Il giovane Carmelo Bene nei ricordi della sua prima moglie

La prima moglie di Carmelo Bene, Giuliana Rossi, racconta il periodo vissuto al fianco del marito negli anni cruciali e straordinari del Teatro Laboratorio. Di Gigi Livio e Armando Petrini
È uscito questa estate in libreria un volume autobiografico di Giuliana Rossi, morta poco prima dell’uscita del libro.
Il racconto conduce il lettore nel clima del primo periodo dell’attività teatrale di uno dei più grandi uomini di teatro del nostro novecento, illuminandone assai efficacemente tanto l’eccezionalità quanto la complessità.

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Dalla parte degli attori

Un libro che guarda al cinema da un punto di vista inconsueto. Di Mariapaola Pierini È in libreria Acting. Il cinema dalla parte degli attori di Maurizio De Benedictis. Un libro che guarda al cinema attraverso una carrellata ampia e variegata sugli attori più significativi della sua storia. Dagli Stati Uniti alla Russia, passando per l’Italia, la Francia, la Gran Bretagna e la Svezia, l’autore mette il luce i diversi approcci alla recitazione, i diversi stili, riconoscendo a coloro che stanno ‘al di qua della macchina da presa’ un ruolo fondamentale nella realizzazione di una pellicola cinematografica.

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Ricordo di Ugo Tognazzi

Dal 3 al 13 novembre 2005, a quindici anni dalla morte, il Museo Nazionale del Cinema di Torino ha dedicato a Ugo Tognazzi una scelta di pellicole tra le numerosissime (circa centocinquanta) che, tra gli anni ’60 e la fine degli ’80, ne portarono alla luce l’interessante e originale poetica d’attore. Di Silvia Iracà
L’omaggio Tutti per-UGO-per tutti ha presentato quindici film che, per volere dei curatori, testimoniano il periodo di affermazione di Tognazzi presso la critica, tralasciando le numerose commedie “leggere” girate dal ’50 a tutta la metà dei ’60 e l’ultimo decennio di attività (1981-1990). La scelta, quindi, ha percorso l’arco temporale e artistico che va dal Federale di Luciano Salce, pellicola che vide l’attore esordire nel suo primo personaggio “amaramente” comico per giungere fino alla Tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo Bertolucci (1981) film che consacrò la grandezza dell’attore con la Palma d’Oro a Cannes.

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Nella posa tra l’ebete e il tronfio data dal mento e dal labbro inferiore rivolti leggermente all’insù, Ugo Tognazzi parodia l’ingenua e incosciente fierezza del fascista Primo Arcovazzi, protagonista del Federale di Luciano Salce (1961). L’attore transita continuamente dentro e fuori il personaggio, giocando abilmente tra partecipazione emotiva e distacco critico. Il fascista naïf diviene così una sorta di rude Charlot alle prese con la Storia, buffo e patetico ad un tempo, la cui presa di coscienza giungerà quando ormai la tragedia sarà ineluttabilmente compiuta.

In Porcile di Pier Paolo Pasolini (1969) Ugo Tognazzi, Alberto Lionello e Marco Ferreri impersonano tre ex gerarchi nazisti ora dirigenti della grande borghesia tedesca post-bellica. Dall’immagine salta subito agli occhi la carica grottesca comune alle espressioni dei tre, moderni clown in abito elegante: se in Lionello (le cui sembianze rimandano esplicitamente al Führer) il cinismo traspare da modi più sornioni e leccati, in Ferreri emerge dalla subdola cerimoniosità, mentre in Tognazzi si manifesta con toni irriverenti e parossistici.

Ugo Tognazzi, il giudice Mariano Bonifazi in In nome del popolo italiano di Dino Risi (1971), è qui quasi figura astratta nella rigidità del doppiopetto, incorniciato da una barba che esalta, più che nascondere, i tratti salienti di quel volto meditabondo e impenetrabile ma penetrante. Questa sua fissità rende ancor più eccessiva la prosopopea gigiona e compiaciuta della recitazione di Vittorio Gassman tutta sopra le righe. È facile scorgere, dietro la finzione, il gustoso scambio di ammicchi ironici tra i due attori, vero e proprio agone mimico e retorico.

