Sade al cinema. L’educazione sentimentale di Eugenie.

L’uscita nelle sale cinematografiche di L’educazione sentimentale di Eugenie, tratto dalla Filosofia nel boudoir di Sade, è l’occasione per una riflessione sulle modalità di trasposizione di un’opera letteraria (e di un’opera così ricca e importante come quella di Sade) in un film. Di Gigi Livio e Armando Petrini La trasposizione di un’opera letteraria in un film pone il problema complesso del rapporto fra linguaggio scritto e linguaggio cinematografico.
Nonostante la maggior parte dei film tratti da opere letterarie vantino un legame con l’opera di partenza semplicemente sul piano dei contenuti, la questione del rapporto fra letteratura e cinema andrebbe più correttamente affrontato dal punto di vista del linguaggio.
A maggior ragione quando si ha a che fare con capolavori assoluti come avviene nel caso dell’opera sadiana, e della Filosofia nel boudoir in particolare.

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Se è vero che il mondo di Sade non è “figurabile”, è altrettanto vero che, all’epoca, i suoi libri sono stati illustrati. Queste incisioni tratte da un’edizione della Nouvelle Justinesono particolarmente interessanti perché restituiscono, anche nella loro astratta macchinosità, l’universo nero sadiano.

Se è vero che il mondo di Sade non è “figurabile”, è altrettanto vero che, all’epoca, i suoi libri sono stati illustrati. Queste incisioni tratte da un’edizione della Nouvelle Justinesono particolarmente interessanti perché restituiscono, anche nella loro astratta macchinosità, l’universo nero sadiano.

Se è vero che il mondo di Sade non è “figurabile”, è altrettanto vero che, all’epoca, i suoi libri sono stati illustrati. Queste incisioni tratte da un’edizione della Nouvelle Justinesono particolarmente interessanti perché restituiscono, anche nella loro astratta macchinosità, l’universo nero sadiano.


Il puzzle Orson Welles

Una grande retrospettiva dedicata al regista al Festival di Locarno. Un’occasione per rivedere i capolavori e per scoprire preziosi tesori -frammenti di film incompiuti ma non solo- della sua variegata e travagliata carriera. Una vita divisa tra cinema, radio, teatro e televisione, in cui Welles non smise mai di sperimentare e di lottare in nome della propria autonomia artistica. Di Mariapaola Pierini
Nei dieci giorni della retrospettiva, una panoramica sulla multiforme carriera di Orson Welles. Un omaggio alla grandezza di un artista che nel corso della sua lunga carriera è stato costretto ad abbandonare molti dei suoi progetti, lasciando dietro di sé un’immensa mole di materiale frammentario e incompleto.
Negli anni molti sono stati i tentativi di dare conto e di ordinare quanto Welles ha prodotto, e questa retrospettiva aggiunge notevoli contributi alla ricostruzione della sua complessa vicenda artistica.
Il puzzle Orson Welles si arricchisce dunque di importanti tasselli ma, come le inchieste dei suoi film, sembra destinato a non chiudersi mai. Welles pare aver voluto alimentare un continuo interesse sulla sua personalità artistica e, soprattutto, disattendere costantemente le aspettative di chi vorrebbe chiudere definitivamente l’inchiesta e “vendere” la versione definitiva della sua vita e della sua opera.

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Un giovane Welles dietro ai microfoni della radio. Fin dagli anni Trenta, prima di approdare al cinema, e a fianco dell’intensa attività teatrale, Welles è tra i più coraggiosi sperimentatori del linguaggio radiofonico.

Orson Welles e Micheàl MacLiammòir durante le travagliate riprese di Othello. Un sodalizio straodinario tra due attori, un’intesa nata sul palcoscenico che conferisce intensità e pienezza ai personaggi di Othello e Jago.

Welles e Jeanne Moreau in Chimes at Midnight, l’ultima delle trasposizioni cinematografiche da Shakespeare. Welles fa del suo Falstaff un personaggio tra i più riusciti della sua carriera d’attore, una perfetta commistione di toni tragici e sfumature comico-burlesche.

La realtà non è opinabile. Riflessioni dal saggio Contro il relativismo di Giovanni Jervis.

Lo psichiatra Giovanni Jervis pubblica per i tipi di Laterza un’interessante indagine sulla deriva relativistica della cultura odierna offrendo al lettore elementi di sobria e ponderata critica al pensiero debole post-moderno. Di Silvia Iracà
La riflessione che Jervis propone nel suo saggio, partendo da posizioni di netto realismo materialistico in antitesi al dilagare di un “nuovo” idealismo, mette in discussione il grado di emancipazione che gli individui di una società posseggono per far fronte alle manipolazioni ideologiche del potere nel suo sforzo perenne di controllare e mantenere lo status quo.

