Pasolini su Pasolini. A trent’anni dalla morte.

Di Donatella Orecchia
Nella notte fra il 1 e il 2 novembre 1975 Pier Paolo Pasolini muore assassinato all’Idroscalo di Ostia: con lui, dirà Alberto Moravia ai suoi funerali, muore uno di quei due o tre poeti che nascono in un secolo. L’unico poeta civile che la sinistra italiana abbia avuto.

A trent’anni di distanza, molti programmi televisivi, manifestazioni pubbliche, articoli e libri ricordano la sua opera di artista, di intellettuale, di polemista infaticabile. 

In un’intervista fino a oggi inedita del 1969, pubblicata da Archinto edizioni, Pasolini ricorda con una lucida e appassionata sintesi il suo percorso intellettuale: dagli anni giovanili friulani, all’incontro con le borgate romane alla passione per il cinema, alla crisi della fine degli anni sessanta. Un’occasione per essere ancora una volta provocati dalla tensione etica che caratterizzò sempre la sua ricerca: e che mai ebbe il timore o la vergogna delle proprie contraddizioni.

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Pasolini nelle borgate romane negli anni Cinquanta.
“Ragazzo del popolo che canti
qui a Rebibbia sulla misera riva
dell’Aniene la nuova canzonetta, vanti,
è vero cantando, l’antica, la festiva
leggerezza dei semplici. Ma quale
dura certezza tu sollevi insieme
d’imminente riscossa, in mezzo a ignari
tuguri e grattacieli, allegro seme
in cuore al triste mondo popolare?”
(P.P. Pasolini, Il canto popolare).
Pasolini con Franco Citti, 1960.
Scelto come protagonista di Accattone, per il suo volto, per il suo lessico e per la sua conoscenza della Roma borgatara, Citti sarà uno dei più affezionati amici di Pasolini e uno degli attori non professionisti da lui più amati. “Io preferisco lavorare con attori scelti nella via, a caso […]. L’attore professionista ha fin troppo l’ossessione del naturale e del ghirigoro. Ora, io odio il naturale (che del resto viene per lo più esagerato dall’attore per paura di non rendere le sfumature), detesto, in arte, tutto ciò che attiene al naturalismo” (P.P. Pasolini, Il sogno del centauro).



Pasolini durante le riprese di Salò, 1975.
“All’inizio io la [la tecnica cinematografica] usavo per afferrare la realtà, per divorarla, tentavo con la mia cinepresa di restare fedele a questa realtà che apparteneva agli altri, al popolo. Ora è differente, io utilizzo la cinepresa per creare una sorta di mosaico razionale, che rende accettabili, chiare, affermative delle storie aberranti […]. Invece di mettersi al servizio della mia interiorità o magari invece di far pesantemente risaltare l’interiorità degli oggetti, essa è impiegata ora come metodo di stilizzazione, di riduzione degli elementi dell’essenziale” (P.P. Pasolini, Intervista, in “Cahiers du Cinéma”, 1969).

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