Viva Zapatero! Rudimenti di contestazione nel tempo della censura.

Un film importante, anche se non privo di qualche ambiguità, che segnala quanto sia ancora embrionale la rinascita di uno spirito critico. Di Chiara Delmastro e Armando Petrini Sabina Guzzanti, cacciata dalla televisione in seguito alle vicende di Raiot, ricostruisce in un film-documentario alcuni noti episodi di censura.
La satira della Guzzanti è arguta, spesso efficace, eppure mostra il suo limite più forte nella incapacità di spingere la lama davvero fino in fondo e di giungere così al cuore del problema, che non è tanto la particolare declinazione attuale del potere (quella berlusconiana), ma il significato stesso del potere in una società capitalistica.

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Tranquilli, siamo in buone mani

Mentre il colosso McDonald’s ci avvelena con gusto, la pubblicità, con gusto, ci insegna come desiderare di essere avvelenati. Di Lucia Marino
Nella sua forma di pubblicità e di marchio, il mercato è stato osservato al microscopio. Per affinità in Lire 26.900 di Frédéric Beigbeder (Milano, Feltrinelli 2004), libro che collega e stringe in un’unica ragnatela i principi pubblicitari. Per contrasto da Morgan Spurlock che denuncia, in Non mangiate questo libro (Roma, Fandango 2005), il marchio McDonald’s e le gravi conseguenze della McDieta.

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Carla Tatò e Carlo Quartucci: due teatranti ‘contro’

Di Gabriele Bartolini, Simona Innocenzi e Donatella Orecchia

A partire dal mese di giugno 2005, un gruppo di studenti dell’Università di Roma Tor Vergata ha iniziato un percorso mirato ad avvicinare e conoscere il lavoro di Carlo Quartucci e Carla Tatò, due dei protagonisti più interessanti del scena italiana di questi ultimi quarant’anni.

Attraverso racconti, dialoghi, letture, recite serali, frammenti di una memoria antica misti a improvvisazioni estemporanee, Quartucci e Tatò hanno reso gli studenti partecipi di una rara e preziosa sapienza del teatro, concreta e appassionata. Soprattutto, li hanno condotti a conoscere il loro particolarissimo linguaggio della scena che oggi, come quarant’anni fa, si batte contro quel teatro, e quell’arte, che non sanno più superare il confine dell’intrattenimento spettacolare ‘digestivo’ -avrebbe detto Brecht- e contrapporsi attraverso il linguaggio artistico alla cultura dominante del proprio tempo: contraddire cioè le convenzioni del teatro (dal rapporto con il testo drammatico, al modo di intendere e vivere lo spazio scenico, dall’idea di regia a quella d’attore, fino al quella di pubblico) per contraddire un mondo.

L’asinovola ospita volentieri una testimonianza a più voci di quell’esperienza: due pezzi su Carla Tatò di Gabriele Bartolini e Simona Innocenzi, preceduti dal resoconto di quanto avvenuto nel primo incontro estivo.
Un momento del laboratorio tenuto da Quartucci e Tatò al Teatro Belli di Roma nei mesi di ottobre e novembre 2005. Seduto sul palcoscenico Carlo Quartucci guarda il video di uno spettacolo del 1984 dove Carla Tatò in primo piano recita bendata: un’immagine emblematica di un modo di fare teatro che intende essere innanzitutto uno sguardo diverso sul teatro (una forma, come insiste Quartucci, di ‘stravedere’ oltre la normalità del guardare).

Carla Tatò nei panni di Lady Macbeth. L’attrice, sola sul palcoscenico, recita il lungo monologo della sua follia, mentre alle sue spalle scorrono le immagini di Orson Wells e della Tatò stessa, segni di una memoria dell’arte e del teatro che torna a farsi presenza viva ed entra in rapporto/scontro con quanto avviene nel presente.

