Concerti di massa e critica “debole”

Una breve riflessione sul debolismo della critica a partire da una considerazione sul carattere falsamente artistico dei prodotti musicali attuali. Di Letizia Gatti
I concerti-evento svoltisi in occasione di grandi manifestazioni di massa come il No B day e il concerto del Primo Maggio a Roma, solo per citare i casi italiani più recenti, sono esempi paradigmatici di come critica e pubblico attribuiscano alle opere di alcuni autori un presunto e inesistente valore artistico, segnale allarmante di una critica assente a se stessa, incapace di distinguere un’opera d’arte da un’opera in cui contraddizione e trasformazione sono invece solo apparenti.

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I concerti-live raccolgono la partecipazione di un numero imponente di persone, specialmente per eventi e manifestazioni d’eccezione. Qui sopra un’immagine scattata a Roma durante il concerto del Primo Maggio, in occasione della festa nazionale dei lavoratori. Tra le varie performances susseguitesi sul palco, quella di Vasco Rossi ha suscitato grande coinvolgimento emotivo e immedesimazione di pubblico: la sua canzone Il mondo che vorrei è un esempio significativo di quei prodotti falsamente artistici a cui vengono attribuiti invece importanti meriti di critica dall’ideologia dominante. Il testo è il lamento di superficie del tipico autore popolare che raccoglie il consenso e l’ovazione del pubblico di massa. Parole e musica di estrema banalità, perfettamente plasmate sul gusto medio, che nell’esprimere un rifiuto nei confronti dell’esistente – e quindi implicitamente del potere politico attuale – dicono di una sostanziale adesione ai valori della classe dominante. È il tipico atteggiamento conformista dell’anticonformista, moralistico e moraleggiante, ipocrita e inautentico; l’atteggiamento di chi ha bisogno di chiamarsi fuori da ciò che critica per sentirsi nella parte del giusto. E quel giudice che riempe l’aria col suo chiacchiericcio disprezzante e compiaciuto, per dirla con Welles-Pasolini, è l’uomo medio, un mostro.

A proposito di una trasposizione cinematografica del Ritratto di Dorian Gray

Un brutto film offre qui il destro a una proposta di lettura del Ritratto di Dorian Gray di impostazione diversa da quella corrente. Di Gigi Livio

Una recente pellicola tratta dal romanzo di Wilde mette il luce l’impossibilità di trasporre in film un’opera
simbolistica. La cosa è tanto più problematica se l’opera in questione oscilla tra simbolismo e
allegorismo come sembra essere il caso del Ritratto di Dorian Gray. Una possibile lettura, incentrata
sul parziale rovesciamento dei simboli in allegorie, può aprirsi a un’interpretazione del romanzo
in chiave di parodia. Si tratta di una strada esegetica probabilmente nuova e certamente diversa da 
quelle che normalmente vengono proposte.

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La prima fotografia riproduce la locandina italiana del film, la seconda un’inquadratura in cui si vede Dorian che fuma oppio. Al di là del facile e banale simbolismo della locandina, con il corpo di Dorian che in parte si dissolve, un cupo castello sul fondo e un cielo denso di imminente tempesta, ciò che colpisce, come è nell’intenzione di chi intende propagandare la pellicola, è lo sguardo bieco che più-bieco-non-si-può del protagonista. Il film, infatti, pone in primo piano la perversione sessuale di Dorian. Ma lo sguardo bieco non indica immediatamente perversione sessuale se non nella mente contorta del filisteo: ci saranno perversi con lo sguardo limpido, o con lo sguardo cupo, o con una luce crudele negli occhi o, al contrario, con uno sguardo dolce e mansueto. Lo sguardo bieco, lungi dall’essere simbolo di perversione sessuale è semmai sintomo di perversione sociale: avere quella luce negli occhi è peculiare di chi incentra tutto il mondo in sé e necessariamente disprezza gli altri; di chi intende costruire il proprio successo sulle sofferenze altrui o di chi è pronto a tradire qualsiasi causa e qualsiasi persona per il ben noto piatto di lenticchie; di chi non ha nessun rispetto per l’umanità e nemmeno, che lo sappia o no, per la sua; di chi, per venire a un esempio concreto, disprezza l’opera di un artista usandola come piedistallo per un suo successo commerciale. E questo vale anche per un semifallimento, come in questo caso. Consolazione magra, però, perché ciò non è certo dovuto alla raffinatezza dei gusti del pubblico, che semmai chiede prodotti ancora più commerciali e corrivi.

