Cinema 3D: rivoluzione apparente

Il cinema 3D aderisce in piena regola alla logica dell’ideologia dominante
estremizzando, attraverso la terza dimensione, il carattere naturalistico che ormai da tempo domina le scene.
 Di Valerie Bubbio e Letizia Gatti

Come il cinema delle origini attraeva il pubblico pagante mostrando le “meraviglie” delle prime immagini
in movimento, così il 3D oggi attira lo spettatore per mezzo di presunte e spettacolari novità formali.
Sebbene infatti la tecnologia sia mutata, la forma – intesa come struttura – non è cambiata: sia le due 
dimensioni che la rappresentazione tridimensionale riproducono, nel cinema di consumo e intrattenimento, 
il più verosimilmente possibile il mondo e la naturalezza della vita quotidiana, facendo sembrare
consueti i fatti straordinari, per indurre lo spettatore a un’anestetizzante immedesimazione acritica.
La tecnologia 3D, in quanto portatrice della stessa ideologia culturale che muove la società dello spettacolo, 
è dunque una rivoluzione soltanto apparente che distoglie ancora una volta l’ uomo dalla comprensione
effettiva e concreta della realtà.

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Locandina di Bwana Devil (1952), il primo lungometraggio a colori girato in Natural Vision tridimensionale. Il film tenne il cartellone per circa 3 mesi e mezzo, un record per l’epoca. Agli anni Cinquanta risalgono le prime sperimentazioni sulla tecnologia virtuale applicata al cinema; dopo un breve successo iniziale l’interesse per i film in 3D calò per ridestarsi solo negli anni Ottanta e Novanta. Nel nuovo millennio il cinema tridimensionale, con il perfezionamento delle tecniche digitali ed elaborazioni grafiche più sofisticate, sta conquistando un ruolo considerevole nell’industria dell’audiovisivo. Esemplare la decisione degli organizzatori del Festival di Cannes 2009 di aprire la kermesse con il lungometraggio francese Up, ultimo film d’animazione realizzato dalla Disney/Pixar.

Fotografia scattata il 26 novembre 1952 al Paramount Theater di Hollywood da J. R. Eyerman durante la prima proiezione di Bwana Devil. Negli anni Cinquanta il pubblico poteva assistere a uno spettacolo in 3D solo nelle sale cinematografiche indossando gli appositi occhialini di carta con lenti bicrome. Oggi invece, con l’Home theatre 3D, la tridimensionalità arriva anche nelle case dello spettatore estremizzando quel naturalismo già presente in maniera pervasiva nello spettacolo televisivo di finzione.

Home, quando la casa è “on the road”

La nuova pellicola della regista Ursula Meier racconta, attraverso la grottesca storia di una famiglia, le paure e le nevrosi della società contemporanea. Di Giuliana Pititu

Il film Home, grazie all’ottima commistione tra il lavoro registico di Ursula Meier e quello degli attori 
da lei scelti, in cui spicca la graffiante e destabilizzante presenza di Isabelle Huppert, rompe
la tranquillità dello spettatore, che cerca semplice intrattenimento, e semina un’inquietante paura che 
obbliga alla riflessione o alla fuga.

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Il film nella sua interezza è un grido violento, grido che risuona in modo particolarmente duro e impietoso grazie alla presenza della Huppert. La prima immagine ci mostra una madre eterea, quasi una fata rock, accattivante, come solo lei sa essere che non rimanda per niente all’idea classica e consolatoria della mamma. Isabelle Huppert aiuta i figli ad attraversare la strada ma sui loro volti non traspare nulla che richiami il rassicurante affidarsi alle cure materne: la sua sicurezza e leggerezza sono fortemente contrastate dalla loro inquietudine. L’immagine successiva riporta ancora al ruolo della madre, ripresa nello spazio a lei consono per definizione: la cucina. Anche in questo caso la Huppert crea distacco e inquietudine con il suo sguardo perso nel vuoto che lascia intravedere tutta la sua angoscia di essere umano.