Un primo piano di Carla Tatò in Lady Macbeth. Il suo volto come una maschera che ha assai poco di umano e di rassicurante: maschera dai tratti marcati e mobilissimi, con una bocca perfettamente disegnata che si apre spesso in grida strozzate a mostrare una dentatura eccessiva (per dimensioni e per bianchezza), con due occhi come buchi di fuoco, imperiosamente sgranati. Una maschera che riempe la scena come di rado accade di vedere sulle nostre scene.


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Good night, and good luck.

Il film di George Clooney riaffronta il problema della libertà di espressione nel periodo maccartista. Di Gigi LivioIl film può essere inserito all’interno di un filone cinematografico di documentazione della realtà storica oggi molto frequentato da Fahrenheit 9/11 a Allende. Tipica opera di un “borghese onesto” affronta il problema del maccartismo, e delle sue ricadute sull’informazione, in modo duro e rigoroso impostato in uno stile scarno e scabro che usufruisce molto efficacemente del bianco e nero.

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George Clooney (a sinistra) dirige un film che intende riproporre un momento di lotta al maccartismo realmente avvenuta. La scelta del bianco e nero, oltre a darci la sensazione dell’epoca in cui si svolsero i fatti, serve al regista -che ritaglia per sé un ruolo secondario- per mettere meglio in evidenza i chiaroscuri: e la cosa gli riesce benissimo perché ha saputo scegliere l’attore protagonista adatto (David Strathairn, a destra) che offre allo spettatore un volto insieme scavato e sereno nella sua determinazione a dare un significato di onestá intellettuale e di rigore morale al suo personaggio.

La scelta di ambientare il film negli studi della Cbs dove avvennero i fatti ottiene due risultati: quello di dare un senso di veritá documentaria alla narrazione e quello di evocare in modo diretto il mondo della televisione con tutti i suoi problemi, le sue luci e le sue ombre. È l’ambiente in cui matura e, in questo caso esemplare, si concretizza la rivolta nei confronti dell’ingiustizia sociale e culturale che il senatore McCarthy perpetra nei confronti soprattutto del proprio paese e in chi crede ai valori della democrazia e della costituzione.

David Strathairn fornisce in questo film una prova d’attore eccezionale. Recitando in modo asciutto e scabro, senza i riboboli e i barocchismi propri degli attori americani che si ispirano al metodo dell’Actors Studio, riporta il suo mestiere verso quell’orizzonte artistico che serve a esprimere l’oggettività delle cose e non la psicologia individuale, propria di un individualismo esasperato, attraverso il cui filtro vedere e giudicare la realtà. Una certa leggera tensione rivelata costantemente dal suo sguardo ci ricorda che il vero coraggio, quello dell’uomo cosciente di ciò che sta facendo, non può essere mai esente da una forma sottile di timore.

Pasolini su Pasolini. A trent’anni dalla morte.

Di Donatella Orecchia
Nella notte fra il 1 e il 2 novembre 1975 Pier Paolo Pasolini muore assassinato all’Idroscalo di Ostia: con lui, dirà Alberto Moravia ai suoi funerali, muore uno di quei due o tre poeti che nascono in un secolo. L’unico poeta civile che la sinistra italiana abbia avuto.

A trent’anni di distanza, molti programmi televisivi, manifestazioni pubbliche, articoli e libri ricordano la sua opera di artista, di intellettuale, di polemista infaticabile. 

In un’intervista fino a oggi inedita del 1969, pubblicata da Archinto edizioni, Pasolini ricorda con una lucida e appassionata sintesi il suo percorso intellettuale: dagli anni giovanili friulani, all’incontro con le borgate romane alla passione per il cinema, alla crisi della fine degli anni sessanta. Un’occasione per essere ancora una volta provocati dalla tensione etica che caratterizzò sempre la sua ricerca: e che mai ebbe il timore o la vergogna delle proprie contraddizioni.

