Leo De Berardinis: The connection

In ricordo di Leo ripropongo un mio articolo del 1983, ripubblicato in volume l’anno dopo. Leo compare qui come uno di quei teatranti, e furono assai pochi, che affrontarono, nel momento della polemica sul (e all’interno del) teatro di contraddizione alla svolta degli anni ottanta, il problema dell’avanguardia nel modo più rigoroso unito a un’espressione artistica eccezionale.
Di Gigi Livio

Lo scritto che qui si ristampa è di venticinque anni fa e Leo compare come protagonista d’eccezione del
teatro di contraddizione e cioè del teatro dei nostri tempi. In The connection troviamo proprio tutto: il grottesco
del sublime, l’utopica tensione verso un “fare” che non sia immediatamente compromesso col mercato
(in questo periodo Carmelo Bene perseguiva ormai da tempo l’erezione di un monumento a se stesso sotto
forma neoclassica), il riappropriarsi della morte come unica possibilità di vivere una vita che, attraverso
la coscienza della propria inautenticità, recuperi dalla palude in cui siamo immersi l’unica forma di (residua e miserabilmente residuale) autenticità. Il tutto reso in un linguaggio di scena mirabile tanto per eccezionalità
attorica quanto per formidabile elaborazione registica; là dove vibra ancora il riflesso profondo del lungo
sodalizio con Perla.

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Leo De Berardinis, The Connection (1983)



Leo De Berardinis, The Connection (1983)

Lucien Freud

Una riflessione sulla pittura del maestro inglese. Di Maria Pia Petrini

Attraverso una ricerca in profondità, Lucien Freud porta sulla superficie della tela la stratificazione
di cui è fatta la vita: una pittura sulla quale l’occhio è costretto a fermarsi e vedere una vita scabra,
ruvida, impervia, che porta i segni del suo disfacimento.

Corpi privi di tensione ma che accolgono la lotta, “campi di battaglia” che stanno lì a dirci quanto
il cammino dell’uomo sia un tentativo di far luce nell’oscurità che l’avvolge. Il loro realismo non sta 
nell’efficace riproduzione delle fattezze, quanto nel disvelamento dell’animo umano.

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Freddie Standing, 2001, olio su tela, 248,9X172,7 cm 

Un’opera che ha qualcosa di monumentale nonostante – e in contraddizione – con quello che può apparire l’atteggiamento “dimesso” della figura. Si tratta di un corpo assolutamente umano, che nulla conserva dell’eroe del mondo classico né nella posa né nello sguardo, eppure una sorta di eroismo lo caratterizza. Un coraggio, tutto umano, concreto, terrigno è dipinto nel corpo solcato dalle pennellate che lo costruiscono e al contempo ne sottolineano il disfacimento

Il «rampollo degenerato» Tommaso Landolfi

Un secolo fa nasceva Tommaso Landolfi: rileggendo le sue pagine ritroviamo il significato della sua inesausta battaglia contro la scrittura, che è la rabbia contro l’ineffabilità
e incomprensibilità della vita, e riscopriamo il coraggio di una scelta radicale, nella quale l’artista consuma fino all’ultimo dei suoi respiri.
 Di Silvia Iracà

Pochi ritagli tolti da uno dei tre diari landolfiani, Rien va (1963), e dal racconto La muta (1964) per provare
a spiegare perché questo nostro grande scrittore sia ancora così attuale e come il suo rovello da «ottocentista
in ritardo», vissuto con strazio e contraddizione, ne faccia un artista della modernità, capace di incidere 
nella realtà del suo e del nostro tempo con l’esempio della sua “lotta senza quartiere” alla parola e 
all’inafferrabilità della vita.

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Tommaso Landolfi

A Charlie Parker di Leo De Berardinis e Perla Peragallo. Una riflessione a margine

Di Donatella Orecchia

Il 7 maggio 2008 a Bologna si è svolta una giornata dedicata a Leo De Berardinis, a cura di Claudio 
Meldolesi e Angela Malfitano. All’interno di un fitto programma, in cui sono stati coinvolti come testimoni 
attori, collaboratori e studiosi che hanno conosciuto da vicino il lavoro di questo artista, è stato proiettato 
il film A Charlie Parker (1968) di Leo e Perla. Un’occasione preziosa per vedere un film di straordinario 
interesse, ma anche per riflettere sulle scelte dei due teatranti in merito alla volontà di non preservazione 
dei loro atti artistici.

