OperaarepO di Uno e Trino: un affondo, attraverso la finzione, nel cuore della realtà.

Uno spettacolo violento, un grido che può risvegliare le coscienze: la compagnia torinese, solo per collocazione abitativa, continua il suo inesorabile lavoro di contraddizione. Di Giuliana Pititu

OperaarepO, l’ultimo spettacolo di Uno e Trino, mette in luce, con notevole senso dell’arte, la tragedia che
ogni giorno si sviluppa e cresce nel nostro paese, e non solo. Si tratta di un disperante tentativo di
recupero del tragico in uno mondo in cui il tragico non esiste più perché sostituito completamente dal farsesco
e dalla falsità, una litania funebre ammaliante e tagliente che non lascia scampo.

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Non esistono immagini relative a questo spettacolo. Ma uno spazio nero come questo può servire a rendere l’idea della poetica di Uno e Trino e sostituire proficuamente le immagini mancanti. In una società che rende tutto spettacolo, che vuole immortalare qualsiasi evento della vita attraverso fotografie e riprese video, rendendo così morte ciò che un attimo fa era vita, l’inesistenza delle immagini ci sembra importante da sottolineare perché è una ulteriore dimostrazione della forte poetica di negazione delle due attrici. Il loro impegno, la loro concentrazione si è risolta solo nell’atto artistico-politico che hanno realizzato sulla scena. Concentrazione e impegno che confermano il legame profondo tra questo gruppo e il teatro di contraddizione. Su questa rivista in occasione di uno spettacolo di Claudio Morganti, esponente di questo teatro, Donatella Orecchia ha pubblicato una foto che ritrae l’attore nell’atto di grattugiare del pecorino sulla pasta. Un’immagine che non lascia spazio al facile compiacimento, come sottolinea la didascalia: “ […] un attore che sale sul palco per esprimere il suo furore artistico e civile con una forza che non può lasciare indifferenti e che poi per raccontarsi sceglie una grattugia, un pezzo di pecorino, un piatto di pasta, senza cedere però alla tentazione del facile ammicco […] ecco è scomodo. Difficile da catalogare. Difficile da archiviare” . Proprio per questo abbiamo scelto uno spazio nero per alludere al lavoro di Anna Tamborrino e Maria Vittoria Muzzupapa perché anche questo non può essere archiviato, catalogato, fermato in immagini. Le due attrici sono arte in presenza in tutto e per tutto, e null’altro.


Né più né meno, proprio così

L’ultimo lavoro di Riccardo Caporossi, frutto di un laboratorio tenuto a Torino, stimola a una riflessione sul concetto di realismo nel nostro tempo. Di Gigi Livio

Con Né più né meno, titolo che incarna perfettamente una poetica, Riccardo Caporossi imposta un
discorso sulla poesia nel teatro e sul realismo quali possono essere concepiti nel nostro tempo. Lo stretto
legame che si realizza fra il primo termine e il secondo costituisce certo il fattore principale della riuscita
artistica dello spettacolo.

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Le due fotografie dello spettacolo di Caporossi mostrano il momento in cui i non attori camminano sulle strisce pedonali e quello in cui il bambino, vestito di rosso, raccoglie in un grande gomitolo i piccoli gomitoli che i vecchi dipanano raccontando le loro esperienze di vita. Benché le fotografie di uno spettacolo come questo con altissima elaborazione formale rendano solo approssimativamente l’idea di questa elaborazione, possiamo qui vedere, nella prima immagine, come le persone che hanno preso parte al laboratorio si dispongano sulle strisce nel loro andare e venire. La seconda immagine documenta, invece, meglio il lavoro registico di Caporossi in quella mirabile scansione di linee rosse su sfondo nero che si compongono in uno scenario essenziale e fortemente allegorico.