La prima fotografia riproduce la locandina italiana del film, la seconda un’inquadratura in cui si vede Dorian che fuma oppio. Al di là del facile e banale simbolismo della locandina, con il corpo di Dorian che in parte si dissolve, un cupo castello sul fondo e un cielo denso di imminente tempesta, ciò che colpisce, come è nell’intenzione di chi intende propagandare la pellicola, è lo sguardo bieco che più-bieco-non-si-può del protagonista. Il film, infatti, pone in primo piano la perversione sessuale di Dorian. Ma lo sguardo bieco non indica immediatamente perversione sessuale se non nella mente contorta del filisteo: ci saranno perversi con lo sguardo limpido, o con lo sguardo cupo, o con una luce crudele negli occhi o, al contrario, con uno sguardo dolce e mansueto. Lo sguardo bieco, lungi dall’essere simbolo di perversione sessuale è semmai sintomo di perversione sociale: avere quella luce negli occhi è peculiare di chi incentra tutto il mondo in sé e necessariamente disprezza gli altri; di chi intende costruire il proprio successo sulle sofferenze altrui o di chi è pronto a tradire qualsiasi causa e qualsiasi persona per il ben noto piatto di lenticchie; di chi non ha nessun rispetto per l’umanità e nemmeno, che lo sappia o no, per la sua; di chi, per venire a un esempio concreto, disprezza l’opera di un artista usandola come piedistallo per un suo successo commerciale. E questo vale anche per un semifallimento, come in questo caso. Consolazione magra, però, perché ciò non è certo dovuto alla raffinatezza dei gusti del pubblico, che semmai chiede prodotti ancora più commerciali e corrivi.


Riflessioni sul pubblico del teatro a partire da alcuni spettacoli di Prospettiva09.

La visione di qualche spettacolo di Prospettive09 ci porta a riflettere sullo stato del pubblico del teatro di ricerca.Di Enrico Pili
Si può ancora dare colpa agli attori e ai registi se il pubblico, in evidente stato catatonico, non reagisce agli stimoli? Ogni sforzo sembra vano, e attori e registi si trovano di fronte al compito sempre più arduo di risvegliare l’autocoscienza dello spettatore.

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Comunicato letto al pubblico durante la programmazione di Sotto l’ombrello accanto al bastone

Al teatro Sala 1 di Roma, Riccardo Caporossi, alla fine di ogni replica del suo spettacolo Sotto l’ombrello accanto al bastone, ha letto il breve comunicato che proponiamo ai nostri lettori. Di Riccardo Caporossi
Il disagio che vivono oggi tutti gli uomini di teatro -ma in modo particolare coloro che continuano malgrado tutto a proporre spettacoli di contraddizione al teatro e alla cultura corrente- ha ormai raggiunto limiti difficilmente superabili a causa della degradazione della cultura e dell’opportunismo dilagante.

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L’era dei giganti dai piedi d’argilla

Dalla Rete alla finanza, dall’alta tecnologia all’industria manifatturiera, un’ondata di gigantismo attraversa la nostra economia. Di Claudio Deiro

A partire dallo stimolante articolo Face to face (book) di Letizia Gatti una riflessione su di un diverso aspetto del problema.
new media infatti, grazie alle loro caratteristiche che non impongono costi di replicazione né vincoli territoriali,
evidenziano la patologica tendenza al gigantismo che investe il sistema economico nell’era tardocapitalistica, tendenza 
iniziata nel mondo reale con l’affermazione dei monopoli di fatto di Microsoft e Intel, e affermatasi con la globalizzazione
e il “progresso” tecnologico.

Mentre ciò viene oggi spesso spacciato come salvifica via d’uscita dall’attuale crisi economica, le prospettive che apre sono inquietanti. Infatti si prefigura uno scenario di aziende di dimensioni tali da renderne insopportabile la perdita, spesso
con conoscenze non replicabili, ma non per questo più solide e efficienti, come dimostrano gli accadimenti dell’ultimo periodo.

