Stupidità o razzismo?

Amichevole polemica tra Claudio Deiro e Gigi Livio su un’osservazione, a proposito dei festeggiamenti per la vittoria nel campionato del mondo dei giocatori tedeschi, di quest’ultimo nel suo articolo pubblicato a settembre Elogio di un pensiero banale.

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Götze, Klose, Kroos, Schürrle, Mustafi e Weidenfeller, campioni del mondo, prendono in giro gli argentini sconfitti.

Götze, Klose, Kroos, Schürrle, Mustafi e Weidenfeller, campioni del mondo, prendono in giro gli argentini sconfitti.

Elogio di un pensiero banale

La constatazione che le enormi ricchezze di cui si parla e la grande povertà di gran parte della popolazione siano dovute allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo sembra essere un pensiero banale tanto la cosa dovrebbe essere constatata da tutti con estrema facilità. Ma oggi non è più così. L’ideologia (nel senso di falsa coscienza) capitalistica ha certamente, almeno in larga misura, vinto. Pertanto forse è il caso di ripensare questo elemento fondante del capitalismo e cercare di riportarlo al suo stato di “banalità”, intesa quest’ultima come cosa che tutti dovrebbero non solo sapere ma anche valutare per capire meglio dove sta andando il mondo e operare conseguentemente a “cambiare verso”, per dirla con Landini. Di Gigi Livio

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I due fotogrammi sono tratti da uno dei film più famosi di Chaplin, Tempi moderni. Il primo è, per così dire, più scontato proprio perché molto conosciuto e riguarda la formidabile invenzione chapliniana della “macchina per mangiare” senza perdere troppo tempo. L’attinenza al nostro tema, quello dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, è molto evidente come è evidente l’altro, strettamente connesso al primo, dell’alienazione dell’operaio nell’epoca del capitalismo trionfante: il film è, infatti, del 1936.

Il secondo appartiene a una sequenza forse meno nota e si lega ancora più strettamente al nostro discorso. Si vede il “padrone” nel suo studio molto bello e spazioso che legge i giornali, mentre i suoi operai lavorano alla catena di montaggio, e una segretaria che gli porta la medicina con la puntualità dettata, anche questa, dall’agio e dalla ricchezza. Poi Chaplin ci fa vedere quella che oggi si definirebbe una televisione a circuito chiuso che allegorizza molto bene l’occhio del padrone come occhio di dio. L’occhio del padrone segue i suoi operai persino in bagno e il povero Charlot ne è terrorizzato. Inutile dire dell’attualità di questa immagine in un mondo dove pochi spiano e tutti siamo spiati per il solito scopo, che è, quasi ottant’anni dopo, sempre lo stesso: favorire il potenziamento del potere di chi lo detiene per meglio sfruttare chi non può sottrarsi allo sfruttamento.

Trash. La perversione senza eversione dell’arte contemporanea

Brevi note sul recente saggio Ars Attack. Il bluff dell’arte contemporanea del giornalista Angelo Crespi. Di Letizia Gatti

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Andres Serrano davanti alla sua opera Immersion, Piss Christ (1987), deturpata da un gruppo di fondamentalisti cristiani nel 2011, ad Avignone.
La controversa fotografia del Cristo crocifisso immerso nell’urina ha portato al successo internazionale l’artista statunitense Andres Serrano. L’opera ha suscitato, fin dal 1987, accesi dibattiti e le proteste della comunità cristina, culminate in una violenta campagna antiblasfemia nel 2011, in occasione dell’esibizione avignonese “I Believe in Miracles”. Serrano, in un’intervista rilasciata a un quotidiano francese, ha dichiarato: “Sono un cristiano, e un artista cristiano. Non amo la blasfemia. Il titolo dell’opera è puramente descrittivo e non porta alcuna connotazione anticristiana o antireligiosa. Il crocifisso è semplicemente un oggetto che diamo per scontato. Se il mio lavoro provoca attenzione e crea dibattito, è anche un buon modo di ricordare alla gente gli orrori che Cristo ha attraversato”.



