Elisabetta II. Non è una commedia. È anche una tragedia. La spietata “arte del perturbamento” in una delle opere più caustiche dell’ultimo Bernhard.

Appunti brevi su uno dei testi più tipicamente “bernhardiani” dell’autore austriaco e sulla prima rappresentazione italiana di Elisabetta II per la magistrale interpretazione di Roberto Herlitzka e la regia senza sbavature di Teresa Pedroni. Di Letizia Gatti

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Qui sopra Roberto Herlitzka (il vecchio industriale Herrestein) e Gianluigi Pizzetti (il servitore Richard) in una foto di scena. Come accade di consueto nelle opere teatrali di Bernhard, il rapporto fra i due personaggi principali si svilippa a partire dal binomio servo-padrone / vittima-carnefice: dove l’uno, il padrone, è ridotto alle dipendenze di un servitore a causa di una mutilazione alle gambe che dice di una frattura col mondo circostante riguardante più la sfera dello spirito che uno stato fisico, l’altro, il servo, vive in una dimensione di schiavitù psichica da cui non riesce del tutto a liberarsi, pena la morte stessa. In Elisabetta II, che ricalca per certi versi la struttura di Una festa per Boris (opera prima di Bernhard drammaturgo, 1970), si assiste tuttavia a un leggero rovesciamento dei rapporti di forza fra i due protagonisti, a favore del più debole dei due, il servo, che sembra aver maturato, secondo le parole di Herrestein, l’esigenza di liberazione dalla propria condizione. Così in Elisabetta II: “La catastrofe verrà / quando non ci vedrò più niente/ e non sentirò più niente / quando sarò in tutto e per tutto / Richard / alla sua mercé”; e ancora, più avanti, alla fine della scena seconda: “Se lei mi lascia lei mi uccide / Senza di lei sarei peduto lo sa / Non sarei più soltanto uno storpio / sarei uno storpo morto”; “Sul Semmering cambierò testamento / nel senso che vorrà lei Richard / nel senso che vorrà lei/ Potrà avere tutto da me / se rimarrà con me / ma proprio tutto“.

Sono stato dio in Bosnia – Vita di un Mercenario di Erion Kadilli

L’ultimo documentario di Erion Kadilli dimostra ancora una volta l’importanza dello stile all’interno di una categoria audiovisiva (il documentario appunto) le cui scelte formali sono spesso sottovalutate. Di Enrico A. Pili

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Nel documentario di Erion Kadilli il rapporto tra suono e immagine è regolato da scelte stilistiche ben precise. Quando vengono mostrate le immagini dell’obitorio (fig.1), cioè la realtà della morte, il suono scompare. L’insistere della ripresa di Delle Fave sul cadavere, spogliata di ogni commento sonoro, perde il suo elemento di morbosità per divenire semplice processo di esibizione documentaristica della morte. Al contrario, quando il mercenario parla del bambino ucciso a Vincovci (fig.2), è l’immagine a sparire: il racconto epico e terribile del mercenario viene udito dallo spettatore senza alcuna immagine che lo sostenga. La “realtà storica” dell’evento, ormai compromessa dalla narrazione spettacolare di Delle Fave, viene recuperata eliminando ogni possibile immagine, quindi evitando ogni compromesso narrativo. Ci viene così ricordato che qualcuno, fuori dal racconto spettacolare, è morto davvero.

Nel documentario di Erion Kadilli il rapporto tra suono e immagine è regolato da scelte stilistiche ben precise. Quando vengono mostrate le immagini dell’obitorio (fig.1), cioè la realtà della morte, il suono scompare. L’insistere della ripresa di Delle Fave sul cadavere, spogliata di ogni commento sonoro, perde il suo elemento di morbosità per divenire semplice processo di esibizione documentaristica della morte. Al contrario, quando il mercenario parla del bambino ucciso a Vincovci (fig.2), è l’immagine a sparire: il racconto epico e terribile del mercenario viene udito dallo spettatore senza alcuna immagine che lo sostenga. La “realtà storica” dell’evento, ormai compromessa dalla narrazione spettacolare di Delle Fave, viene recuperata eliminando ogni possibile immagine, quindi evitando ogni compromesso narrativo. Ci viene così ricordato che qualcuno, fuori dal racconto spettacolare, è morto davvero.