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“L’hanno rapita”: una voce da Roma

Di Simona Innocenzi

Una nota di Donatella Orecchia

Lunedì 23 maggio scorso, in un’aula della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, la redazione dell’ “Asinovola” e il gruppo teatrale Unoetrino hanno incontrato un folto gruppo di studenti.

Alla presentazione della rivista e alla recita la signora bisturi ovvero l’uomo che fu poesia di Unoetrino è seguito un lungo e animato dibattito, continuato poi per giorni e giorni fuori da quell’aula fra gli studenti.

L’intervento che segue è una testimonianza molto particolare di quanto è accaduto quel giorno, un modo di raccontarlo o meglio di reagirvi da parte di Simona Innocenzi, studentessa iscritta al primo anno del Corso di Laurea in Storia Scienze e Tecniche della Musica e dello Spettacolo; una lettura possibile e una riflessione che prende l’avvio dalle questioni sollevate in quell’occasione per svilupparle in modo autonomo attraverso una scrittura che procede per esplosioni di immagini e spesso per interruzioni della linearità logico-discorsiva.

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Terza pagina e due “recensioni” anomale

La societas dello spettacolo! (analisi scientifica e spunti polemici dello specialista Unoetrino) e LODE (Lode a Remondi e Caporossi distruttori del teatro!). Di Unoetrino

Una nota di Gigi Livio

Quando è stata impostata questa rivista, abbiamo pensato di riservare uno spazio, Terza pagina, per le cose un po’ particolari che, via via, il tempo e i tempi avrebbero potuto proporci.

E’ questo il motivo per cui pubblichiamo oggi due pezzi non scritti nella consueta prosa critica, ma, invece, pensati e realizzati da una mente d’artista. Questo comporterebbe un diverso tipo di destinatario non fosse che i due pezzi si articolano come “recensioni” a due spettacoli che – accomunati nell’onnivora etichetta di “teatro di ricerca” o, peggio, “d’avanguardia” – sono invece così diversi tra di loro da risultare antitetici e, dunque, di significato opposto.

Unoetrino è un gruppo teatrale che merita la massima attenzione anche perché volutamente, e senza infingimenti, si inscrive nel grande solco del “teatro di contraddizione”. A questi tre giovanissimi teatranti abbiamo dedicato una riflessione che verrà pubblicata sul numero 10 dell’ “Asino di B.” la cui uscita è prevista per settembre.

Un’ultima avvertenza: le due “recensioni” sono già state pubblicate sul sito di Unoetrino; a noi però è parso il caso di riprenderle, per favorire eventualmente una lettura incrociata del sito e della rivista, dal momento che ci paiono non solo interessanti, ma anche, e soprattutto, ricche di valore dal punto di vista del pensiero critico che deve informare l’operare artistico.

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Toni Servillo, attore nella tradizione

Toni Servillo, oggi conosciuto dai più come protagonista del film Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino, da anni sui palcoscenici italiani, è l’esempio di un teatrante che si confronta con la tradizione in modo autentico e fuori dalle mode. Di Donatella Orecchia
Oggi la tradizione come concreto sapere collettivo che si tramanda di generazione in generazione è quasi scomparsa. Eppure spesso si riscontra che, in contesti anche molto diversi fra loro (dalla cucina, all’artigianato, all’arte), l’appello alla tradizione è quanto mai diffuso, funzionale a nutrire il mercato di prodotti con l’etichetta della ‘bontà di una volta’, dell’ ‘originalità’, della ‘credibilità’. 
Nell’arte e, in particolare, in teatro accade da anni qualcosa di molto simile. Ma qualcuno sa andare controcorrente e confrontarsi in modo autentico con ciò che resta della tradizione.
Toni Servillo è uno dei rari ma importanti esempi della scena italiana in cui il recupero e il confronto/scontro con la tradizione -del teatro napoletano da una parte e del grande attore italiano, dall’altra- è un autentico stimolo creativo e lo porta a prendere le distanze dal linguaggio teatrale egemone, piatto e normalizzato che, opportunisticamente, ha da tempo preso il titolo di teatro di tradizione.