Le due fotografie dello spettacolo di Caporossi mostrano il momento in cui i non attori camminano sulle strisce pedonali e quello in cui il bambino, vestito di rosso, raccoglie in un grande gomitolo i piccoli gomitoli che i vecchi dipanano raccontando le loro esperienze di vita. Benché le fotografie di uno spettacolo come questo con altissima elaborazione formale rendano solo approssimativamente l’idea di questa elaborazione, possiamo qui vedere, nella prima immagine, come le persone che hanno preso parte al laboratorio si dispongano sulle strisce nel loro andare e venire. La seconda immagine documenta, invece, meglio il lavoro registico di Caporossi in quella mirabile scansione di linee rosse su sfondo nero che si compongono in uno scenario essenziale e fortemente allegorico.


Vincere, il naturalismo e il melodramma

Unico film italiano in concorso al Festival di Cannes, Vincere di Marco Bellocchio potrebbe tentare un ambizioso discorso critico, ma gli elementi di interesse che emergono nella prima parte vengono presto soffocati dal dramma personale della protagonista. Di Enrico Pili
Nel Cinema la rimozione della finzione tramite un preteso sguardo “oggettivo” sulla realtà (naturalismo 
acritico) non porta mai a quella realtà presa in esame, a causa di un paio di tare ereditarie: il 
persistere dello sguardo del regista (e della sua “classe sociale”) e la maledizione del melodramma, che 
impestano quella presunzione di oggettività sacrificando la complessità sull’altare della lacrimevole
bega familiare.

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Molte le scene ambientate nei cinematografi: questa soggettiva di Ida Dalser permette a Bellocchio un discorso sul cinema come formidabile mezzo di propaganda, grazie alla sua capacità di “sparare” le immagini in faccia allo spettatore. È il discorso dei “ciechi” guidati da un cieco: questi fascisti salutanti sono collocati in un ambiente angusto, scurissimo, silenzioso, straniante.

I fotogrammi sono emblematici del trattamento della fotografia nelle diverse parti del film. Il primo mostra la redazione dell’Avanti!: l’ambiente vuoto, buio, decorato da drappeggi grotteschi e mortiferi costruisce un discorso critico sul partito socialista di allora. Il secondo mostra un esterno del manicomio di Pergine Valsugana: la fotografia si ferma a una distaccata descrizione ambientale.

I fotogrammi sono emblematici del trattamento della fotografia nelle diverse parti del film. Il primo mostra la redazione dell’Avanti!: l’ambiente vuoto, buio, decorato da drappeggi grotteschi e mortiferi costruisce un discorso critico sul partito socialista di allora. Il secondo mostra un esterno del manicomio di Pergine Valsugana: la fotografia si ferma a una distaccata descrizione ambientale.

Due pagine sul Futurismo di Mario De Micheli

Riprendiamo il discorso che abbiamo aperto nel mese di marzo con l’articolo Futurismo, nel centenario del Manifesto di fondazione di quel movimento, proponendo alcune pagine di Mario De Micheli da Le avanguardie artistiche del Novecento. Di Maria Pia Petrini

Mario De Micheli, nel suo testo dedicato alle avanguardie artistiche del Novecento, dedica un capitolo 
alle “Contraddizioni del Futurismo”, offrendoci un interessante punto di vista sul movimento e in particolare
sugli aspetti della pittura futurista: ne coglie la modernità, pur non tralasciando di sottolinearne gli aspetti
retrivi e tenendo sempre presente la condizione storica in cui è sorto. Identifica poi in Boccioni un artista 
moderno, che porta in sé e nella sua opera le contraddizioni del proprio tempo. 
Un artista d’avanguardia che rifugge il frammentismo impressionista, e dunque lo psicologismo del dato 
particolare, nel tentativo di avvicinarsi a una comprensione dolorosa del “dramma universo”.