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Necessità dell’antagonismo

La critica al postmoderno, oggi, non può non partire da una constatazione tanto oggettiva quanto priva di inutili consolazioni: il postmoderno ha vinto. La mutazione antropologica, paventata da Pasolini più di quaranta anni fa, è ormai un fatto compiuto e quasi totalitario. In quel “quasi” è la nostra speranza.
La critica al postmoderno, inoltre, non può essere condotta a partire da una difesa a oltranza del moderno riproponendo valori di quell’epoca, e della ideologia che ne è scaturita, senza tener conto dei disastri cui questi valori hanno portato. Si tratta di fondare il discorso sulla constatazione che molti dei non-valori e dei regressi tipici del postmoderno trovano la loro origine nelle contraddizioni dell’epoca moderna.
Strumento ineliminabile messo a punto dalla modernità su tracce antiche è, invece, la dialettica che permette di scoprire le contraddizioni oggi più che mai occultate dall’ideologia dominante.
Queste contraddizioni non hanno voce anche per colpa di una cultura asservita. Portarle alla luce è il compito di ogni intellettuale che intenda ancora onorare il proprio ruolo: quello di tentare di essere la coscienza critica del presente.

Nell’epoca del trionfo del postmoderno, che frequenta una morale debole e che valuta in modo positivo il tradimento, scendere a patti sui valori fondamentali del vivere civile vuol dire tradire.
Il lavoro dall’interno delle istituzioni culturali, così come sono oggi, un tempo giustamente vissuto come sano e produttivo, non è più praticabile perché immediatamente si rivolta in compromesso col nemico.
Perché un’istituzione culturale esista, e sia dunque riformabile, è infatti necessario che la volontà delle persone che ne fanno parte la voglia e pretenda come tale e cioè come una struttura tesa a migliorare la cultura tramite un’autocritica e una critica costanti.
Nel momento in cui l’individualismo negativo dell’epoca postmoderna ha preso il sopravvento eliminando ogni forma di socialità della cultura a favore dell’interesse personale ha negato l’istituzione proprio in quanto tale.
La proposizione brechtiana “abbraccia il boia ma cambia il mondo” non è oggi più praticabile: chi abbraccia il boia viene a sua volta da lui stretto in un abbraccio mortale.

La riduzione a merce dell’arte e della cultura, contro cui gli artisti e gli intellettuali in genere hanno combattuto battaglie epocali nell’epoca moderna, non senza compromissioni da parte di molti, viene ora accettata come un dato ineludibile e addirittura esaltata nell’epoca postmoderna.
La dialettica, troppo spesso prostituita per giustificare trasformismi e opportunismi, deve ritrovare la forza e la capacità di ri-proporsi come strumento di analisi spietata (a incominciare da se stessi) per prepararsi a portare avanti uno scontro frontale, che non può prevedere discese a patti.

Un altro celebre detto ci serve a capire: “triste è il tempo che ha bisogno di eroi”. Viviamo tempi tristissimi che hanno, appunto, bisogno di eroi. L’interpretazione riduttiva e conformistica del detto di Brecht che crede di scorgervi l’invito a non fare gli eroi è cosa da pulcinella della morale.
E’ certamente vero, ciò che recentemente ha scritto Žižek e cioè che, “nell’era attuale del permissivismo che funge da ideologia dominante” riappropriarsi “della disciplina e dello spirito di sacrificio” è necessario poiché in questi valori “non c’è niente di intrinsecamente ‘fascista’” ed è altrettanto vero che anche il richiamo al coraggio di abbandonare posizioni opportunistiche e politicistiche -dove la politica è ridotta a chiacchiera- non ha in sé nulla di intrinsecamente ‘reazionario’.
Proporre un ideale eroico, oggi, vuol dire semplicemente prefiggersi di stare fuori, in ogni modo e sempre, dalla morale del mercato che gli omuncoli postmoderni declinano come “morale debole”. E anche dal linguaggio corrente democraticistico e filisteo, che è quello del mercato, e non aver paura della reboanza e della retorica utili al contrario a caricare dell’enfasi necessaria ciò che non può che essere detto in modo enfatico e reboante.
I valori antichi, che la borghesia ha sostituito con il freddo pagamento in contanti, mascherato ideologicamente da falsi valori, come ancora oggi ci insegna Marx, si basano sul rispetto di se stessi che comporta, di necessità, il rispetto degli altri.
L’inarrivabile Petrolini ci invita a partire dall’orrore di se stessi, “gettati” in un mondo che non abbiamo scelto e in cui dobbiamo pur vivere senza estraniarci dallo stesso ché sarebbe ridicola fuga individualistica nel proprio io. C’è un solo modo per tornare al rispetto di sé, oggi, ed è quello di provare orrore per se stessi.
E’ partendo proprio da questo orrore che hanno lavorato gli artisti di contraddizione, da Sade e Leopardi fino a noi. E ora che l’orrore ci morde il cuore e ci attossica il cervello, anche noi cercheremo, come critici e storici, di essere all’altezza di quei pochi artisti forti, ridotti ormai a pochissimi, che hanno il coraggio di porsi fuori del mercato senza cercare compromessi tanto osceni quanto ridicoli.