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Quentin Tarantino. Pulp fiction. Se il critico non critica

È uscita in libreria la monografia dedicata a Pulp Fiction di Alberto Morsiani. L’Asino vola ospita volentieri la recensione al libro di uno studente della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Torino. Di Enrico Pili

La monografia Quentin Tarantino. Pulp Fiction di Alberto Morsiani è l’ennesimo elogio a Pulp Fiction (1994):
film moralista, prepotentemente conformista, e frutto maturo di quel naturalismo aggiornato all’estetica postmoderna. Ma il libro di Morsiani ci pone anche di fronte alla tendenza di certa critica a rinunciare a determinare il valore dell’opera di fronte a cui si pone – per usare un’espressione di Ezra Pound – limitandosi 
di fatto ad assecondare il gusto dominante.

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Cinema e contesti. A proposito del Divo e di Gomorra

Il divo di Paolo Sorrentino e Gomorra di Matteo Garrone, nelle sale dopo i successi riportati 
al 61° festival di Cannes, tornano a far parlare di “cinema d’impegno” e risollevano gli animi di chi, in Italia, lamentava l’assenza di un cinema di denuncia, capace di scuotere le coscienze.
Ma le due pellicole sono mosse da intenti diversi e, per certi aspetti, lontani dall’impegno civile e politico che caratterizzò il nostro cinema negli anni sessanta e settanta.
 Di Silvia Iracà
Oggi si assiste a uno stemperarsi di quella connotazione “forte” dell’impegno nel cinema e in generale 
in tutta l’arte. Tant’è che spesso per guadagnarsi un tale riconoscimento sembra essere sufficiente 
un soggetto che attinga dalla materia di volta in volta politica, storica o sociale, senza che l’impronta autoriale
si spinga al di là della semplice illustrazione, o ancora, dell’acritica accettazione dell’esistente, riducendo
così la storia a un pacificante spettacolo di intrattenimento.

Una delle immagini “belle” del film Il divo. Sorrentino spesso organizza le inquadrature secondo un gusto manifestamente pittorico.
Qui, per esempio, ricorre alla citazione attraverso l’imitazione figurativa dell’Ultima cena leonardesca. Ma da questa accurata ricerca estetica che percorre tutta la pellicola non scaturisce, come dovrebbe (per contrasto
con la bruttura di ciò che quelle immagini illustrano) alcuno strazio, anzi a 
tratti si direbbe che Sorrentino se ne compiaccia, cedendo alle lusinghe 
di un gusto estetizzante e finendo per indebolire il senso dell’intera operazione registica.

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Ciro e Michele, i due ragazzi-emblema dell’epica camorristica inscenata da Garrone in Gomorra, sono qui ripresi durante una delle loro scorribande.
La sequenza da cui è tratto questo fotogramma, insieme a quella con cui si chiude la pellicola, è una delle più eloquenti e meglio riuscite del film, in cui spesso si ha la sensazione che gli attori non recitino una parte, ma incarnino, restituendolo senza orpelli, il paradigmatico paradosso delle loro vite e della realtà in cui sono immersi. In particolare, nella vicenda umana di questi due giovani si concentra il dramma del tentativo vano di un riscatto in un mondo dominato dai poteri criminali, dove si parla con le armi, si vive stretti dalla morsa della violenza e la vita di chi vorrebbe “distinguersi” non può che imitare la finzione di un film di mafia.

Il “fiammeggiante” Modena e la sua utopia teatrale

Una pagina del nostro più grande attore dell’Ottocento, Gustavo Modena, tratta dal breve scritto del 1836 Il teatro educatore. Di Armando Petrini

Modena fu un attore straordinario, il più grande dell’Ottocento, e forse non solo dell’Ottocento. Attore dallo stile estremamente raffinato, si impose come “teatrante” a tutto tondo, e cioè come artefice di un visione complessiva del teatro.