Le meraviglie

Le meraviglie di Alice Rohrwacher, vincitore del premio speciale della giuria all’ultimo festival di Cannes, conferma il grande talento e la sensibilità straordinaria che già emergevano in Corpo celeste, uno dei film italiani più interessanti perlomeno degli ultimi dieci anni. Di Enrico A. Pili

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Le meraviglie di Alice Rohrwacher, vincitore del premio speciale della giuria all’ultimo festival di Cannes, conferma il grande talento e la sensibilità straordinaria che già emergevano in Corpo celeste, uno dei film italiani più interessanti perlomeno degli ultimi dieci anni. Di Enrico A. Pili

Giù le mani da Berlinguer

Durante la appena finita campagna elettorale si è sentito spesso citare il nome di Enrico Berlinguer, segretario del partito comunista ai tempi del “compromesso storico” e, più tardi, della “questione morale”. Un recentissimo libro di Gino Liguori, Berlinguer rivoluzionario. Il pensiero politico di un comunista democratico, edito da Carocci, ha permesso all’autore di questi appunti di soffermarsi brevemente sul problema di come si leggono il pensiero e l’azione di Berlinguer oggi e di tentare di metterne a fuoco alcuni aspetti. Di Gigi Livio

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A proposito di Vite vendute di Henri-Georges Clouzot e Il salario della paura di William Friedkin

Il mese scorso, al cinema Massimo di Torino, è stato riproposto, in occasione del suo restauro, il film Il salario della paura (The Sorcerer, 1977) di William Friedkin. Il film è tratto dal libro Le Salaire de la peurdi Georges Arnaud, che aveva già ispirato, nel 1953, l’omonimo film di Henri-Georges Clouzot, arrivato in Italia con il titolo di Vite vendute. Di Enrico A. Pili

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I due fotogrammi sono relativi ai momenti che precedono la morte dei protagonisti dei due film. Nel primo Montand mostra un ghigno felice e soddisfatto: i soldi ottenuti dalla compagnia petrolifera gli han fatto dimenticare gli amici morti (incluso Vanel, della cui morte si è reso responsabile) e gli fan sognare lussi da tempo dimenticati. Euforico, inscenerà alla guida del proprio camion una danza che lo porterà a precipitare da un dirupo. Clouzot ci mostra un mondo atroce nel quale i miserabili si fanno la guerra tra di loro per le briciole di pane che cadono dalla tavola imbandita degli sfruttatori. Yves Montand, sopravvissuto ai suoi simili che, come gli scarafaggi della prima sequenza del film, erano legati a lui da un filo che qualcun altro aveva legato, è finalmente libero di muoversi in libertà, ma è la libertà illusoria ed effimera di chi è rimasto uno sfruttato, uno “scarafaggio sociale”. Il secondo fotogramma ci mostra invece Roy Scheider, appena tornato a Las Piedras dopo la missione. Mentre i suoi compagni di tavolo gli parlano, il suo sguardo è assente e la macchina da presa va a stringere sul suo volto, isolandolo nella sua solitudine. Siamo di fronte al momento epifanico nel quale il nostro eroe comprende finalmente la vanità del tutto e decide di andare incontro a quella che, di lì a pochi secondi, sarà la sua morte per mano dei killer che un boss mafioso gli ha messo alle calcagna. Il messaggio è che il mondo e tutto ciò che vi accade non è un nostro problema: la violenza quotidiana che abbiamo sotto gli occhi e dentro di noi è un destino inalienabile. Non esistono rapporti di forza, non esiste la società o la cultura, non esistono nemmeno i nostri vicini, ma solo noi, chiusi in noi stessi di fronte a un destino avverso. Inutile dire che questa cinica visione del mondo è spesso uno degli alibi di chi cerca giustificazioni per la violenza che è lui stesso a praticare.

