto e interpretato con un acume, una finezza e uno sguardo sottilmente critico decisamente inconsueti nel panorama attuale; il risultato è una pellicola che, utilizzando il genere giallo, lo deforma attraverso un’ottica grottesca, al fine di dipingere un quadro sottilmente critico delle contraddizioni che nascono dalla proprietà privata.

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«Le cose che si posseggono dividono»: da questo assunto di base, Rubini parte con la sua personale analisi circa gli effetti devastanti della proprietà privata che, nel suo ultimo lavoro, è presentata come la causa scatenante di un duro conflitto familiare.

Un primo piano dell’attore e regista Sergio Rubini che, nell’ultimo film da lui diretto e interpretato La terra, non ha esisato a sconciare in modo ripugnante il suo aspetto attarverso il trucco, al fine di rendere esplicita la poetica grottesca alla base della sua opera.

Dalla parte degli attori

Un libro che guarda al cinema da un punto di vista inconsueto. Di Mariapaola Pierini È in libreria Acting. Il cinema dalla parte degli attori di Maurizio De Benedictis. Un libro che guarda al cinema attraverso una carrellata ampia e variegata sugli attori più significativi della sua storia. Dagli Stati Uniti alla Russia, passando per l’Italia, la Francia, la Gran Bretagna e la Svezia, l’autore mette il luce i diversi approcci alla recitazione, i diversi stili, riconoscendo a coloro che stanno ‘al di qua della macchina da presa’ un ruolo fondamentale nella realizzazione di una pellicola cinematografica.

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Viva Zapatero! Rudimenti di contestazione nel tempo della censura.

Un film importante, anche se non privo di qualche ambiguità, che segnala quanto sia ancora embrionale la rinascita di uno spirito critico. Di Chiara Delmastro e Armando Petrini Sabina Guzzanti, cacciata dalla televisione in seguito alle vicende di Raiot, ricostruisce in un film-documentario alcuni noti episodi di censura.
La satira della Guzzanti è arguta, spesso efficace, eppure mostra il suo limite più forte nella incapacità di spingere la lama davvero fino in fondo e di giungere così al cuore del problema, che non è tanto la particolare declinazione attuale del potere (quella berlusconiana), ma il significato stesso del potere in una società capitalistica.

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Good night, and good luck.

Il film di George Clooney riaffronta il problema della libertà di espressione nel periodo maccartista. Di Gigi LivioIl film può essere inserito all’interno di un filone cinematografico di documentazione della realtà storica oggi molto frequentato da Fahrenheit 9/11 a Allende. Tipica opera di un “borghese onesto” affronta il problema del maccartismo, e delle sue ricadute sull’informazione, in modo duro e rigoroso impostato in uno stile scarno e scabro che usufruisce molto efficacemente del bianco e nero.

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George Clooney (a sinistra) dirige un film che intende riproporre un momento di lotta al maccartismo realmente avvenuta. La scelta del bianco e nero, oltre a darci la sensazione dell’epoca in cui si svolsero i fatti, serve al regista -che ritaglia per sé un ruolo secondario- per mettere meglio in evidenza i chiaroscuri: e la cosa gli riesce benissimo perché ha saputo scegliere l’attore protagonista adatto (David Strathairn, a destra) che offre allo spettatore un volto insieme scavato e sereno nella sua determinazione a dare un significato di onestá intellettuale e di rigore morale al suo personaggio.

La scelta di ambientare il film negli studi della Cbs dove avvennero i fatti ottiene due risultati: quello di dare un senso di veritá documentaria alla narrazione e quello di evocare in modo diretto il mondo della televisione con tutti i suoi problemi, le sue luci e le sue ombre. È l’ambiente in cui matura e, in questo caso esemplare, si concretizza la rivolta nei confronti dell’ingiustizia sociale e culturale che il senatore McCarthy perpetra nei confronti soprattutto del proprio paese e in chi crede ai valori della democrazia e della costituzione.

David Strathairn fornisce in questo film una prova d’attore eccezionale. Recitando in modo asciutto e scabro, senza i riboboli e i barocchismi propri degli attori americani che si ispirano al metodo dell’Actors Studio, riporta il suo mestiere verso quell’orizzonte artistico che serve a esprimere l’oggettività delle cose e non la psicologia individuale, propria di un individualismo esasperato, attraverso il cui filtro vedere e giudicare la realtà. Una certa leggera tensione rivelata costantemente dal suo sguardo ci ricorda che il vero coraggio, quello dell’uomo cosciente di ciò che sta facendo, non può essere mai esente da una forma sottile di timore.

Isabelle Huppert – “una certa idea di verità”.

Protagonista di Gabrielle, l’ultimo film di Patrice Chéreau presentato al Festival di Venezia, Isabelle Huppert anche in quest’occasione non manca di spiazzare lo spettatore. A partire da questa pellicola qualche riflessione sulla recitazione dell’attrice francese. Di Maria Pia Petrini Isabelle Huppert non aderisce mai perfettamente ai suoi personaggi, restituendoli al pubblico sfaccettati e veri.
Asciutta ed essenziale, priva di eccessi nei gesti, nel tono di voce e nei movimenti, mai sopra né sotto le righe, risulta comunque sempre ‘fuori parte’, inducendo in tal modo lo spettatore a prestare uno sguardo attento.
Un grande talento speso per mostrare un mondo senza veli e un animo umano complesso e contraddittorio.

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Sul volto di Isabelle Huppert (nella foto, in Gabrielle) le labbra si piegano appena in un sorriso tanto lieve quanto penetrante senza quasi modificarne i lineamenti, mentre gli occhi, poco più che socchiusi, rivelano uno sguardo fermo e distaccato ma al contempo incuriosito e interessato.

Nella commedia di François Ozon, Otto donne e un mistero, Isabelle Huppert (nella foto) è Augustine, donna acida e arcigna ma evidentemente finta e ironica: a tratti l’attrice indossa i panni di divertita spettatrice e sul suo volto compare un sottile sorriso estraneo alla parte.

Isabelle Huppert (nella foto, in Gabrielle), introducendo un accenno di sorpresa e un impercettibile sorriso ironico allo sguardo, riesce a rendere intenso quel sentimento di disprezzo che le si legge sul volto, pur mantenendo tratti somatici quasi inalterati e distesi.