Il film nella sua interezza è un grido violento, grido che risuona in modo particolarmente duro e impietoso grazie alla presenza della Huppert. La prima immagine ci mostra una madre eterea, quasi una fata rock, accattivante, come solo lei sa essere che non rimanda per niente all’idea classica e consolatoria della mamma. Isabelle Huppert aiuta i figli ad attraversare la strada ma sui loro volti non traspare nulla che richiami il rassicurante affidarsi alle cure materne: la sua sicurezza e leggerezza sono fortemente contrastate dalla loro inquietudine. L’immagine successiva riporta ancora al ruolo della madre, ripresa nello spazio a lei consono per definizione: la cucina. Anche in questo caso la Huppert crea distacco e inquietudine con il suo sguardo perso nel vuoto che lascia intravedere tutta la sua angoscia di essere umano.

Gran Torino con e di Clint Eastwood.

L’ultimo film diretto e interpretato da Clint Eastwood si inserisce senza problemi nelle file delle pellicole di immediato e facile consumo. Presenta però, nella recitazione del protagonista e nel trattamento del problema del popolo Hmong, prospettive interessanti che aprono degli spiragli per alcune riflessioni critiche. Di Enrico Pili

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La buia locandina del film evoca un nuovo giustiziere à la Callaghan, vendicatore in difesa dei “vecchi valori”, con lo sguardo arcigno e il fucile in mano, pronto a sparare per difendere la sua auto sportiva orgogliosamente americana. Le aspettative del pubblico di riferimento della locandina però saranno in parte disattese perché per tutta la durata del film Clint Eastwood non sparerà un solo colpo.

Questo primo piano di Clint Eastwood mostra la sua faccia rugosa, segnata da una smorfia di disprezzo che accentua ulteriormente le rughe attorno alla bocca, rendendola quasi una maschera grottesca.

W: un soufflé di storia e politica, condito da molta psicologia e servito in salsa statunitense, per far lievitare “un’ esistenza sottostimata”.

Il recente film biografico di Oliver Stone, incentrato sulla figura del presidente Bush, fornisce degli interessanti spunti di riflessione sulla tenenza delle pellicole biografiche a percorrere una strada non realistica che, in quanto tale, serve ben poco a mettere in luce un’ideologia di contraddizione.Di Chiara Delmastro

Allo scadere del secondo mandato di George Walker Bush, il regista Oliver Stone ha girato una pellicola 
dedicata all’ex presidente degli Stati Uniti, che vorrebbe porsi come una dura critica alla sua amministrazione 
– con particolare riferimento alla guerra in Iraq – e un’esplicita attribuzione di responsabilità della disastrosa situazione attuale; ma il lavoro – e in particolare la figura del protagonista – non esce dai banali confini di 
una superficiale e moralistica accusa, condita con abbondante e scontato psicologismo. Un esempio eccellente 
per mostrare il profondo divario esistente fra la semplice e inutile caricatura e la parodia corrosiva e crudele,
la sola che possa operare una critica autentica e profonda del potere.

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La locandina dell’ultimo lavoro di Oliver Stone, è particolarmente indicativa riguardo alla figura del protagonista, l’ex presidente degli Stati Uniti George Walker Bush. L’attore che lo interpreta, Josh Brolin, è ritratto seduto alla scrivania della Casa Bianca, con il viso affondato nelle mani; lo sguardo è rivolto in alto, e ha un che di scorato ma, al contempo, caparbio; la fronte è aggrottata, corrucciata in un’espressione che si potrebbe definire capricciosa, ostinata e insieme vacua. Nel complesso, l’immagine che la locandina ci rimanda è quella che Stone tratteggia nella pellicola: un uomo infantile, superficiale e collerico, vittima dei suoi complessi d’inferiorità, del suo desiderio di rivalsa e della sua scarsa intelligenza, circondato da uno staff cinico e manipolatore che usa a proprio vantaggio le debolezze del Presidente; queste debolezze, nella narrazione filmica, vanno a costruire un alibi, un vero e proprio castello di giustificazioni, alla scellerata politica dell’amministrazione Bush.