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Materia, 1912 Olio su tela, 225X150 cm

Un quadro in cui la prospettiva classica è completamente ribaltata ed è annullato il rapporto tra sfondo e figura attraverso la loro compenetrazione. Boccioni, nel Manifesto della pittura futurista di cui è l’unico firmatario, afferma che “il ritratto, per essere un’opera d’arte, non può né deve assomigliare al suo modello, e che il pittore ha in sé i paesaggi che vuol produrre. … Per dipingere una figura non bisogna farla; bisogna farne l’atmosfera. … Le sedici persone che avete di fronte a voi in un tram che corre, sono una, dieci, quattro, tre: stanno ferme e si muovono, vanno e vengono, rimbalzano sulla strada, divorate da una zona di sole, indi tornano a sedersi, simboli persistenti della vibrazione universale…”.
Forme uniche della continuità nello spazio, 1913 Bronzo, 126X89X40 cm

In questa scultura la compenetrazione di figura e spazio è resa evidente proprio dall’assenza di distinzione tra fattezze anatomiche e linee di movimento: una figura che si fa movimento. Risulta allora evidente la piena e dolorosa comprensione di un mondo in cui “tutto si muove, tutto corre, tutto volge al rapido”, in cui “una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente” e in cui “le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono”. La tragedia dell’uomo moderno sta anche nel fatto che il suo dolore è interessante “quanto quello di una lampada elettrica, che spasima, e grida con le più strazianti espressioni di dolore”.



Cinema 3D: rivoluzione apparente

Il cinema 3D aderisce in piena regola alla logica dell’ideologia dominante
estremizzando, attraverso la terza dimensione, il carattere naturalistico che ormai da tempo domina le scene.
 Di Valerie Bubbio e Letizia Gatti

Come il cinema delle origini attraeva il pubblico pagante mostrando le “meraviglie” delle prime immagini
in movimento, così il 3D oggi attira lo spettatore per mezzo di presunte e spettacolari novità formali.
Sebbene infatti la tecnologia sia mutata, la forma – intesa come struttura – non è cambiata: sia le due 
dimensioni che la rappresentazione tridimensionale riproducono, nel cinema di consumo e intrattenimento, 
il più verosimilmente possibile il mondo e la naturalezza della vita quotidiana, facendo sembrare
consueti i fatti straordinari, per indurre lo spettatore a un’anestetizzante immedesimazione acritica.
La tecnologia 3D, in quanto portatrice della stessa ideologia culturale che muove la società dello spettacolo, 
è dunque una rivoluzione soltanto apparente che distoglie ancora una volta l’ uomo dalla comprensione
effettiva e concreta della realtà.

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Locandina di Bwana Devil (1952), il primo lungometraggio a colori girato in Natural Vision tridimensionale. Il film tenne il cartellone per circa 3 mesi e mezzo, un record per l’epoca. Agli anni Cinquanta risalgono le prime sperimentazioni sulla tecnologia virtuale applicata al cinema; dopo un breve successo iniziale l’interesse per i film in 3D calò per ridestarsi solo negli anni Ottanta e Novanta. Nel nuovo millennio il cinema tridimensionale, con il perfezionamento delle tecniche digitali ed elaborazioni grafiche più sofisticate, sta conquistando un ruolo considerevole nell’industria dell’audiovisivo. Esemplare la decisione degli organizzatori del Festival di Cannes 2009 di aprire la kermesse con il lungometraggio francese Up, ultimo film d’animazione realizzato dalla Disney/Pixar.

Fotografia scattata il 26 novembre 1952 al Paramount Theater di Hollywood da J. R. Eyerman durante la prima proiezione di Bwana Devil. Negli anni Cinquanta il pubblico poteva assistere a uno spettacolo in 3D solo nelle sale cinematografiche indossando gli appositi occhialini di carta con lenti bicrome. Oggi invece, con l’Home theatre 3D, la tridimensionalità arriva anche nelle case dello spettatore estremizzando quel naturalismo già presente in maniera pervasiva nello spettacolo televisivo di finzione.

Il ritorno all’ordine e il concetto di ‘teatro’

Oggi l’affermare posizioni critiche ormai superate fa parte del clima di ritorno all’ordine che ammorba la cultura italiana tutta. Di Gigi Livio
Un articolo di Carlo Ossola, docente universitario e critico letterario, uscito sul supplemento domenicale del “Sole 24 ore”,
offre lo spunto per affrontare il problema del ritorno all’ordine di tanti intellettuali arresi al potere che contribuiscono,
anche con la loro ignoranza, ma certo con molta burbanzosità, al decadimento culturale del paese.