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Pasolini nelle borgate romane negli anni Cinquanta.
“Ragazzo del popolo che canti
qui a Rebibbia sulla misera riva
dell’Aniene la nuova canzonetta, vanti,
è vero cantando, l’antica, la festiva
leggerezza dei semplici. Ma quale
dura certezza tu sollevi insieme
d’imminente riscossa, in mezzo a ignari
tuguri e grattacieli, allegro seme
in cuore al triste mondo popolare?”
(P.P. Pasolini, Il canto popolare).
Pasolini con Franco Citti, 1960.
Scelto come protagonista di Accattone, per il suo volto, per il suo lessico e per la sua conoscenza della Roma borgatara, Citti sarà uno dei più affezionati amici di Pasolini e uno degli attori non professionisti da lui più amati. “Io preferisco lavorare con attori scelti nella via, a caso […]. L’attore professionista ha fin troppo l’ossessione del naturale e del ghirigoro. Ora, io odio il naturale (che del resto viene per lo più esagerato dall’attore per paura di non rendere le sfumature), detesto, in arte, tutto ciò che attiene al naturalismo” (P.P. Pasolini, Il sogno del centauro).



Pasolini durante le riprese di Salò, 1975.
“All’inizio io la [la tecnica cinematografica] usavo per afferrare la realtà, per divorarla, tentavo con la mia cinepresa di restare fedele a questa realtà che apparteneva agli altri, al popolo. Ora è differente, io utilizzo la cinepresa per creare una sorta di mosaico razionale, che rende accettabili, chiare, affermative delle storie aberranti […]. Invece di mettersi al servizio della mia interiorità o magari invece di far pesantemente risaltare l’interiorità degli oggetti, essa è impiegata ora come metodo di stilizzazione, di riduzione degli elementi dell’essenziale” (P.P. Pasolini, Intervista, in “Cahiers du Cinéma”, 1969).

Isabelle Huppert – “una certa idea di verità”.

Protagonista di Gabrielle, l’ultimo film di Patrice Chéreau presentato al Festival di Venezia, Isabelle Huppert anche in quest’occasione non manca di spiazzare lo spettatore. A partire da questa pellicola qualche riflessione sulla recitazione dell’attrice francese. Di Maria Pia Petrini Isabelle Huppert non aderisce mai perfettamente ai suoi personaggi, restituendoli al pubblico sfaccettati e veri.
Asciutta ed essenziale, priva di eccessi nei gesti, nel tono di voce e nei movimenti, mai sopra né sotto le righe, risulta comunque sempre ‘fuori parte’, inducendo in tal modo lo spettatore a prestare uno sguardo attento.
Un grande talento speso per mostrare un mondo senza veli e un animo umano complesso e contraddittorio.

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Sul volto di Isabelle Huppert (nella foto, in Gabrielle) le labbra si piegano appena in un sorriso tanto lieve quanto penetrante senza quasi modificarne i lineamenti, mentre gli occhi, poco più che socchiusi, rivelano uno sguardo fermo e distaccato ma al contempo incuriosito e interessato.

Nella commedia di François Ozon, Otto donne e un mistero, Isabelle Huppert (nella foto) è Augustine, donna acida e arcigna ma evidentemente finta e ironica: a tratti l’attrice indossa i panni di divertita spettatrice e sul suo volto compare un sottile sorriso estraneo alla parte.

Isabelle Huppert (nella foto, in Gabrielle), introducendo un accenno di sorpresa e un impercettibile sorriso ironico allo sguardo, riesce a rendere intenso quel sentimento di disprezzo che le si legge sul volto, pur mantenendo tratti somatici quasi inalterati e distesi.

Un nuovo conformismo.

Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana (Therapeutic culture cultivating vulnerability in an uncertain age) è il titolo di uno studio del sociologo ungherese Frank Furedi, recentemente pubblicato dalla casa editrice Feltrinelli. Di Donatella Orecchia
Con uno stile chiaro e diretto, lo studioso ci conduce lungo un ricco percorso di analisi e di critica della società contemporanea. Una nuova cultura, sostiene l’autore, si è diffusa nel corso degli ultimi trent’anni nel mondo occidentale colmando, in gran parte, il vuoto lasciato dallo sgretolarsi dei sistemi culturali di riferimento precedenti -le religioni tradizionali, da un lato, e i grandi progetti e le grandi ideologie politiche dall’altro -. Una cultura, detta ‘terapeutica’, che ha contribuito al progressivo affievolirsi della facoltà critica e al diffondersi di un nuovo pericoloso conformismo.

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