Elogio della ribalderia

Dire che mai come oggi il conformismo dilaga è un’affermazione che può sembrare eccessiva se si tiene conto che il conformarsi ai costumi della maggioranza costituisce da sempre uno strumento di difesa nei confronti delle possibili aggressioni da parte degli imprevisti della vita dovuti a fattori storici e sociali e economici o all’orrida casualità che regge i destini naturali dell’uomo. D’altro canto, però, il conformismo rappresenta un forte strumento di dominio per il potere costituito, che gioca proprio sulla paura storica e ontologica insieme, per rafforzare la sua posizione di supremazia e mantenerla.
E’ ovvio che prima con la nascita e poi con il lento ma inesorabile affermarsi dei mezzi di comunicazione di massa (quelli che non a caso con termine anglo-latino vengono definiti i mass media) il potere ha più possibilità di esercitare pressioni sulle coscienze in modo di poterle meglio controllare. I giornali prima, la fotografia e il cinema più tardi e, infine, la radio e la televisione possono sviluppare delle potenzialità, sconosciute all’epoca pre-borghese, nello strutturare un modo sia di pensare che di vivere coerente, e quindi conveniente, all’oligarchia economica che governava un tempo le nazioni e oggi il mondo. Leopardi, con quello sguardo che scava nella contemporaneità così a fondo da scoprirne i germi degli sviluppi futuri – e che è appannaggio solo dei grandissimi -, già nel 1835 bollava il ‘civil gregge’, straordinario, sarcastico e grottesco ossimoro, pronto a credere, e cedere, ai miti imposti ‘da pamphlets, da riviste e da gazzette’: l’evirazione del pensiero e della poesia leopardiana, compiuti da Croce l’anno stesso della marcia su Roma, hanno il sapore acre e allappante del trionfo del conformismo (il ‘civil gregge’, appunto) nei confronti di un poeta che ebbe proprio questo come bersaglio principale della sua lotta etico-estetica. 
Ma la battaglia, che ai tempi di Leopardi era certo disperante anche se non disperata, appare oggi una lotta contro i mulini a vento tanto il conformismo, auspici appunto i mass media, è radicato e dilagato nelle coscienze sia individuali sia di massa. Ma appare e non è. Il cinema (e qui intendiamo il cinema come è stato strutturato dalla società capitalistica e cioè quale veicolo dell’ideologia dal momento che i film critici sono assai pochi e influiscono in modo relativo sulla cultura di un’epoca), la radio, la televisione non soddisfano interessi primari bensì servono a distrarre dagli interessi primari: fanno credere che la libertà esista indipendentemente dai fattori economici e cercano di far dimenticare il fatto che chi non mangia non è libero, tutto teso com’è a soddisfare appunto i bisogni primari dell’esistenza e da questa tensione portato a evadere nell’unico modo possibile che è quello di frequentare impossibili sogni di riscatto. Nell’ottocento questa funzione di velamento della realtà attraverso l’ideologia, venne svolto dal romanzo e il successo, per non fare che un esempio, del Conte di Montecristo chiarisce bene ciò di cui stiamo parlando; nel novecento spettò al cinema, quel cinema di cui abbiamo detto, di svolgere questa funzione prima dell’avvento della televisione: e, infatti, Hollywood venne correttamente definita ‘la fabbrica dei sogni’. 
E dunque, e allora, l’affermazione iniziale a proposito del fatto che mai come oggi il conformismo dilaga e permea di sè le coscienze delle persone è affermazione che ha una sua verità ma che cela nel suo seno una contraddizione: il conformismo, infatti, si sta affermando e si affermerà sempre più fino al punto di rottura che è poi quello costituito dal fatto che gli uomini prima o poi – sotto la spinta di fatti materiali ineluttabili che incideranno fortemente sul piano spirituale – non potranno non rendersi conto del proprio stato di alienazione, di essere altro da sè, di aver consegnato le proprie coscienze al potere che le governa e le manipola a proprio vantaggio in modo brutale. 