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Home, quando la casa è “on the road”

La nuova pellicola della regista Ursula Meier racconta, attraverso la grottesca storia di una famiglia, le paure e le nevrosi della società contemporanea. Di Giuliana Pititu

Il film Home, grazie all’ottima commistione tra il lavoro registico di Ursula Meier e quello degli attori 
da lei scelti, in cui spicca la graffiante e destabilizzante presenza di Isabelle Huppert, rompe
la tranquillità dello spettatore, che cerca semplice intrattenimento, e semina un’inquietante paura che 
obbliga alla riflessione o alla fuga.

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Il film nella sua interezza è un grido violento, grido che risuona in modo particolarmente duro e impietoso grazie alla presenza della Huppert. La prima immagine ci mostra una madre eterea, quasi una fata rock, accattivante, come solo lei sa essere che non rimanda per niente all’idea classica e consolatoria della mamma. Isabelle Huppert aiuta i figli ad attraversare la strada ma sui loro volti non traspare nulla che richiami il rassicurante affidarsi alle cure materne: la sua sicurezza e leggerezza sono fortemente contrastate dalla loro inquietudine. L’immagine successiva riporta ancora al ruolo della madre, ripresa nello spazio a lei consono per definizione: la cucina. Anche in questo caso la Huppert crea distacco e inquietudine con il suo sguardo perso nel vuoto che lascia intravedere tutta la sua angoscia di essere umano.

Il film nella sua interezza è un grido violento, grido che risuona in modo particolarmente duro e impietoso grazie alla presenza della Huppert. La prima immagine ci mostra una madre eterea, quasi una fata rock, accattivante, come solo lei sa essere che non rimanda per niente all’idea classica e consolatoria della mamma. Isabelle Huppert aiuta i figli ad attraversare la strada ma sui loro volti non traspare nulla che richiami il rassicurante affidarsi alle cure materne: la sua sicurezza e leggerezza sono fortemente contrastate dalla loro inquietudine. L’immagine successiva riporta ancora al ruolo della madre, ripresa nello spazio a lei consono per definizione: la cucina. Anche in questo caso la Huppert crea distacco e inquietudine con il suo sguardo perso nel vuoto che lascia intravedere tutta la sua angoscia di essere umano.

Dolore perfetto di Claudio Remondi, regia di Claudio Remondi e Riccardo Caporossi

L’ultimo spettacolo di Remondi e Caporossi sembrerebbe, secondo la nostra visione critica, proporsi come un atto di resistenza di fronte alla resa di tanta parte dell’ex-avanguardia al mercato. Di Gigi Livio

L’ultimo spettacolo di Remondi e Caporossi, Dolore perfetto, offre il destro a una serie di considerazioni.
Infatti uno spettacolo non è mai soltanto uno spettacolo. La questione, oggi assai meno sentita di
quanto avveniva negli anni sessanta e settanta, del teatro e in genere dell’arte di contraddizione sembra
qui trovare una sua soluzione alla luce di constatazioni che riguardano la straordinaria forma in cui si 
struttura il testo spettacolare.

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Nel testo si dice che la ruota, elemento sostanziale e strutturale della scenografia di Dolore perfetto, è simbolo della vita e della morte. È chiaro che questa è una nostra lettura. Infatti molte altre valenze simboliche – l’opera d’arte contiene sempre più significati metaforici nei suoi segni e massime in quelli forti – possono essere attribuite a questo elemento scenografico: per esempio, ma proprio solo come esempio di questa polisemicità, si può pensare al gioco, alla ruota come richiamo al gioco dei bambini che ripetono spesso lo stesso gesto, mantengono il medesimo atteggiamento, eccetera. E allora si potrebbe parlare del gioco del teatro come gioco che si rivela profondamente tragico in questo nostro tempo. è un esempio e spetta allo spettatore cercare nel proprio modo di rapportarsi alle cose dell’arte teatrale trovare i propri significati. Le fotografie sono di Tomaso Le Pera.

