A vent’anni dalla morte, ricordiamo l’artista siciliano proponendo una lettura de La spiaggia. Di Maria Pia Petrini
Trascurando volutamente la polemica che divampava in quegli anni tra figurazione e non figurazione,
riteniamo comunque, con Pasolini, che, ‘‘il mantenersi fedele [di Guttuso] alla figura sia quasi una
forma di nevrosi”, e che “il [suo] realismo particolaristico – psicologico, regionale o nazionale – si irrigidisca,
fuori dalla storia, in una raggricciata emblematicità”.
Nel 1956 Renato Guttuso dipinge La spiaggia, un’enorme tela in cui ci è mostrata un’umanità al suo limite,
tesa e sofferente, in cui i corpi urlano senza farsi sentire. Un’apparente quiete pervade la tela, un silenzio che blocca i movimenti, una sofferenza che non riesce a esplodere.
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‘In questa continua presenza di tutto se stesso, il pittore vivrà la sua vera vita e attuerà la sua libertà, scoperto sul mondo, solidale con gli altri uomini e con essi in colloquio.’
‘… il pittore rischia tutto se stesso, mette in ballo tutto di se stesso, anche la parte più segreta e inconfessabile, e la tela viene coraggiosamente affrontata.’
(Renato Guttuso, Mestiere di pittore: scritti sull’arte e la società, De Donato Editore, Bari, 1972)
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Corpi distesi, sdraiati, accovacciati e in piedi riempono l’enorme spazio della tela, una sorta di groviglio
di figure in cui il tempo pare essersi fermato, costringendo all’immobilità e al silenzio il moto e il
divenire di quei corpi. Strappati al gesto ‘particolare’, essi divengono espressione di una condizione di
vita, ‘discorso’ sulla vita.