Ma il potere queste cose le sa; e le teme. E sapendole e temendole cerca gli antidoti. Il conformismo, l’abbiamo già accennato in apertura di discorso, dà sicurezza, quella sicurezza che viene dalla coscienza di far parte del branco, di essere capiti perchè si parla un linguaggio comune e quindi, nelle alterne vicende della vita, di trovare aiuto dicendosi (non necessariamente essendo) disposti a darne agli altri purchè la pensino e si comportino come noi. Ma le contraddizioni sono lì, sotto gli occhi di tutti: il problema è vederle; e per vederle basta avere uno sguardo limpido che si liberi dai filtri che il potere, attraverso il conformismo, utilizza per distorcere la visione serena delle cose del mondo e dello spirito. Per comprendere questo movimento dialettico risulta fondamentale chiarire come si concepisce il presente. Detto in una formula: vivere il presente è l’unico modo di vivere per il singolo individuo dal momento che il passato è passato (‘Adesso non c’è più’ s’intitola un mirabile monologo di Rino Sudano) e il futuro non esiste (‘Di doman non c’è certezza’ cantava, più di cinque secoli fa, Lorenzo de’ Medici). Ma se questa declinazione del presente costituisce un’ottima regola di vita per l’individuo singolo tesa a contrastare posizioni spiritualistiche che rimandano a un futuro addirittura oltreterreno (le ‘superbe fole’: è ancora una volta, et pour cause Leopardi) la realizzazione di quella felicità che è un istinto naturale e, soprattutto, sociale dell’uomo (nessuna persona, che lo sappia o no, può essere felice se non lo sono tutti gli altri), contemporaneamente però bisogna notare che non si può vivere una vita autentica senza un progetto per il futuro. E questo tanto più vale se si passa dall’individuo singolo all’individuo che si rapporta con gli altri: infatti quando più individui si uniscono in gruppo sociale è ineluttabile e indispensabile che progettino il futuro; è progettando il futuro che sanno e possono agire nel presente: un tenacefilo rosso collega il marxiano ed engelsiano ‘Proletari di tutto il mondo unitevi!’ a ‘Un altro mondo è possibile’. Non si tratta di utopia, anche se quest’ultima può risultare un motore staordinario di trasformazione dell’esistente, ma di una possibilità che chi sa leggere la storia e la società già vede in nuce sotterraneamente attiva nel presente. Ed è proprio questa prospettiva di un’umana palingenesi che il potere borghese, per la sua conservazione, combatte con tutte le forze e, costringendo la persona a pensare come unica realtà vera il proprio presente individuale, spinge l’uomo a credere che la sua felicità dipenda solo da se stesso e che si realizzi non in unione ma contro gli altri uomini; e nel momento in cui quest’uomo, già così dimidiato, identifica la sua idea di felicità nel possesso di beni esclusivamente materiali rinuncia del tutto alla propria umanità. 
Ma l’uomo sulla spinta di eventi economici e sociali, ineluttabilmente inscritti all’interno del meccanismo borghese-capitalistico, sottoposto al capriccio degli eventi naturali governati da quella casualità che abbiamo definito ‘orrida’ (è il ‘cieco dispensator de’ casi’ di Leopardi) e stimolato dalle minoranze irriducibili tende, nei momenti di crisi, a aprirsi a una possibile presa di coscienza della propria alienazione. E’ a questo punto che scatta un antidoto assai utile a neutralizzare le spinte verso una coscienza meno dissociata; e questo antidoto è costituito dall’anticonformismo. L’anticonformismo è la via di sfogo, prevista dal potere, per canalizzare le pulsioni di rifiuto del conformismo. La lingua contemporanea (la lingua è sempre specchio dei rapporti sociali) ha ripescato – secondo il procedimento tipico di un’epoca e una cultura postmoderne che tutto riciclano (ciò che loro è utile, ovviamente) e non inventano più nulla – una locuzione significativa a questo proposito: ‘Essere fuori del coro’ già testimoniata a metà settecento. C’è persino una pubblicità di una bibita d’altri tempi, innovata nel modo più banale e cioè attraverso l’abbreviazione del proprio marchio, che recita: ‘Bevi fuori dal coro’. E’ fin troppo ovvio, e forse anche scontato, osservare che chi berrà quella bibita sarà perfettamente ‘dentro il coro’ dal momento che si sarà conformato alla pubblicità martellante di quel prodotto; ma dovrà sentirsi, pena l’insuccesso della costosissima campagna reclamistica, toccato dall’ala dell’anticonformismo. Un anticonformismo ineluttabilmente guidato e amministrato dal potere economico che segna, con precisione, i confini entro cui si può realizzare lo scarto dalla norma in modo che sia gratificante per l’individuo ma non pericoloso per il potere, anzi che tenda a rafforzare la sua ideologia, il suo background culturale. 