Nel testo si dice che la ruota, elemento sostanziale e strutturale della scenografia di Dolore perfetto, è simbolo della vita e della morte. È chiaro che questa è una nostra lettura. Infatti molte altre valenze simboliche – l’opera d’arte contiene sempre più significati metaforici nei suoi segni e massime in quelli forti – possono essere attribuite a questo elemento scenografico: per esempio, ma proprio solo come esempio di questa polisemicità, si può pensare al gioco, alla ruota come richiamo al gioco dei bambini che ripetono spesso lo stesso gesto, mantengono il medesimo atteggiamento, eccetera. E allora si potrebbe parlare del gioco del teatro come gioco che si rivela profondamente tragico in questo nostro tempo. è un esempio e spetta allo spettatore cercare nel proprio modo di rapportarsi alle cose dell’arte teatrale trovare i propri significati. Le fotografie sono di Tomaso Le Pera.


Gran Torino con e di Clint Eastwood.

L’ultimo film diretto e interpretato da Clint Eastwood si inserisce senza problemi nelle file delle pellicole di immediato e facile consumo. Presenta però, nella recitazione del protagonista e nel trattamento del problema del popolo Hmong, prospettive interessanti che aprono degli spiragli per alcune riflessioni critiche. Di Enrico Pili

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La buia locandina del film evoca un nuovo giustiziere à la Callaghan, vendicatore in difesa dei “vecchi valori”, con lo sguardo arcigno e il fucile in mano, pronto a sparare per difendere la sua auto sportiva orgogliosamente americana. Le aspettative del pubblico di riferimento della locandina però saranno in parte disattese perché per tutta la durata del film Clint Eastwood non sparerà un solo colpo.

Questo primo piano di Clint Eastwood mostra la sua faccia rugosa, segnata da una smorfia di disprezzo che accentua ulteriormente le rughe attorno alla bocca, rendendola quasi una maschera grottesca.

Futurismo

Il centenario della pubblicazione del Manifesto di fondazione del futurismo (20 febbraio 1909) 
ha offerto lo spunto a una serie di celebrazioni. Sembra necessario, in questa occasione, iniziare a porre alcuni punti di discussione sul problema.
 Di Gigi Livio
Il centenario del futurismo viene celebrato in vari luoghi con articoli e mostre. Ma quale può essere oggi
l’interesse per quel movimento che vada al di là dell’uso che ne fa l’industria culturale?
Il futurismo italiano risulta ancora un problema da approfondire al di là delle varie mode dei vari momenti
storici. L’occasione è dunque opportuna per poter porre alcuni interrogativi su quel movimento e sul problema dell’avanguardia, oggi assai vivo proprio perché volutamene accantonato dal pensiero postmoderno.

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La prima delle due illustrazioni è la fotografia di una scultura di Umberto Boccioni dal titolo Sviluppo di una bottiglia nello spazio (1912) e la seconda una riproduzione della prima pagina di Zang tumb tuuum Adrianopoli ottobre 1912 parole in libertà di Filippo Tommaso Marinetti, pubblicato dalle Edizioni futuriste di “Poesia”, nel 1914. Le due illustrazioni, pur riproducendo opere che appartengono a generi artistici diversi e che risultano di valore artistico non certo uguale, mostrano però la volontà comune dello scultore e dello scrittore di cercare di esprimere attraverso nuove forme le esigenze di quegli artisti che intendono abbandonare un passato ormai stanco e sfibrato e aprirsi nei loro lavori alla novità dell’epoca storica in cui si realizzano.

La prima delle due illustrazioni è la fotografia di una scultura di Umberto Boccioni dal titolo Sviluppo di una bottiglia nello spazio (1912) e la seconda una riproduzione della prima pagina di Zang tumb tuuum Adrianopoli ottobre 1912 parole in libertà di Filippo Tommaso Marinetti, pubblicato dalle Edizioni futuriste di “Poesia”, nel 1914. Le due illustrazioni, pur riproducendo opere che appartengono a generi artistici diversi e che risultano di valore artistico non certo uguale, mostrano però la volontà comune dello scultore e dello scrittore di cercare di esprimere attraverso nuove forme le esigenze di quegli artisti che intendono abbandonare un passato ormai stanco e sfibrato e aprirsi nei loro lavori alla novità dell’epoca storica in cui si realizzano.