Oliver Stone impartisce istruzioni agli attori del cast che ricoprono i ruoli dei consiglieri del presidente degli Stati Uniti d’America. Come è evidente dalla foto, il regista si è avvalso di interpreti che vantano una notevole somiglianza fisica con i personaggi reali – è particolarmente evidente nel caso di Colin Powell, una vera copia a carbone dell’originale – in perfetta linea con la poetica naturalistica dominante nel cinema, e in particolare in quello nordamericano. Invece di adottare una linea realistica, costruendo dei personaggi che abbiano in loro dei tratti tipici stilizzati, onde ottenere una critica efficace e universale, Stone ha scelto di dar vita a figure piattamente naturalistiche – come nel caso di Condoleeza Rice – o a macchiette risibili – come il sinistro Dick Cheney -; in entrambe le declinazioni, laddove al realismo si preferisce il naturalismo, e al grottesco la caricatura, si perde totalmente ogni intento minimamente eversivo e autenticamente critico.



La rabbia di Pasolini

Il film La rabbia di Pasolini, presentato quest’anno a Venezia, ha il merito di recuperare un film 
(La rabbia, 1963) che è chiaro esempio dell’inevitabile “rabbiosa” necessità critica dell’opera d’arte e della sua altrettanto inevitabile politicità. Di Enrico Pili

La rabbia di Pasolini porta l’attenzione sulle caratteristiche principali dell’opera d’arte quali l’imprescindibilità 
dal contesto sociale in cui nasce, la poeticità come visione del mondo attraverso la sensibilità dell’artista, 
la lucidità di un discorso critico.

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Cinema e contesti. A proposito del Divo e di Gomorra

Il divo di Paolo Sorrentino e Gomorra di Matteo Garrone, nelle sale dopo i successi riportati 
al 61° festival di Cannes, tornano a far parlare di “cinema d’impegno” e risollevano gli animi di chi, in Italia, lamentava l’assenza di un cinema di denuncia, capace di scuotere le coscienze.
Ma le due pellicole sono mosse da intenti diversi e, per certi aspetti, lontani dall’impegno civile e politico che caratterizzò il nostro cinema negli anni sessanta e settanta.
 Di Silvia Iracà
Oggi si assiste a uno stemperarsi di quella connotazione “forte” dell’impegno nel cinema e in generale 
in tutta l’arte. Tant’è che spesso per guadagnarsi un tale riconoscimento sembra essere sufficiente 
un soggetto che attinga dalla materia di volta in volta politica, storica o sociale, senza che l’impronta autoriale
si spinga al di là della semplice illustrazione, o ancora, dell’acritica accettazione dell’esistente, riducendo
così la storia a un pacificante spettacolo di intrattenimento.

Una delle immagini “belle” del film Il divo. Sorrentino spesso organizza le inquadrature secondo un gusto manifestamente pittorico.
Qui, per esempio, ricorre alla citazione attraverso l’imitazione figurativa dell’Ultima cena leonardesca. Ma da questa accurata ricerca estetica che percorre tutta la pellicola non scaturisce, come dovrebbe (per contrasto
con la bruttura di ciò che quelle immagini illustrano) alcuno strazio, anzi a 
tratti si direbbe che Sorrentino se ne compiaccia, cedendo alle lusinghe 
di un gusto estetizzante e finendo per indebolire il senso dell’intera operazione registica.

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Ciro e Michele, i due ragazzi-emblema dell’epica camorristica inscenata da Garrone in Gomorra, sono qui ripresi durante una delle loro scorribande.
La sequenza da cui è tratto questo fotogramma, insieme a quella con cui si chiude la pellicola, è una delle più eloquenti e meglio riuscite del film, in cui spesso si ha la sensazione che gli attori non recitino una parte, ma incarnino, restituendolo senza orpelli, il paradigmatico paradosso delle loro vite e della realtà in cui sono immersi. In particolare, nella vicenda umana di questi due giovani si concentra il dramma del tentativo vano di un riscatto in un mondo dominato dai poteri criminali, dove si parla con le armi, si vive stretti dalla morsa della violenza e la vita di chi vorrebbe “distinguersi” non può che imitare la finzione di un film di mafia.