Se ci sarà un riscatto, e quando ci sarà, a loro, e a loro soli, guarderanno coloro che intendono preparare un “ordine nuovo”, nell’accezione gramsciana ovviamente, nel campo della cultura per sé e per quel numero spaventoso di persone che soffrono sotto il giogo del mercato capitalistico e che non hanno voce. Dar voce a questo popolo di morti-viventi è lo scopo di qualsiasi battaglia culturale che pretenda di avere ancora un senso.

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Face to face (book)

Un’indagine critica sulle logiche culturali di Facebook e sul totalitarismo mediatico dei nuovi strumenti di comunicazione di massa. Di Letizia Gatti
Con più di trecento milioni di iscritti e una plurimiliardaria quotazione in borsa, Facebook è il sito di social networking più popolare del momento. Il suo successo ci induce a riflettere con urgenza sul carattere falsamente democratico e libertario dei new media, ultime frontiere del tardocapitalismo moderno.

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Videocracy e la realtà berlusconizzata Videocracy e la realtà berlusconizzata

Videocracy, dell’italo-svedese Erik Gandini, è un interessante punto di vista sulla politica culturale portata avanti da Berlusconi attraverso la televisione negli ultimi trent’anni. Non quindi un documentario/dossier con fatti sconvolgenti e sconosciuti ma uno sguardo esterno a fatti noti che porta a riflettere sulla fascistizzazione del nostro stesso sguardo. Di Enrico Pili
Il progetto politico eversivo di Berlusconi, palesatosi nell’ultimo quindicennio, era in realtà iniziato trent’anni fa dalle sue televisioni private, che secondo un preciso disegno culturale hanno mirato a una trasformazione radicale della realtà, preparando la sua ascesa politica.

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L’agente Lele Mora si fa riprendere nella sua casa in Costa Smeralda, la “villa bianca”. La pacchianeria che ne caratterizza l’arredamento è spaventosamente in linea con il cattivo gusto propinato dalla televisione come gusto “elevato”, a cui tendere, che cancella il concetto di “valore” legato a un gusto veramente elevato e nobile. Le altre due case esaminate dal regista, quella di Carnevali e di Corona, sono invece luoghi assolutamente spersonalizzati: la prima viene inquadrata dall’alto nel suo spazio urbano, la periferia bresciana, vuota e inospitale, fatta di palazzoni con anonimi giardinetti; la seconda viene inquadrata solo in parte e dall’interno, ma ne vediamo il bagno, spaventosamente spoglio, ornato solo di un enorme specchio di fronte al quale il vip è atteso dai suoi stilisti personali.

L’agente Lele Mora si fa riprendere nella sua casa in Costa Smeralda, la “villa bianca”. La pacchianeria che ne caratterizza l’arredamento è spaventosamente in linea con il cattivo gusto propinato dalla televisione come gusto “elevato”, a cui tendere, che cancella il concetto di “valore” legato a un gusto veramente elevato e nobile. Le altre due case esaminate dal regista, quella di Carnevali e di Corona, sono invece luoghi assolutamente spersonalizzati: la prima viene inquadrata dall’alto nel suo spazio urbano, la periferia bresciana, vuota e inospitale, fatta di palazzoni con anonimi giardinetti; la seconda viene inquadrata solo in parte e dall’interno, ma ne vediamo il bagno, spaventosamente spoglio, ornato solo di un enorme specchio di fronte al quale il vip è atteso dai suoi stilisti personali.

Il metodo di lavoro di Pina Bausch

Pina Bausch, la coreografa e danzatrice cui si deve uno stile recitativo non solo nuovo ma profondamente radicato nel presente, è morta qualche mese fa. Come suo ricordo vengono qui proposti alcuni brani di un incontro-conferenza che tenne a Torino nei prima anni novanta.
A cura di Gigi Livio
Il metodo di lavoro di Pina Bausch, probabilmente la più grande coreografa e danzatrice del secondo
novecento, morta di recente, è qui ricordata riportando brani di un incontro-conferenza che tenne a Torino
nei primi anni novanta. Sono stati scelti i passi più significativi in cui la Bausch parla del proprio metodo
di lavoro. A questi ne è stato aggiunto uno, ironico e severo al tempo stesso, in cui dice dei suoi esordi a
Wuppertal.