Egli impostò la sua “riforma” sui due cardini del realismo grottesco e del teatro educatore. Elaborò anche
una interessantissima forma di proto-regia d’attore. Ma la sua utopia, come accade per tutte le grandi utopie
della modernità, fallisce, perché il “teatro-bottega”, come lui stesso lo definisce, ha la meglio sui progetti di cambiamento radicale.

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La direzione degli attori. Dalla parte del regista ma non solo.

Il volume Azione! Come i grandi registi dirigono gli attori, a cura di Paolo Bertetto, affronta l’interessante questione del rapporto tra regia e recitazione. Di Mariapaola Pierini
L’attore cinematografico, per molto tempo relegato in secondo piano o del tutto ignorato in ambito
scientifico, è tornato da qualche tempo a interessare gli studiosi e i critici.
Agli attori vengono dedicati numeri speciali di riviste, volumi, convegni, collane editoriali: il panorama
è ricco e variegato, a dimostrazione che il lavoro dell’attore è diventato finalmente oggetto di analisi,
terreno di discussione e di studio. ù
Il volume curato da Paolo Bertetto si colloca a pieno titolo in questo contesto, affrontando il “problema 
dell’attore” dalla prospettiva del regista.
Benché la “direzione degli attori” sia un processo difficilmente indagabile, di cui non vediamo che il
risultato ultimo, di cui percepiamo l’effetto ma fatichiamo a ritrovare le cause, un discorso sulla direzione
degli attori non solo è possibile ma, come dimostra il libro in oggetto, è anche una chiave per dare
il giusto rilievo alla pragmatica del set e al ruolo svolto dall’attore nella complessa articolazione della
messa in scena.

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Rosa Luxemburg: un inno all’internazionalismo

L’Asino vola propone una lettera della grande teorica marxista in cui sono svelate le insidie del nazionalismo ed è affermato il carattere imprescindibile e fondante dell’internazionalismo nella pratica rivoluzionaria socialista. Di Chiara Delmastro

In un momento storico che vede riaccendersi, da più parti, fervori di stampo nazionalistico, proponiamo
una lettera scritta per compagni inglesi nel dicembre del 1914 da una delle menti più brillanti della scuola
marxista, la fondatrice della Lega di Spartaco Rosa Luxemburg; la missiva, oltre ad incitare alla
prosecuzione della lotta di classe nonostante il fallimento della seconda internazionale, è un duro atto di condanna verso i conflitti imperialistici – era appena scoppiata la prima guerra mondiale –, e un’ode
appassionata al sentimento di fratellanza universale che dovrebbe accomunare i lavoratori di tutto il mondo.

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Rosa Luxemburg (5 marzo 1870-15 gennaio 1919), nacque in Polonia, nel Voivodato di Lublino; giovanissima, scappò dapprima in Svizzera, dove frequentò l’università di Zurigo, 
e quindi in Germania, dove fu allieva di Karl Kautsky. La Luxemburg, insieme a Karl Liebknecht, si staccò dal partito socialdemocratico tedesco dopo che questo si schierò ufficialmente a favore della prima guerra mondiale, per fondare il partito comunista tedesco, la Lega di Spartaco. Entrambi furono assassinati per ordine dei socialdemocratici il 15 gennaio 1919. Rosa Luxemburg è stata da più parti riconosciuta come una della menti scientifiche più brillanti della scuola marxista; ma ella fu in primo luogo, come il fondatore del comunismo, soprattutto una vera rivoluzionaria.

Il nichilismo e i giovani di Umberto Galimberti: quando l’ospite più che inquietare chiede la resa

Un grande successo editoriale, una riflessione sulla condizione giovanile contemporanea che
invita alla resa e al ripiegamento su se stessi, rimuovendo le cause (e le prospettive) di un malessere reale.
 Di Donatella Orecchia
Fra divulgazione scientifica e intervento sull’attualità, il libro di Galimberti è l’espressione di un pensiero
che chiede ai giovani, e con loro all’intera società, la resa all’individualismo, alla deresponsabilizzazione
verso la storia collettiva e personale. Una descrizione apparentemente realistica e cruda del malessere
giovanile che, privata dei riferimenti alle radici storiche, alle ragioni economiche e alle responsabilità 
politiche, cela le contraddizioni del presente e nega ogni prospettiva al cambiamento.

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