I due fotogrammi sono relativi ai momenti che precedono la morte dei protagonisti dei due film. Nel primo Montand mostra un ghigno felice e soddisfatto: i soldi ottenuti dalla compagnia petrolifera gli han fatto dimenticare gli amici morti (incluso Vanel, della cui morte si è reso responsabile) e gli fan sognare lussi da tempo dimenticati. Euforico, inscenerà alla guida del proprio camion una danza che lo porterà a precipitare da un dirupo. Clouzot ci mostra un mondo atroce nel quale i miserabili si fanno la guerra tra di loro per le briciole di pane che cadono dalla tavola imbandita degli sfruttatori. Yves Montand, sopravvissuto ai suoi simili che, come gli scarafaggi della prima sequenza del film, erano legati a lui da un filo che qualcun altro aveva legato, è finalmente libero di muoversi in libertà, ma è la libertà illusoria ed effimera di chi è rimasto uno sfruttato, uno “scarafaggio sociale”. Il secondo fotogramma ci mostra invece Roy Scheider, appena tornato a Las Piedras dopo la missione. Mentre i suoi compagni di tavolo gli parlano, il suo sguardo è assente e la macchina da presa va a stringere sul suo volto, isolandolo nella sua solitudine. Siamo di fronte al momento epifanico nel quale il nostro eroe comprende finalmente la vanità del tutto e decide di andare incontro a quella che, di lì a pochi secondi, sarà la sua morte per mano dei killer che un boss mafioso gli ha messo alle calcagna. Il messaggio è che il mondo e tutto ciò che vi accade non è un nostro problema: la violenza quotidiana che abbiamo sotto gli occhi e dentro di noi è un destino inalienabile. Non esistono rapporti di forza, non esiste la società o la cultura, non esistono nemmeno i nostri vicini, ma solo noi, chiusi in noi stessi di fronte a un destino avverso. Inutile dire che questa cinica visione del mondo è spesso uno degli alibi di chi cerca giustificazioni per la violenza che è lui stesso a praticare.

Su alcuni film usciti al cinema lo scorso mese

Alcune opinioni su Dallas Buyers ClubGrand Budapest Hotel e Nymphomaniac vol.1. Di Enrico A. Pili

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Matthew McConaughey in Magic Mike (diretto da Steven Soderbergh nel 2012) e in Dallas Buyers Club (Jean-Marc Vallée, 2013). Nel film di Vallée l’attore Matthew McConaughey appare visibilmente denutrito, in netto contrasto con l’immagine di muscoloso sex symbol sostenuta nei suoi film precedenti. L’oscar da lui vinto dimostra come sia ancora egemone l’idea secondo la quale la dote principale di un attore è la sua capacitè di essere “naturale” nelle vesti del personaggio da lui interpretato. Emerge il peso opprimente di una cultura cinematografica che fa dell’imitazione della natura il metro di valutazione dell’abilità di un attore, cultura nella quale resiste l’idea per la quale il sex symbol che voglia dimostrare di essere un “vero attore” dovrà per forza ripudiare la propria immagine divistica e rendersi “brutto” all’occhio dello spettatore medio, attraverso un lungo training fisico e pesanti sedute di trucco, indispensabili per supportare il suo “grande ruolo drammatico” (vedi anche Charlize Theron in Monster del 2003).

Matthew McConaughey in Magic Mike (diretto da Steven Soderbergh nel 2012) e in Dallas Buyers Club (Jean-Marc Vallée, 2013). Nel film di Vallée l’attore Matthew McConaughey appare visibilmente denutrito, in netto contrasto con l’immagine di muscoloso sex symbol sostenuta nei suoi film precedenti. L’oscar da lui vinto dimostra come sia ancora egemone l’idea secondo la quale la dote principale di un attore è la sua capacitè di essere “naturale” nelle vesti del personaggio da lui interpretato. Emerge il peso opprimente di una cultura cinematografica che fa dell’imitazione della natura il metro di valutazione dell’abilità di un attore, cultura nella quale resiste l’idea per la quale il sex symbol che voglia dimostrare di essere un “vero attore” dovrà per forza ripudiare la propria immagine divistica e rendersi “brutto” all’occhio dello spettatore medio, attraverso un lungo training fisico e pesanti sedute di trucco, indispensabili per supportare il suo “grande ruolo drammatico” (vedi anche Charlize Theron in Monster del 2003).