Into the Wild. Una riflessione critica

L’Asino vola ospita volentieri le riflessioni critiche di uno studente della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Torino su Into the Wild, il recente film di Sean Penn.
Di Enrico Pili

Il film Into The Wild di Sean Penn, recentemente uscito nelle nostre sale, è un’operazione patriottarda 
condotta attraverso uno stile che oscilla abilmente tra naturalismo e simbolismo. 
La reazione registrata dalle cronache e dai commenti sulle pagine della stampa italiana, commossa 
e favorevole quasi all’unanimità, porta a riflettere sul problema costituito da una critica incapace 
di analizzare e determinare il valore del prodotto culturale di fronte a cui si pone, giudicato secondo i 
criteri di un gusto che è il riflesso del pensiero dominante veicolato dall’industria culturale.

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Uno dei primi piani in cui il protagonista (Emilie Hirsch) invita lo spettatore a commuoversi con lui. Il trucco naturalistico mostra come il personaggio suoni immediatamente falso, costruito com’è secondo i bisogni dello spettatore, che va rassicurato: la barba deve dare l’idea di una situazione di vita “selvaggia”, ma è troppo curata, il viso è troppo pulito, e i denti sono bianchissimi.

Una scena di comunione con la Natura, in cui il protagonista “abbraccia” con gioiosa gratitudine il creato.

Il lavoro torna a far parlare di sé: Signorina Effe e Parole sante

Il tema del lavoro è da qualche tempo tornato all’attenzione del mondo della cultura, della letteratura prima e del cinema e del documentario sociale oggi: ne sono un esempio i recenti Signorina Effe di Wilma Labate e Parole sante di Ascanio Celestini. Oltre che storica la differenza di prospettiva tra i due lavori è anche formale: in tale differenza si apre uno spazio per una possibile riflessione. Di Silvia Iracà e Armando Petrini
La Fiat scossa dall’ultima grande lotta operaia e dalla reazione dei “colletti bianchi” agli inizi degli anni ottanta; gli scioperi e le contestazioni del triennio 2004-2006 del Collettivo dei lavoratori precari di Atesia, il più grande call center d’Italia: due episodi significativi della passata e recente lotta di classe sono i temi che una cineasta e un teatrante scelgono di affrontare nei rispettivi lavori Signorina Effe e Parole sante. A dispetto del pensiero dominante che da qualche decennio vorrebbe le classi sociali finite insieme con la “storia”, e il lavoro un parametro di convivenza sociale ormai vecchio e desueto, la realtà che si ricompone davanti alla macchina da presa in queste due opere è quella del diritto alla dignità del lavoro come primo e imprescindibile presupposto di affermazione individuale e di consapevole partecipazione sociale.

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Filippo Timi e Valeria Solarino, i due attori protagonisti del film Signorina Effe
di Wilma Labate (2008).



Locandina di Parole sante di Ascanio Celestini (2008).

Egocentrismo, megalomania e recitazione secondo Klaus Kinski

In occasione della retrospettiva dedicata al cinema di Werner Herzog, attualmente in programmazione al Museo nazionale del cinema di Torino, l’Asino vola ospita volentieri l’intervento di uno studente della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Torino, che riflette sull’arte dell’attore-icona del cineasta tedesco. Di Luca Giglio

“Io non sono il Gesù della chiesa ufficiale, tollerato da polizia, banchieri, giudici, boia, militari, capi
della chiesa, politici e altri uomini di potere, io non sono la vostra superstar”. 
Con queste parole Klaus Günther Nakszynsky, in arte Klaus Kinski, terminava in anticipo nel 1971, 
tra insulti e fischi del pubblico, la tournée teatrale di un Gesù Cristo atipico intitolata Jesus Christus 
Erloser
 dove, con un’originalissima fusione tra Nuovo Testamento e improvvisazione nervosa, spedì 
all’inferno chiesa e preti. Oggi un attore di questo calibro è difficile da scovare anche nei più 
sperimentali teatri o set cinematografici; sì perché di Kinski ce n’è stato uno solo, forse l’ultimo grande
caratterista del secolo passato.

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Klaus Kinski e Werner Herzog sul set di Cobra verde.