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Un momento della recita di Sabato domenica e lunedì. L’affiatamento dei due attori, Toni Servillo (Peppino Priore) e Anna Bonaiuto (Rosa Priore), si riconosce nella sintonia con cui conducono il gioco scenico, nella precisione dei tempi teatrali, nell’incontro di temperamenti comici differenti ma che affondano entrambi nella cultura napoletana (per la friulana Bonaiuto cultura d’adozione): una lingua fatta tanto di parole, di cadenze, quanto di gesti, di smorfie, di accenti, di silenzi e, soprattutto, di ritmi. E il ritmo (di battute, di movimenti, di pause e accelerazioni) in teatro è cosa concreta e ‘antica’, che si tramanda concretamente dalle assi alle assi del palcoscenico, fra attori.

Toni Servillo nella parte del protagonista della commedia di Eduardo de Filippo, Sabato domenica e lunedì. Pensieroso e isolato dal resto della famiglia/compagnia, come sospeso ed estraneo a tutti, Servillo mostra, attraverso la stilizzazione del gesto sempre pulito ed essenziale, il personaggio; e rende così evidente la finzione del gioco teatrale.

Toni Servillo, protagonista del film di Paolo Sorrentino Le conseguenze dell’amore in una delle scene in cui, seduto al bar dell’albergo, guarda in silenzio la cameriera di cui si è innamorato: sguardo fisso, non un sorriso, quasi nessun movimento del volto, nessun compiaciuto cedimento al gigionismo e alla retorica sentimentale di tanto cinema italiano.

La musica classica spiegata agli studenti universitari

Il trio di Torino e le lezioni concerto per il Dams. A cura di Lucia Marino
E se i giovani scoprissero che in realtà la musica classica non è così noiosa e incomprensibile? E se bastasse un po’ di pazienza e impegno da parte dei musicisti? Il Trio di Torino reinventa il tempo del concerto spiegando Brahms, Schumann e Dvorak: la Sala lauree della facoltà di Scienze della formazione di Torino è piena, l’attenzione viva, nemmeno uno sbadiglio.

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La “cordiale” ferocia del mercato totale. Appunti sul nuovo romanzo di Andrea Bajani.

La pubblicazione di Cordiali saluti, il nuovo romanzo di Andrea Bajani, si inserisce a pieno titolo nel vivace dibattito culturale odierno, affrontando la desolante condizione della generazione orfana di valori e certezze. Di Silvia Iracà
In uno stile che alterna caustica ironia e delicata naïveté il lavoro di Bajani mostra una via possibile oltre il «vuoto pneumatico» nell’epoca del mercato totale che ha spazzato ogni residuo di socialità e affettività. E la mostra innanzitutto attraverso la riaffermazione del romanzo come genere.

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La restaurazione. A proposito di una polemica sulla marginalità della cultura.

Si è recentemente sviluppato un interessante dibattito sui giornali e in rete a partire da uno scritto di Antonio Moresco, La restaurazione. Questo intervento vuol essere un contributo alla discussione. Di Armando Petrini

Antonio Moresco ha pubblicato sul sito “Nazione indiana” un intervento dal titolo La restaurazione riferito al ruolo e allo stato di salute della cultura e dell’arte italiani. Ne è seguito un ampio e vivacissimo dibattito, in rete e sui giornali.
 
Le forti e veementi accuse di Moresco, in parte condivisibili, rischiano però di non centrare il problema. Che non è tanto quello della marginalità o meno della cultura e dell’arte, ma di come reagire e di come collocarsi rispetto a tale marginalità che è imposta dal mercato.

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Luttazzi di nuovo a teatro: bollito misto con mostarda

Ovvero: “L’intrattenimento dà al pubblico ciò che vuole, l’arte dà al pubblico ciò che ancora non sa di volere” (D. Luttazzi). Di Gaia Russo Frattasi
Il nuovo spettacolo di Luttazzi in tournée italiana, ricetta agrodolce che coniuga le sue ottime doti attoriche ad un’ironia fulminante e dolorosa; una corsa a perdifiato nella “Casa degli Orrori” nazionali ed internazionali durante la quale, con la risata come unica consolazione, il comico non risparmia niente e nessuno, meno che mai se stesso.

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Luttazzi non veste i panni di un personaggio, ma porta in scena se stesso. La sua pirotecnica e irrefrenabile maratona verbale è resa ancor più pungente dalle espressioni stralunate del suo volto irregolare e clownesco.

In una sapiente orchestrazione di ritmi e di pause, in un’abile commistione di registri, Luttazzi sulla scena pare una marionetta mossa da fili invisibili: sebbene la mimica fisica sia poco sfruttata, l’attore è essenzialmente un corpo grottesco, denso di orifizi, protuberanze e deformità che lo pongono in comunicazione col mondo.