Dell’arte inutile come spreco di sé

Il recente saggio di Nuccio Ordine L’utilità dell’inutile propone un’appassionata meditazione sul carattere disinteressato dell’arte, contro la barbarie culturale imposta dalle leggi del mercato. Di Letizia Gatti

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Le immagini riproducono due momenti dell’adattamento televisivo del Mercante di Venezia (1969-70) di Orson Welles, contenuti in due film documentari, Orson Welles: The One-Man Band di Oja Kodar e Vassili Silovic e Searching for Orson di Jakov e Dominik Sedlar (1). La pellicola ebbe vita travagliata: Welles dovette dapprima lottare con i finanziamenti, che lo costrinsero a trasformare il lungometraggio in un mediometraggio di 40 minuti, poi con i permessi per girare a Venezia; infine, a riprese concluse, alcuni rulli furono rubati dal portabagagli della sua macchina e il progetto rimase incompiuto. Anni più tardi, a Malaga, in Andalusia, mentre era impegnato nelle riprese de La décade prodigieuse di Chabrol, l’attore rigirò il celebre monologo di Shylock (atto III, scena prima) andato perduto, in uno spazio scenico che accresce l’effetto di straniamento della sua interpretazione (2). Nuccio Ordine osserva come in quest’opera shakespeariana siano centrali i temi del denaro, dell’usura e del commercio. Per Marx il personaggio dell’ebreo che pretende la sua libbra di carne umana segna il passaggio “dall’usuraio al moderno creditore”: “il fantasma di Shylock”, spiega Ordine, “diventa, nei suoi scritti dedicati all’usura, metafora del capitale e dell’alienazione dell’uomo ridotto a denaro e a merce”.

Le immagini riproducono due momenti dell’adattamento televisivo del Mercante di Venezia (1969-70) di Orson Welles, contenuti in due film documentari, Orson Welles: The One-Man Band di Oja Kodar e Vassili Silovic e Searching for Orson di Jakov e Dominik Sedlar (1). La pellicola ebbe vita travagliata: Welles dovette dapprima lottare con i finanziamenti, che lo costrinsero a trasformare il lungometraggio in un mediometraggio di 40 minuti, poi con i permessi per girare a Venezia; infine, a riprese concluse, alcuni rulli furono rubati dal portabagagli della sua macchina e il progetto rimase incompiuto. Anni più tardi, a Malaga, in Andalusia, mentre era impegnato nelle riprese de La décade prodigieuse di Chabrol, l’attore rigirò il celebre monologo di Shylock (atto III, scena prima) andato perduto, in uno spazio scenico che accresce l’effetto di straniamento della sua interpretazione (2). Nuccio Ordine osserva come in quest’opera shakespeariana siano centrali i temi del denaro, dell’usura e del commercio. Per Marx il personaggio dell’ebreo che pretende la sua libbra di carne umana segna il passaggio “dall’usuraio al moderno creditore”: “il fantasma di Shylock”, spiega Ordine, “diventa, nei suoi scritti dedicati all’usura, metafora del capitale e dell’alienazione dell’uomo ridotto a denaro e a merce”.

Un breve ricordo di Alain Resnais

«L’Asino Vola» ha deciso, a un mese dalla sua morte, di ricordare il regista Alain Resnais, meritatamente considerato uno dei registi più importanti nella storia del cinema occidentale. Di Enrico A. Pili

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«La mia parola d’ordine, in un certo senso, è: approfittiamo del cinema per fare tutto quello che ci passa per la testa, visto che ne abbiamo la possibilità»