D’altro canto nell’epoca moderna è sempre stato così essendo l’anticonformismo l’altra faccia del conformismo dal momento che il primo si regola sul secondo traendo la sua forza dal perpetrare apparenti scarti dalla norma che servono solamente a dare all’individuo il brivido della trasgressione lasciando però le cose ben salde come stanno. Tutt’altra storia è quella scritta da coloro che trasgredirono veramente alla cultura e alla struttura sociale del proprio tempo: e qui stanno insieme, in una callida iunctura, Leopardi e Brecht, che si vantò con sofferto strazio di aver tradito la propria classe, Wilde e Gramsci, che patirono il carcere e praticamente vi morirono per essere andati ciascuno a proprio modo contro lo spirito del proprio tempo, Kafka, Joyce, Pound, Beckett, che non ebbero paura di essere emarginati pur di perseguire un loro ideale di un’arte di contraddizione, Petrolini, che fu con Gramsci la più grande figura etica del nostro novecento, e ancora pochissimi altri tra cui non dimenticheremo Adorno, che soffrì l’esilio per le sue idee, e Benjamin che arrivò al suicidio per sottrasi alle grinfie dei nazisti che gli davano la caccia. 
Questo elenco di personalità eccezionali costituisce, per noi, l’orgoglio del nostro retroterra. In un’epoca in cui intellettuali al servizio del potere hanno decretato la fine della storia e delle sue grandi narrazioni, provocando effetti devastanti nei giovani privati del proprio presente attraverso la sottrazione del loro passato, rivendichiamo con rabbia e determinazione questo nostro passato proprio per loro, per i giovani – a partire da quelli che collaborano e collaboreranno a questa iniziativa – cui dobbiamo un risarcimento anche se per colpe non nostre. Ovviamente sappiamo benissimo quanto limitate siano le forze confronto allo strapotere del pensiero conformato che ha ben altri mezzi a propria disposizione per espandere i suoi miasmi mefitici e corrompitori. Ma qui ci soccorre Gramsci che, pur nelle sue terribili condizioni di carcerato e di malato, non smise mai di lottare convinto com’era che ciascuno dovesse lavorare all’interno della propria cellula perchè le vicende umane potessero incominciare, almeno lì e da lì, a cambiare. 
E il sottotitolo di questa rivista – che s’intitola ‘L’asino vola’ in quanto filiazione di altra rivista, su carta, dal titolo ‘L’asino di B’ – abbiamo voluto suonasse: ‘Scritti molesti sullo spettacolo e la cultura nel tempo dell’emergenza’. ‘Molesti’, per la cultura di questo nostro tempo, per la doxa; ma si sarebbe potuto scrivere insolenti, impudenti, fastidiosi, corsari, non fosse stato, per quest’ultimo termine, il rimando per noi troppo alto. O ‘ribaldi’. Bene, di una certa ribalderia, e siamo ben consci anche della valenza negativa del termine, ci fregiamo dal momento che per lottare contro lo spirito e la cultura del tempo con forze così scarse e limitate, bisogna pur sentirsi e essere piuttosto gioiosamente – per quanto il tempo e questa sua cultura, che è tanto più torpida, buia e sorda mentre si gabella per ‘leggera’, permettano di prevedere un pensiero e un’azione gioiose – ribaldi.

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