La contessina Julie secondo il servo (di scena) Malosti.

La trasposizione teatrale della pièce strindberghiana La signorina Julie è uno spettacolo di intrattenimento intelligente che conferma Malosti come uno degli autori più interessanti del panorama teatrale italiano. Di Letizia Gatti

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Musica, suoni e rumori, come è tipico del teatro di Malosti, commentano accadimenti, voci, tempi dello spazio drammaturgico, fino alla completa saturazione. Nessun genere musicale è escluso purché sia funzionale alla narrazione. Il rischio più volte toccato dall’attore torinese è che l’insistito lavoro sulla forma sommerga il contenuto dell’opera o che, alla peggio, lo sostituisca del tutto, deragliandola sui binari di una retorica spettacolare tipicamente postmoderna.

Il personaggio della serva Cristina (Viola Pornaro), la moralista cuoca di casa del Conte nonché terzo vertice del triangolo amoroso serva-servo-padrona, ha la funzione di personaggio e narratore intradiegetico dei fatti che accadono nella cucina-tugurio della casa del conte – scenografia unica che riesce a soddisfare in modo originale e tipicamente malostiano tutte le esigenze di scena.

Hereafter. L’aldilà è un ventre materno bianco-latte per chi ha visto, vede, vorrebbe vedere cosa ci attende dopo la morte

Varcato il confine della vita, cosa ci attende? È la domanda delle domande, l’interrogazione che ruota intorno alla tanto applaudita ultima pellicola di Clint Eastwood. Impressioni su un film mancato che cerca di rispondere ad interrogativi millenari col linguaggio lacrimevole di uno pseudo-poeta (inter)nazionalpopolare, con buona pace di Gramsci. Di Letizia Gatti

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Un sensitivo con la faccia del bravo ragazzo Damon che fa l’operaio pur di non dover lucrare sul suo dono, l’infatuazione fallimentare per una giovane e bella ragazza problematica conosciuta durante un corso di cucina italiana a New York, la fuga a Londra sulle orme dell’amato Charles Dickens; una anchorman francese di successo sopravvissuta allo tsunami asiatico che si scopre cambiata, le visioni dell’aldilà, il colloquio con una psichiatra un tempo atea ricreduta, un libro autobiografico controverso, la lotta contro lo scetticismo degli editori-pescecani; i gemelli nati adulti che si prendono cura della madre eroinomane, il bullismo, la morte, i servizi sociali, la tossicodipendenza, il riscatto, l’amore, il lieto fine. La Provvidenza. Non si fa proprio mancare nulla Hereafter. Un cappone farcito con i più sgradevoli ingredienti dell’ovvio.

Il trailer (http://www.youtube.com/watch?v=xDnHfQtH0zU), si sa, è una delle vetrine più efficaci per pubblicizzare un film: la logica  a cui risponde non è perciò di coerenza narrativa con la pellicola che intende promuovere ma è di ordine commerciale. Quello di Hereafter aderisce tuttavia, come di frequente accade nel cinema cosiddetto mainstream, allo stesso modo narrativo del film di Eastwood; si è scelto quindi di affiancare all’articolo il trailer nella sua versione originale in modo che chi legge possa capire con più facilità le ragioni di certe argomentazioni critiche.

Ancora spettatori del naufragio?

La metafora del naufragio con spettatore come spunto di riflessione sui concetti di Comunità e Immunità. Cosa fare? Rimanere spettatori immuni al naufragio oppure imbarcarsi? Di Nicola Busca

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La metafora del naufragio con spettatore, battezzata da Lucrezio nel De Rerum Natura e ripresa poi da molta filosofia occidentale, fornisce un ottimo spunto per riflettere sui concetti di Comunità e Immunità. In base all’immagine lucreziana all’uomo si aprono due possibilità esistenziali antitetiche: essere meri spettatori oppure attori protagonisti della catastrofe. L’uomo può decidere se rimanere immune al mondo e al suo naufragio o, in alternativa, salire a sua volta sulla barca (la comunità stessa) che sta affondando.

La metafora del naufragio con spettatore, battezzata da Lucrezio nel De Rerum Natura e ripresa poi da molta filosofia occidentale, fornisce un ottimo spunto per riflettere sui concetti di Comunità e Immunità. In base all’immagine lucreziana all’uomo si aprono due possibilità esistenziali antitetiche: essere meri spettatori oppure attori protagonisti della catastrofe. L’uomo può decidere se rimanere immune al mondo e al suo naufragio o, in alternativa, salire a sua volta sulla barca (la comunità stessa) che sta affondando.

Lavoro e valore

La crisi economica fa vacillare uno dei cardini del tardo capitalismo, il disaccoppiamento tra valore dei beni e lavoro necessario per crearli, operazione sottilmente e occultamente ideologica. Proprio la (ri)proposizione di una formula per la determinazione del valore dei beni, con il discorso ideologico palese che sottende, potrebbe fornire una guida per l’uscita dalla crisi, non solo economica, in cui la società è caduta. Di Claudio Deiro

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La voix humaine di Ivo van Hove. Alla drammaturgia manca il grande attore, all’attore manca una grande drammaturgia.

Qualche appunto sullo spettacolo del regista belga presentato in prima nazionale a Torino in occasione della rassegna teatrale Prospettiva, dedicata quest’anno alle dinamiche del doppio.
Di Letizia Gatti

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Cocteau concepì la sua “tragedye lyrique” come pensandola già musicata. Il suo amico e collaboratore Francois Poulenc ne musicò il testo affidando il ruolo femminile a Denise Duval. La prima ebbe luogo all’Opera Comique di Parigi il 6 febbraio 1959, sotto la direzione di Georges Prêtre. La Duval fu protagonista inoltre del film omonimo diretto da Dominique Delouche nel 1970. Una pellicola in bianco e nero in cui la Duval è ripresa da diverse angolature mentre squaderna lo strazio della perdita camminando su e giù in una camera da letto (Nella foto la locandina del film così come appare nell’edizione in DVD)

La voix humaine di Ivo van Hove non convince ma alcune scelte autoriali riguardanti la scenografia e l’uso della luce sono interessanti. (Lo stesso non si può dire della colonna sonora, pastiche postmoderno che spazia da Paul Simon a Beyonce – eccezion fatta per il sapiente uso del sottofondo metropolitano nei momenti in cui la donna si affaccia alla finestra). La vetrata, usata per appendere una scritta recante l’implorazione “come home” e aperta per pochi minuti sul finale della piéce, segna il confine di separazione tra palcoscenico e platea, tra attore e pubblico. Lo spettatore è il voyeur di una “scena del delitto”, come definì Cocteau questo viaggio nell’autopsia dei sentimenti umani. Nello spettacolo di Ivo van Hove la luce e la scena minimale accentuano l’atmosfera da obitorio. Diversamente dalla maggior parte dei precedenti teatrali, operistici e cinematografici la scena si presenta spoglia: il rettangolo di luce illumina una stanza completamente vuota, alimentandone la percezione di soffocamento. Il finale di van Hove è una licenza poetica: la protagonista attacca il telefono e apre la vetrata. La musica esplode in un climax ascendente. Le luci si spengono nell’istante in cui la Reijn si sporge dal parapetto, apre le braccia e si lancia nel vuoto – fotografia di un corpo di berniniana memoria, colto nell’attimo in cui si-sta-per.