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Le due fotografie di Café Müller (prima rappresentazione 20 maggio 1978) permettono di apprezzare, oltre alla presenza scenica di Pina Bausch, almeno la scenografia e l’uso delle luci. L’uso scenografico delle sedie risulta particolarmente suggestivo nella linea di un teatro-danza che pretende il suo radicamento nel moderno senza per questo rinunciare al risultato estetico degli strumenti quotidiani usati dalla regista-coreografa-danzatrice. La figura così graziosamente, ma anche disperatamente, allungata della Bausch viene replicata dall’ombra sul fondale, mentre si nota anche quella proiettata dalle sedie: al di là di tutti i significati che si possono attribuire all’“ombra”, questa fotografia ci permette di notare la valenza esteticamente raffinata dell’effetto di luce. Nella seconda fotografia notiamo invece il distacco recitativo e formale, non dovuto alla diversa capacità artistica ma a una scelta coreografico-registica ben precisa, tra Pina Bausch e gli altri danzatori; come a sottolineare una certa estraneità del nostro mondo ai valori estetico-formali di una tradizione se pure rivisitata e assunta in modo critico e tormentato.

Le due fotografie di Café Müller (prima rappresentazione 20 maggio 1978) permettono di apprezzare, oltre alla presenza scenica di Pina Bausch, almeno la scenografia e l’uso delle luci. L’uso scenografico delle sedie risulta particolarmente suggestivo nella linea di un teatro-danza che pretende il suo radicamento nel moderno senza per questo rinunciare al risultato estetico degli strumenti quotidiani usati dalla regista-coreografa-danzatrice. La figura così graziosamente, ma anche disperatamente, allungata della Bausch viene replicata dall’ombra sul fondale, mentre si nota anche quella proiettata dalle sedie: al di là di tutti i significati che si possono attribuire all’“ombra”, questa fotografia ci permette di notare la valenza esteticamente raffinata dell’effetto di luce. Nella seconda fotografia notiamo invece il distacco recitativo e formale, non dovuto alla diversa capacità artistica ma a una scelta coreografico-registica ben precisa, tra Pina Bausch e gli altri danzatori; come a sottolineare una certa estraneità del nostro mondo ai valori estetico-formali di una tradizione se pure rivisitata e assunta in modo critico e tormentato.

L’immedesimazione e lo straniamento. Conseguenze nello “spettacolo” politico

Certi politici (e cioè quasi tutti), come certi attori naturalistici (e cioè quasi tutti) perseguono
in ogni modo il tentativo di far immedesimare gli elettori e gli spettatori in se stessi in modo da evitare che questi possano sviluppare il loro senso critico.
 Di Valérie Bubbio

Mai come oggi, in piena dittatura democratico-mediatica, è importante ristudiare le posizioni di Bertolt
Brecht sull’immedesimazione e lo straniamento. È proprio la prima che ci dà ragione di un consenso politico altrimenti difficile da spiegare. Rimeditare quanto scrisse al proposito il drammaturgo e teorico tedesco 
può servire a indicare una via possibile, anche se difficilmente perseguibile, per uscire dall’impasse.

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Le immagini ci mostrano due atteggiamenti oratori del Führer tedesco e del presidente del consiglio italiano. Tra queste due fotografie passano circa settant’anni: le analogie vanno pertanto ricercate in modo attento a non cadere in banalità e in accostamenti superficiali. Tra Hitler, che dichiara a chiare lettere di essere un dittatore, usando in modo positivo il termine, e il dittatore mass-mediatico italiano che, al contrario, si dichiara democratico e nemico dei dittatori, usando quindi in modo negativo la parola, possiamo però osservare un’affinità nel modo di proporsi. Tenuto conto che Hiter non ha nessun motivo per risultare simpatico al suo popolo ma, invece, intende mostrarsi autoritario e feroce –sottolineiamo nuovamente che quasi un secolo divide i due personaggi- mentre Berlusconi vuole, e grazie al suo potere mass-mediatico riesce, risultare simpatico a quella maggioranza di italiani che sta dalla sua parte e che lo deve votare, l’atteggiamento però di ‘capo’ e cioè di persona in grado di assumersi la responsabilità di decisioni che possono cambiare l’assetto politico del proprio paese, è molto simile. Tutti e due, e qui sta la coincidenza, pretendono (e l’uno c’è riuscito e l’altro ci riesce da molto tempo ormai) l’immedesimazione in sé dello spettatore-elettore; che vorrebbe essere come loro, un vero capo e, grazie all’illusione immedesimativa, riscattare così la propria miserabile esistenza.